Questo Paese
non è per teTC "Questo Paese
non è per te"

 

Sono arrivato a Perugia i
primi giorni d’ottobre 1983 per studiare la lingua italiana, e sono andato
subito all’Università per stranieri che si trova nel centro storico della
città. Lì, ho incontrato giovani studenti di tutto il mondo. Mi sono iscritto,
poi ho fraternizzato con altre matricole tra cui ho avuto la fortuna di trovare
uno studente nigeriano.

Lui mi ha portato in giro
per la città anche per trovare una sistemazione. Sono stato fortunato, perché
lo stesso giorno ho trovato una camera con doccia e cucina, il tutto per solo
L. 75.000 al mese: ho preso subito dimora e vi sono rimasto per tre mesi. La
casa era ubicata alla periferia della città, pertanto per i miei spostamenti mi
servivo dei pullman comunali, il che mi ha permesso di conoscere la città, ma
soprattutto le persone.

Mi piaceva molto vivere da
solo, ero indipendente e mi sentivo veramente libero, mi colpivano molto le
cose banali, per esempio: il cibo, quando mangiare, impostare la mia giornata,
organizzare le mie serate e conoscere quella bellissima città che è Perugia.

Alla sera mi vestivo
all’ultimo grido ed andavo in giro per il centro della città. C’erano
dei posti di ritrovo bellissimi per giovani studenti uno di quei luoghi era “La
Terrazza”: lì, tra una bevanda e l’altra, decidevano dove andare e cosa fare.

C’erano anche delle piccole
discoteche, un po’ dappertutto, la più famosa era lo “Story Teller”. Dentro, il
locale sembrava il salotto di una casa, ed aveva una clientela variegata; dagli
Hippy ai Rasta, il fatto che fosse frequentato da giovani e
giovanissime venuti da tutto il mondo e l’atmosfera incandescente che vi
regnava, resero quelle serate indimenticabili.

All’università, ho
conosciuto un ragazzo tedesco di nome Raymond Brinkman, frequentandoci è nata
tra noi una fraterna amicizia. Dopo un paio di mesi abbiamo deciso di vivere
insieme in un appartamento, con due camere, nel centro storico. Tra quelle
mura, ho vissuto uno dei più bei periodi della mia vita. Abbiamo fatto due
delle più belle House Parties (Feste Private) che avevo mai visto. Le
abbiamo chiamate “The First Connected Arrangement” e “The Second Connected
Arrangement” tradotto in italiano sarebbe: “Il primo ed il secondo accordo
concordato” perché era un accordo fra due persone di cultura, religione e
nazionalità diversa, ma allo stesso tempo fra due veri amici. Abbiamo invitato
tutta la nostra classe ed altri ragazzi dell’università e non: per loro
senz’altro siamo rimasti un ricordo incancellabile.

Ho fatto un anno
nell’Università per stranieri, poi sono tornato a casa in Nigeria. Perché non
avevo più fondi e dovevo sistemare i miei documenti in modo da avere un visto
per lo studio; ma una volta a casa ho subìto una rapina e ho perso la valigia
che conteneva i miei documenti, di conseguenza ho dovuto fare un nuovo
passaporto rico-minciando tutto da capo.

Sono tornato in Italia nel
gennaio del 1985 e sono rimasto a Roma dove mi sono iscritto all’uni-versità
San Tommaso (università cattolica) per studiare filosofia e dopo due anni ho
preso il baccalaureato.

Nell’estate del 1987 sono
tornato di nuovo a Perugia per le vacanze estive, ma invece vi sono rimasto
attratto da molte cose. Ho ritrovato vecchie amicizie tra i miei connazionali,
ma purtroppo tra loro vi era chi spacciava droga. Stavano bene ed avevano soldi
da buttare: vedendo ciò, volevo avere anch’io la stessa disponibilità
finanziaria, ma non ero ancora deciso a spacciare droga. Volevo soddisfare ogni
mio desiderio, ma ero frenato da mille dubbi e, onestamente, anche dalla
mancanza di fondi.

I primi tempi li ho
trascorsi tra mille dubbi, poi ho iniziato a fumare droga e molto lentamente
sono arrivato all’eroina. Quando questa viene assimilata, in qualsiasi modo, ti
dà una sensazione di tranquillità, senza problemi, senza pensieri e
preoccupazioni.

All’inizio di questa
esperienza, facevo abbastanza soldi, ma fumavo sempre di più l’eroina. Dentro
di me avevo una grande paura, ero molto triste, alla vista dei poliziotti
tremavo, erano da evitare a tutti i costi senza una ragione specifica. Quando
scrivevo a casa ai miei, inventavo una vita che non esisteva, per farmi passare
per un uomo realizzato, dicevo che avevo un lavoro estivo e di conseguenza non
avevo bisogno di soldi. In più cercavo di autoconvincermi che sarei tornato a
Roma, al più presto per continuare gli studi. Era solamente un sogno.

La droga è rimasta una mia
carissima amica per molto tempo, fino a diventare la mia PADRONA, a questo
punto non c’era più nulla da fare: ero in catene, in una via senza uscita, in
un tunnel immerso nel buio, avevo preso un treno senza fermate. Molte volte ho
cercato di scendere, ma non era possibile, il treno andava sempre più veloce.

In poche parole, ho cercato
più volte, e in molti modi di smettere, ma non sono riuscito nel mio intento se
non per qualche settimana.

Durante quel periodo ho
conosciuto una ragazza bellissima che studiava lingue all’università di
Perugia, l’aiutavo per l’inglese, dato che essa è la mia madre lingua. È stata
lei a fare la prima mossa, poi anch’io mi sono innamorato sul serio.

Il nostro rapporto è durato
tre anni, dal 1988 fino al 1991. È stato bellissimo, con alti e bassi, giorni
straordinari e momenti infelici. Un evento che ha turbato questo rapporto è
stato il fatto di aver preso, insieme, la decisione di abortire. Questo ancora
oggi mi rattrista, per la leggerezza con la quale abbiamo agito.

Tenevo nascosto a lei i miei
traffici, ma dopo un po’ di tempo, sospettò qualcosa. Mi faceva delle domande,
a cui evitavo di rispondere, in più, ogni tanto sparivo per un po’ senza dire
nulla, per curare i miei affari: anche questo ci ha portato alla rottura.

Chi fa uso di droga, sa
quanto è difficile tenerlo nascosto a chi ti sta vicino, perché dovendo avere
sempre la merce a disposizione, ciò diventa problematico, PIÙ NE HAI PIÙ NE
CONSUMI!!! In più la droga, ti fa prendere dei rischi assurdi: un esempio sono
i viaggi che uno è costretto a fare, in qualsiasi ora o in qualsiasi giorno,
con vari contrattempi, non la trovi in un posto, allora bisogna spostarsi di
400 km e così via … Oppure stai male perché sei in astinenza, allora sei
disposto a pagarla qualsiasi prezzo. Poi tutto finisce, arriva la polizia …

La qualità variabile della
droga, dipende dal fatto che è quasi impossibile trovarla non tagliata; c’è
sempre il rischio di trovare una partita marcia.

Nell’ultimo stadio della mia
tossicodipendenza non riuscivo più a spacciare nemmeno un grammo perché serviva
tutta a me, e non mi bastava lo stesso, ne avevo sempre più bisogno.

Sono stato arrestato in
questa condizione il 15/10/91 era un mercoledì, stavo malissimo per la rotta ed
avevo un appuntamento con la mia ragazza. 
In gergo “la rotta” vuole dire astinenza; è uno stato di sofferenza assoluta,
d’ansia, c’è l’impressione di una ristrettezza del proprio corpo. Escono delle
secrezione dai pori, c’è il vomito, la febbre, il caldo, il freddo, le visioni
e l’allucinazione …

Ci arrestarono, eravamo in
due, era inutile dire che la droga non era mia, perché nessuno mi avrebbe
creduto. L’appuntamento con la mia ragazza era saltato, e questa fu la fine del
nostro rapporto.

Una volta chiuso in carcere,
sono stato felice, perché finalmente potevo chiudere con la mia vita di sempre,
l’incubo era finito, ringraziavo Dio perché la droga non mi aveva ucciso. I
primi giorni in carcere sono stati tremendi per me, nonostante fossi sotto
cura. La terapia di metadone e tranquillanti alla quale sono stato sottoposto
nel centro clinico, non bastava a calmarmi. Non riuscivo a dormire, ero fuori
di me, e non avevo il controllo dei miei istinti, avevo degli incubi veri e
propri; i miei sogni erano delle più svariate forme, ho visto passare davanti a
me tutta la mia esistenza, era come se qualcosa si stesse sciogliendo dentro di
me. Questa fase è durata più o meno tre settimane, ed in questo periodo sono
finito due volte nelle celle d’isolamento per punizione.

Dopo tre settimane, sono
stato mandato alle sezioni normali: erano fatte di celle singole, senza bagno,
c’è ne era solamente uno per ogni sezione situato nel corridoio (ed ogni
sezione conteneva almeno venticinque persone), erano tempi duri.

Iniziai allora un cammino
con Cristo, andavo in chiesa ogni domenica e frequentavo il catechismo. Ciò
nonostante, sono finito nei guai. Un ragazzo nigeriano che conoscevo, e che da
tempo era in carcere, raccontava che una sua amica aveva scritto che mi ero
comportato male nei suoi confronti. Avrei dovuto prendere parte in una lite tra
lei ed un’altra ragazza, in un vicolo vicino la mia casa: e solo per questo
voleva aggredirmi. Ragionamento sbagliato, ho cercato di spiegare il fatto;
nulla da fare, non ragionava più, non reggeva più la carcerazione; è molto
facile perdere la testa in carcere, così mi sono trovato a dover fare a pugni
per difendermi da uno svitato.

La seconda volta che sono
finito nei guai, era per difendere un altro nigeriano, frequentavamo la chiesa
e la catechesi insieme. Vengo a sapere che, mentre giocava a pallone con altri,
era stato duro con uno considerato un boss della malavita locale. Per rivalsa,
subì una aggressione. Schiaffi e pugni davanti a tutti e come non bastasse, pur
scusandosi, il boss continuò a percuoterlo. A sentire queste cose ero fuori di
me. Quel giorno non ero sceso all’aria, di conseguenza non potevo fare
accertamenti, comunque ero così arrabbiato che tremavo: volevo solo vendicarlo
perché mi sentivo personalmente coinvolto per quanto era successo; la ritenevo
un’aggressione agli uomini di Cristo.

Lui era debole e non avrebbe
mai potuto e voluto reagire.

Il giorno dopo sono sceso al
passeggio per incontrare questa persona: non avevo un piano preciso, ma sapevo
che dovevo fare qualche cosa. Lui era presente e si comportava in modo
arrogante, vedendo ciò ho perso la ragione, mi sono avvicinato e l’ho aggredito,
non ragionavo più, avrei voluto cancellarlo. Dopo l’intervento delle guardie e
una breve spiegazione, sono finito in una cella d’isolamento.

Il risultato di tutto ciò è
che ho preso un rapporto punitivo. Dopo un paio di giorni, sono stato spinto giù
per le scale, ho capito che gli amici del boss volevano vendetta. Ovviamente si
era sparsa la voce che ero un uomo da punire perché avevo osato attaccare il
caporione. Dopo la caduta delle scale, sono stato trasferito in un carcere
vicino, per punizione, ma anche per la paura di un tumulto. In questo modo ho
terminato i miei primi sei mesi di carcerazione.

Nel carcere d’Orvieto non
conoscevo nessuno, però mi sono ambientato subito, eravamo cinque per cella,
erano celle grandi, la vita era molto dura, l’essere umano quando è costretto a
vivere insieme ad altri, non scelti da lui, reagisce in modi differenti. C’è
chi diventa molto triste, chi diventa aggressivo e solo pochi riescono a
dominare i loro istinti, di conseguenza tenere sotto controllo la situazione, è
molto difficile. Di una cosa possiamo essere sicuri; le persone una volta
rinchiuse tornano ad essere quello che erano veramente, chi è cattivo torna ad
esserlo, chi è bravo non può nasconderlo e così via.

Vedevo chiaramente i pregi
ed i difetti di chi mi era vicino. Ho avuto altre liti prima di abituarmi a
questo ambiente, pur soffrendo ho dovuto finalmente, se non volevo
ulteriormente soffrire, adeguarmi. Ho anche perso un dente in una lite con un
connazionale; ho conosciuto la mentalità dei maghrebini. Non avevo mai avuto a
che fare con loro e l’impatto è stato scioccante, ed ancora oggi non riesco a
capacitarmi del perché non riesca a legare con loro.

Ho sempre studiato in
carcere: a Perugia, l’elettronica; ad Orvieto ho frequentato pure le elementari
(mi viene da sorridere al pensiero che un quasi laureato tornasse sui banchi di
scuola). Tutto questo mi serviva ad evadere con la mente, tanto che ho pure
frequentato i corsi professionali di muratura e saldatura.

Ad Orvieto mi ero posto tre
obbiettivi. Il primo era quello di andare nel carcere di Alessandria per
studiare l’informatica. Il secondo era di andare in una comunità per il
recupero dei tossicodipendenti. Il terzo invece era quello di andare in qualche
isola (sempre in carcere) per lavorare e magari mettere via un po’ di soldi.
Sono finito ad Alessandria, cioè il primo obiettivo è stato l’unico che si è
avverato.

L’idea di andare in comunità
è saltata: servivano i miei documenti, cosa strana, perché essendo in carcere e
per di più straniero, ancora oggi mi chiedo: quale documento posso avere? Forse
era solamente una scusa per non accettarmi. Invece l’idea di andare in qualche
isola è ancora valida; credo che un giorno, dopo aver preso il diploma,
chiederò di essere trasferito per finire lì, la mia carcerazione. Ho passato un
anno e mezzo ad Orvieto, prima di essere trasferito: mi rammarico solo di non
essermi fatto un vero amico durante la permanenza. Chi sa il perché?…

Sono arrivato nel carcere
d’Alessandria nel mese d’ottobre 1993 e fui colpito dalla grandezza
dell’edificio. Sino al quel punto ero abituato a piccole o medie carceri, ma
questo è nuovo, è grande, ha una capienza di più di 800 persone tra guardie e
detenuti. Ci sono due reclusi per cella, queste sono ben fatte ed attrezzate. Il
carcere è diviso in cinque blocchi: penale, giudiziario, nuovi giunti, isolati
e il blocco femminile è unito a quello dei pentiti. Questi sono suddivisi in
sezioni, ognuna è composta da 25 celle. Ogni blocco ha i suoi vari servizi che
comprendono docce, barberia, salette ricreative e telefoni. Inoltre vi sono
zone per il passeggio ed un bellissimo campo sportivo dove continuamente le
sezioni si sfidano in accaniti incontri calcistici. C’è anche una sala teatro
dove saltuariamente assistiamo a qualche spettacolo e settimanalmente viene
proiettato un film.

Purtroppo dappertutto ci
sono porte blindate, si respira aria di restrizione e lo si nota quando per
andare da un punto all’altro, bisogna attraversare queste porte dove gli agenti
molte volte ti perquisiscono e questo è quello che maggiormente ti fa capire la
tua situazione.

In generale mi sono trovato
bene in questo carcere. I motivi fondamentali sono la possibilità di studiare
l’informatica, cosa che ho sempre desiderato, anche quando ero libero. Poi c’è
una palestra abbastanza moderna all’interno che non ha nulla da invidiare a
quelle civili, qui sfogo la mia esuberanza e curo nello stesso tempo il mio
corpo, che tanto ho trascurato durante il periodo in cui lo nutrivo di sola
droga. Un’altra ragione del perché qui riesco a far trascorrere la mia pena in
maniera accettabile è il poter stare in una cella esclusivamente con un’altra
persona, tanto più se la stessa è un essere umano che dimostra amicizia,
fratellanza e sincerità. Anche se ritengo che il poter vivere nella cella da
soli sia la cosa più giusta.

Sto ancora vivendo questa
esperienza, tirando le somme dopo un anno, posso solamente essere contento di
ciò che ho realizzato, ho conseguito il diploma d’operatore d’informatica con
il massimo del punteggio, ho avuto anche un encomio, questo per quello che
riguarda la parte intellettuale.

Per quello che riguarda la
forma fisica insisto nell’allenarmi sperando di poter godere dei benefici negli
anni a venire.

Un’altra cosa di cui sono
felice è che non sento il bisogno o la necessità, tantomeno il desiderio di
qualsiasi forma di droga.

Una cosa che mi ha aiutato
molto è stato il cammino che avevo iniziato nel carcere di Perugia, e che è
quello di essermi avvicinato sempre di più a Dio. Spero che la fede non mi
abbandoni, anzi mi renda sempre più forte e giusto.

Ho sofferto molto la
mancanza affettiva dei miei cari, ogni tanto ho cercato di compensare tale
mancanza con l’amicizia ma quasi sempre ho trovato davanti un muro
impenetrabile, mi rendo conto che questo non è il posto adatto per cercare
affetti.

Da quel lontano 1983, la
data con cui ho cominciato questo racconto, fino ad oggi sono passati dodici
anni, ma solo da poco tempo ho ricominciato a vivere pienamente. Cosciente
delle mie azioni, ora so cosa vuole dire avere le proprie responsabilità, fare
delle scelte e seguirle fino in fondo.

Queste due parole,
responsabilità e scelte, non avevano alcun significato per me fino a questo
periodo della mia vita. Forse questo si chiama maturare, non lo posso dire, so
solamente di aver intrapreso una strada diversa da quella sulla quale viaggiavo
e intendo seguirla fino alla fine, non so dove mi porterà, come non so che cosa
farò nel lontano futuro, ma so perfettamente quello che non farò mai più.

 

 

 

 


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