Quando attraverserò il fiume…TC "Quando
attraverserò il fiume…"

 “Quando la
memoria va in cerca di legno per scaldarsi dalla nostalgia riporta solo i
tronchi più belli…”

È vero che “l’uomo non ritorna mai nel grembo di sua
madre ma ritorna ben volentieri al suo villaggio natale.”

Ricordo, un’estate, quando ero un giovane studente
in Europa, un mio ritorno a casa in Africa, al villaggio, quel nostro villaggio
agganciato alla montagna.

Siamo gente di montagna, almeno così ci chiamano,
anche se a dire il vero il punto più alto avvicinava i novecento metri, ma si
sa che “colui che non è mai uscito da casa sua pensa che solo sua madre sa fare
bene il sugo.”

Una sera di quell’estate, una sera di luna piena,
una luna che illuminava la notte come se fosse in pieno giorno in un cielo
stellato.

Un cielo così vicino che sembrava di poterlo toccare
con la mano con in sottofondo il rumore ripetitivo e martellante del tam tam
rituale di qualche convento woodoo, che il vento portava e riportava come fosse
effluvio di un profumo.

Quella sera mio padre, prima di congedarsi per la
notte con la solita frase “vado a letto, che Dio ci svegli”, disse:

– Domattina bisogna svegliarsi presto, abbiamo un
giudizio nel quartiere Ablomé.

Poi continuò vedendo il mio sguardo interrogativo:

– Sì, so che non hai ancora raggiunto l’età per
sederti con noi, ma gli anziani hanno deciso che il tuo grado di studio, e il
fatto che hai viaggiato, ti dà il diritto di sederti sotto l’albero a palabre.
Vai a riposarti, domani sarai dei nostri a Ablomé.

Non avevo ancora realizzato del tutto l’onore che mi
si faceva, che mio padre era già entrato in casa.

Passai la notte a rimuginare mille pensieri: su come
avrei dovuto comportarmi, se avessi avuto la pazienza necessaria ad affrontare
tutti i rituali codificati del palabre, io che ormai ero abituato a
parlare in sintesi, ad arrivare subito al nocciolo della questione, ecc.

A dire il vero ancora oggi mia moglie si lamenta
della mia lungaggine nel chiacchierare, ma si sa che “un tronco di legno anche
se rimane per anni nel fiume, non diventa mai un coccodrillo.”

Forse mi ero appena addormentato quando mi sentii
scuotere dalla mano dolce ma decisa di mio padre che mi svegliò. Dio! Erano le
quattro e mezzo del mattino!!! Mi svegliò come era di consuetudine da noi senza
dire una parola perché non ci si può parlare senza essersi lavati la bocca
perché la bocca è il tempio della parola e la Parola da noi è una cosa sacra.

Dopo essermi sciacquato la bocca mi recai da mio
padre e il corpo mezzo piegato, presentai il mio saluto con la mano destra tesa
verso di lui e la mano sinistra sostenendo il gomito dell’avambraccio destro:

– Si è fatto giorno.

E lui rispose:

– Si è fatto giorno. Ti sei svegliato?

– Sì, grazie per ieri.

– Non c’è di che.

Si usa ringraziare sempre le persone per i favori
dei giorni precedenti perché in una società come la nostra, ove vige la legge
della solidarietà, “l’unica che permette di sopravvivere”, si è sempre in
debito di qualche cosa verso qualcuno.

Dopo questo breve saluto puntualizzato da silenzi ci
incamminammo verso Ablomé. Benché fosse l’alba, lungo i sentieri che
contornavano le case si sentiva, miscelato al russare dietro finestrelle
aperte, l’abbaiare di qualche cane, il pianto di fame di qualche bambino, i
primi timidi tentativi di qualche gallo e il fruscio regolare delle scope fatte
di ramoscelli di palma delle giovane fanciulle che già pulivano i cortili. Mio
padre avanzava con il suo kente raccolto intorno alla vita ed una parte
eccedente di tessuto gettato sulla spalla sinistra (come usavano gli antichi
romani), masticando in bocca il tronchetto di legno che usavamo per pulire i
denti.

In quell’orario impreciso fra notte e giorno, con
l’aria ancora appesantita dai sogni degli uomini, camminavamo con passo
solerte, fermandoci solo per salutare quelli che già andavano ai campi per
lavorare, e quelli che andavano alle toilette pubbliche fatte di un tronco
d’albero buttato lì parallelamente ad un fossato dove si faceva naturalmente
conversazione insieme ai bisogni fisiologici. Lungo la strada si usa salutarsi
anche se non ci si conosce:


Si è fatto giorno.


Si è fatto giorno.

– Ti sei svegliato?

– E i bambini? – (sottinteso: “come stanno?” anche
se non ne

hai)

– E
la moglie?

– E
il marito?

– E
il papà?

– E il lavoro?

Intanto ci si sorpassava, ma il saluto continuava
come in un’eco di litanie monacali:


Salutami quelli del campo!


Salutatemi quelli di Ablomé!


Sì… e grazie per il favore di ieri.

– Non c’è di che.

Finché la persona era a portata di voce, poi se ne
incontrava qualcun’altra e si ricominciava da capo. La parola, il saluto da noi
sono cose sacre e il non salutarsi era inconcepibile, gonfio di significato, di
un brutto presagio…

Arrivammo così ad Ablomé, nel cortile della vecchia
Nukuku. Nukuku nella mia lingua vuole dire “cosa morta” e in Europa si direbbe
subito “che brutto nome!”, invece è un nome di augurio, perché i suoi genitori
continuavano a perdere alla nascita tutti i bambini nati prima di lei. Così, quando
nacque, sua mamma la chiamò Nukuku “Cosa morta” per farla vivere perché
chiamandola così era sicura che la Morte non l’avrebbe portata via. Che se ne
fa la Morte di una cosa morta? Infatti la risparmiò fino a farne una vecchietta
brontolona con il viso solcato dalle insidie della vita.

Forza e potere della Parola, del Nome, del Verbo. Il
Verbo può quindi sconfiggere la morte…

Il cortile dell’anziana Nukuku era già gremito di
gente e un coro di “Ben arrivati voi che avete camminato!” ci accolse al nostro
varcare la soglia. Ci sedemmo sotto la tettoia di paglia nel cortile con gli
anziani e notabili del villaggio in semicerchio verso la casa dell’anziana. Ci
portarono come di rito dell’acqua in una mezza zucca in segno di accoglienza e
dopo averne versato qualche goccia a terra, come si usa da noi per gli spiriti
degli antenati (credo che in Europa si usi levare il bicchiere in alto per
prendere il cielo a testimone), ne bevemmo poi un sorso, senza badare tanto al
colore e tanto meno ai suoi piccoli ospiti.

Mi girai per guardarmi attorno. Senza dubbio ero il
più giovane dell’assemblea. In mezzo al semicerchio se ne stava seduto il capo
villaggio che chiamiamo tutti con rispetto Togbe cioè “nonno”, non perché fosse
vecchio o il più vecchio, ma perché incarnava la saggezza. Infatti, nei nostri
paesi, prima dell’avvento della colonizzazione e quindi della cultura scritta,
vi era solo la cultura orale. La storia, il sapere, gli usi e costumi, le
tradizioni, le regole sociali, tutto si tramandava da bocca a orecchio, cioè
con la parola, e quindi chi sopravviveva più a lungo più cose sapeva e più
esperienza di vita aveva, più anziano diventava, più saggio diventava, perché
veniva forgiato dall’esperienza della vita. Allora gli storici del villaggio
erano i griot, specie di cantastorie, e la sera i nonni tramandavano le regole
della società e le storie del villaggio tramite favole, parabole, indovinelli.
Gli anziani sono la memoria storica dei nostri villaggi, ed è ciò che ha fatto
dire quella famosa frase ad uno scrittore africano: “In Africa quando muore un
anziano è una biblioteca che brucia”.

In mezzo al semicerchio Togbe, il capo villaggio,
sedeva contornato dai suoi dignitari, dai notabili ed anziani del villaggio.
Alcuni aspiravano dalle loro pipe in terracotta voluttuose boccate di fumo,
mentre altri annusavano il tabacco macinato raccolto sull’unghia del pollice,
poi tiravano un grande starnuto, altri ancora masticavano pezzetti di cola con
evidente soddisfazione. Alcuni mi guardavano, poi guardavano mio padre e
assentivano silenziosamente con la testa come fanno le lucertole. Sentii una
voce dire:

– Il figlio di Fofoè è ormai un uomo!

Uno dei dignitari, Yawovi della famiglia di Nukuku,
alzò la voce e disse: – Agoo!!! – (che vuole dire sia “permesso” che “silenzio”)
un paio di volte.

E tutti smisero di parlottare fra di loro per
dirigere i loro sguardi verso di lui. Agoo!!! Poi accovacciandosi verso il capo
villaggio disse:

– Togbe ben arrivato – poi verso tutti – ben
arrivati.

Al che uno degli anziani, papà Wadefe, rispose:

– Togbe il nostro capo, vi fa sapere che sta in pace
e spera che ugualmente lo siate voi tutti.

E tutti in coro a dare il loro assenso.

– Togbe – riprese l’anziano Wadefe – Togbe vorrebbe
sapere il perché di questa convocazione mattutina, anche se è vero che quello
che si semina presto dà presto frutto; è altrettanto vero che non si accende il
fuoco se non si ha nulla da metterci sopra. Cosa ci dicono gli anziani della
famiglia di Nukuku?

Seguì un lungo silenzio in cui ognuno meditava sul
significato e la saggezza dell’anziano Wadefe e sulla sua conoscenza dell’arte
della parola, e dei proverbi. Dicono da noi che “I proverbi sono l’olio di
palma per fare passare le parole con le idee”, che “Il proverbio è il cavallo
della parola, quando la parola si perde è con l’aiuto del proverbio che la si
ritrova”.

Dopo quel silenzio, il dignitario Yawovi riprese la
parola rivolgendosi all’anziano Wadefe:

– Prego papà Wadefe di sentire con la mente e il
cuore queste mie parole, e di trasmetterle al nostro capo in modo tale che
possano giungere al cuore e alla mente di tutti quanti qui presenti. Ecco,
tutti qui presenti sappiamo di essere qui nel cortile dell’anziana Nukuku. Mia
cugina Nukuku, come tutti sapete, è gravemente ammalata ed è allettata da una quindicina
di giorni in una delle stanze qui davanti a noi: le sue ore sono ormai contate
ed ella si sta preparando per prendere il sentiero che porta al grande fiume… –
(dovete sapere che è credenza da noi che la vita e la morte si trovino sulle
due sponde opposte di uno stesso fiume, e morire non è altro che attraversare
il fiume).

– Ieri – riprese Yawovi – sua figlia Abra, che vive
ormai in città da anni, è venuta a trovarci per chiedere il nostro aiuto in
quanto sua madre anni addietro, dopo una lite furiosa prima che lei se ne
andasse da casa definitivamente, le disse queste testuali parole: “Fai quello
che vuoi figlia mia, ma come è vero che mi chiamo Nukuku, quando attraverserò
il fiume… tu attraverserai il fiume con me”.

A quelle parole così gravi, si sentì come un brivido
scuotere in un silenzio glaciale tutta l’assemblea. Poi Yawovi riprese a
spiegare che, ormai con la madre sul sentiero del fiume, Abra incominciò a
sentirsi male in città, a sentire ogni giorno come un bruciore dentro di sé, a
volte alla pancia poi nelle gambe, poi ai fianchi. Incominciò ad avvertire in
tutto il corpo come delle formiche correre sotto la pelle o come della corrente
sotto i capelli. In città la medicina dei bianchi non ci ha capito nulla, le
davano delle gocce che la facevano solo dormire.

Infine Abra esausta andò a consultare un indovino
che le disse guardando le conchiglie: “A volte è difficile separare l’unghia
dal dito, il pestello dal mortaio… torna al villaggio e capirai…”

Abra è tornata per vedere sua madre agonizzante, per
ricordarsi della tremenda frase “quando attraverserò il fiume… tu attraverserai
il fiume con me”, per capire la forza e potere della Parola, del Verbo.
Il Verbo che può sconfiggere la morte. II Verbo che può sconfiggere la morte
può dare la morte?

Il consiglio di famiglia, subito convocato, si recò
dall’anziana allettata per chiederle di ritirare le sue parole per non
aggiungere disgrazia a disgrazia, ma alle loro suppliche ella rispose solo con
il silenzio.

– Ecco perché vi abbiamo svegliati stamani per
chiedere il vostro parere: si sa che il fiume fa delle deviazioni perché non
c’è nessuno ad indicargli la giusta strada. E qui si spegne la mia voce –
concluse Yawovi.

Papà Wadefe, dopo un lungo silenzio, si girò verso
il capo villaggio e disse:

– Togbe, ti sono giunte le parole di tuo figlio?

Egli annuì, poi a sua volta girato verso il resto
dell’assemblea disse: – Assemblea, avete udito le parole di Yawovi?– e tutti
assentirono.

Papà Wadefe disse girando la testa verso il capo
villaggio:

– Togbe, senti le mie parole e che giungano sulle
ali del vento fino al cuore di Yawovi, digli che il consiglio degli anziani è
onorato della sua fiducia, ma come non si può chiedere ad un cieco di
riconoscere il bianco dal nero, non ci puoi chiedere un giudizio senza dirci
veramente cos’è successo fra Nukuku e sua figlia fino ad indurla a pronunciare
una così grave sentenza.

Togbe si rivolse a Yawovi: – Hai sentito?

Yawovi rispose: – Togbe, siate il mio messaggero
verso papà Wadefe e tutta l’assemblea; tutti qui conosciamo bene la storia di
Nukuku e di Abra, sappiamo tutti quanto irascibile diventò quando il marito
fuggì con la donna straniera e quanto esigente fu Nukuku verso sua figlia
quando già fanciulla le faceva pulire mille volte il cortile perché non era mai
abbastanza in ordine per lei. Mai il sugo della figlia incontrava il suo gusto;
una volta era troppo salato o poco salato, altre volte era troppo piccante o
poco piccante. Tutti qui ci ricordiamo infine quando Abra giunse in età di
scegliere un uomo per la sua vita, nessuno di quelli che chiedevano la sua mano
ne erano degni; uno perché troppo povero, quello perché magro, quell’altro
perché aveva delle cicatrici sulla faccia. Abra da brava figlia era sempre
stata ubbidiente, perché sapeva che la barba non può insegnare alle ciglia,
visto che anche se è più lunga o più grigia, ha visto il giorno dopo di loro.

– Ecco perché – riprese Yawovi – quando Kossikuma
che veniva sempre in ferie dalla città chiese la sua mano, e sua madre una
volta ancora si oppose, Abra si ribellò e dopo l’ennesima discussione se ne
andò a vivere col suo uomo in città. Abra ora è qui, e chi meglio di lei può
parlare dei suoi guai? Quindi se Togbe me ne dà il permesso e l’assemblea lo
consente, chiamerei Abra a raccontarci la sua storia.

Dentro di me mi dicevo che ormai la situazione era
già chiara, la potenza del Verbo si era una volta ancora manifestata. Dire da
noi che la Parola, il Verbo si è incarnato è cosa del tutto naturale, tante
volte avevo sentito dire che quando un figlio si ammala gravemente è perché i
genitori litigano spesso e le gravi offese che si dicono si incarnano come
malattia nel corpo del figlio e, finché non si riappacificano, il bambino non
guarirà.

Abra fu introdotta davanti al consiglio ed
incominciò a narrare la sua vicenda, ma è proprio vero che la lingua dell’uomo
è come la pioggia nella stagione secca e quella della donna come la pioggia
nella stagione… delle piogge. Dopo che ci raccontò tutta la storia con dovizia
di particolari, si avvertì un po’ di stanchezza insinuarsi nell’assemblea,
perché alcuni avevano iniziato a parlottare fra di loro in animate discussioni.

Papà Wadefe dovette intervenire: – Agoo!!! Che Togbe
senta per l’assemblea, perché giunga alla mente di tutti i presenti che
l’orecchio purtroppo ha un buco solo e quindi non può sentire mille cose alla
volta.

Poi verso Abra: – Ti abbiamo ascoltato, siamo ospiti
in casa tua, la nostra gola si è un po’ asciugata, cosa ne dici?

A questo richiamo poco velato, tutti si misero a
ridere e Abra fece subito portare del vino di palma. II capo villaggio dopo una
breve preghiera agli antenati ne versò qualche goccia a terra, poi la mezza
zucca girò di mano in mano per dissetare tutti con il vino lattescente appena
fermentato.

Papà Wadefe riprese: – Togbe senta per Abra e
Yawovi, i nostri anziani dicono che la lingua si trova in mezzo ai denti, ma
succede che i denti la feriscono, e d’altra parte per riconciliare non si porta
un coltello che taglia, ma un ago che cuce e se bisogna affilare il coltello,
non lo si può fare da una parte sola e quindi bisogna sentire anche la parte
avversa.

Da quel momento iniziò una sfilata di parenti e
conoscenti: chi la pensava come Abra, chi come la vecchia Nukuku, rimproverando
la figlia per la sua ingratitudine, per essersene andata in città a fare chi sa
quale vita lasciando l’anziana da sola senza mai tornare a vederla, senza dare
segni di vita.

La discussione andò avanti così fino al calare del
sole; ci si fermò appena il tempo di mangiare un piatto di  foufou di manioca appena pestato dalle
donne, condito con un sugo di grani di palma. Intanto il vino di palma, sia
quello fresco sia quello distillato, colava come un fiume. Quando il sole rosso
se ne andò ad avvolgersi nelle sue lenzuola di nuvole bianche, e la mente cominciava
ad annebbiarsi e la lingua degli intervenuti a diventare pastosa, papà Wadefe
chiese il permesso al capo villaggio di riportare la discussione all’indomani.

Ce ne tornammo a casa, mio padre ed io, esausti e
silenziosi, ognuno di noi assorto nei suoi pensieri.

 

L’indomani all’alba eravamo tutti di nuovo nel
cortile di Nukuku a discutere di questa storia. Si udirono più o meno le stesse
cose, dette con parole diverse, colorate da detti e proverbi diversi.

Verso mezzogiorno, papà Wadefe intervenne per dire
che ormai ne avevamo sentito abbastanza e ricordare a tutti che “La morte non
tiene consiglio, né suona il corno” e che “Se è vero che ci vuole tempo per
crescere, ce ne vuole poco per morire” e quindi bisognava prendere in fretta
una decisione prima dell’irreparabile.

Infatti, durante la notte, lo stato di salute
dell’anziana Nukuku si era aggravato, così come quello della figlia Abra che
ormai era allettata, febbricitante.

È vero che “Una noce di cola nella bocca del vicino
non ci sembra amara” e che “Il dente duole in bocca solo a colui che ce l’ha
marcio”, ma il richiamo di Papà Wadefe ci riportò alla drammaticità e gravità
della situazione.

Dopo un’ora di consiglio concordammo che “La spina
uscirà da dove è entrata”: bisognava convincere, finché eravamo in tempo,
l’anziana Nukuku a ritrattare la sua fatidica frase: “Quando attraverserò il
fiume… tu attraverserai il fiume con me”.

Ancora oggi non mi spiego perché il consiglio scelse
papà Wadefe e me che ero al mio primo consiglio e che non avevo pronunciato
neanche una parola, non so perché ci scelsero per andare a parlare con la
vecchia agonizzante.

Quando entrammo nella sua stanza, il buio
contrastante con la luminosità del cortile non mi permise di vederla subito.
Piano piano i miei occhi, abituandosi all’oscurità, e alla tenue luce della
lampada a petrolio, la scorsero sdraiata sulla sua stuoia, ormai raggrinzita in
posizione fetale. Una delle donne che la curavano si avvicinò al suo orecchio e
le disse:

– Sorella Nukuku, abbiamo visite, papà Wadefe e il
figlio di Fofoè sono venuti a trovarti.

E papà Wadefe disse con mio grande stupore:

– No, io sono venuto solo ad accompagnare il giovane
figlio di Fofoè che ha qualche cosa da dirti.

A queste parole, venni preso da un panico
indescrivibile e sentii la mia lingua diventare pesante e di legno, mentre le
mie gambe si misero a tremare.

Raccolsi in me tutto il mio coraggio, mi avvicinai
all’anziana Nukuku e prendendole entrambe le mani fra le mie dissi:

– Mama Nukuku, sono venuto a parlarti come ti parlerebbe
tuo nipotino, il figlio di Abra. È vero che non si può più inghiottire la
saliva sputata, ma appoggiarsi al granaio del vicino non ha mai riempito la
pancia. La morte di Abra non ti ridarà di certo la vita, ma lascerebbe il tuo
nipotino da solo. Che ne sarà di lui? Sai meglio di me che un palo solo non fa
una casa e che una madre che non è la tua non conosce la tua fame. L’uccello
non vola con le ali altrui, la vita non gira la testa indietro per andare
avanti ed è giusto che quando l’elefante muore, le sue zanne rimangano. Pensaci
mama e perdona, perché dove stai andando il rancore non ripara dal freddo della
notte. Stringi la mia mano, se vorrai farmi capire di voler perdonare, stringi
la mia mano!

Non dissi nient’altro perché non c’era più nient’altro
da dire, e, nell’immobilità del silenzio che impregnava la stanza, avvertivo
gli sguardi brucianti di papà Wadefe e della donna sulle mie mani. Sentivo il
respiro flebile della vecchia Nukuku indebolirsi sempre di più e capivo che era
pronta per il guado, allora, sconfitto e rassegnato al destino, incominciai a
ritirare le mie mani dalle sue quando all’improvviso sentì le sue dita gelide e
scarne afferrarmi le mani con una forza inaspettata poi, come in un sogno
confuso vidi papà Wadefe saltare su, correre fuori della stanza e gridare:

– Presto presto, ha ritirato, ha ritirato.

Poi ritornò subito nella stanza con una mezza zucca
d’acqua in una mano e una foglia d’erba nell’altra. Triturò la foglia fino a
farne sgocciolare il succo dentro l’acqua e, aiutato dalla donna, sollevò la
testa fragile ed imbiancata di Nukuku per farle sciacquare la bocca, per lavare
definitivamente quelle tremende parole dette anni addietro.

La Parola, il Verbo, la Potenza del Verbo, fa che
ancora oggi da noi quando uno dice all’altro “non ti parlo più”, davvero non si
parlano più. Per tornare a parlarsi di nuovo bisogna lavare il tempio della
parola, lavarsi la bocca per purificarla dalla parola detta.

Uscendo dalla stanza dell’anziana Nukuku, mi sentii
come svuotato, barcollai alla luce intensa ed accecante del cortile.

Cercai mio padre nella folla che dal vicinato si era
riversata nel cortile con grida festose sommergendo il consiglio. Papà Wadefe,
uscendo a sua volta, mi prese sotto braccio con dolcezza e mi portò di fronte a
Togbe, la sua faccia rugosa era luminosa e ridente. Vidi infine mio padre che
mi guardava cercando di nascondere la fierezza che traspariva dai suoi occhi
raggianti. Mi si avvicinò senza dire una parola, i suoi occhi parlavano per
lui. Poi prendendomi per mano mi portò alla mia sedia. Sedendomi capii di aver
infine guadagnato il mio posto nel consiglio dei saggi del villaggio.

L’anziana Nukuku ci lasciò quella notte per
attraversare il fiume. E Abra?

Abra all’indomani si sfebbrò.

“Quando
la memoria va in cerca di legno per scaldarsi dalla nostalgia riporta solo i
tronchi più belli…”, ma ricordo che da noi, la Parola è una cosa sacra.

 

 


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