Mal di …

 

Di tutti gli anni trascorsi in Italia, non
saprei quale incolpare per quello che mi succede ora. So bene che dovrei
decidermi una volta per tutte a recidere il cordone ombelicale che mi lega a
questo vizio, questa specie di malattia.

Non ricordo neanche come iniziò tutto
questo, sicuramente incominciò al mio ritorno in Africa dall’Italia.

“L’Italia!” … allora solo pensarci era
come sfiorare il cielo con le dita. Erano anni che Fofo (mio fratello), mi prometteva
di portarmi con sé in Europa. Non so descrivere l’immensità della mia gioia
quando arrivò la tanto attesa lettera. Ce la portò mio cugino che abitava in
città, la cui casella postale faceva in pratica da “refugium peccatorum” per
tutta la corrispondenza della parentela ed oltre, nel villaggio.

Mio padre fu un po’ restio a lasciarmi
partire:

– Una ragazza che se ne va da sola nei
paesi dei bianchi! Non se ne parla neanche!

Mia madre prese le mie difese:

– Non se ne va da sola, va a raggiungere
suo fratello! Al cocciuto “Non se ne parla” reiterato dal marito, lei mi fece
segno con la testa di uscire e quel segnale mi rincuorò, perché, sapevo,
nonostante le apparenze, chi in casa nostra “portava i pantaloni”.

Di fatto, il giorno dopo, mia madre mi
portò al mercato ad acquistare una valigia, dei pantaloni usati e mio padre
andò in città, a richiedere i documenti di viaggio.

La vigilia della partenza, vidi una tenera
lacrima solcare il viso di mia madre ed ebbi un effimero senso di colpa,
sapendo di abbandonarla da sola al lavoro dei campi e alle faccende domestiche.
Papà si rinchiuse in un silenzio di difesa fino all’ultimo momento, poi nel
salutarmi, mi mise in mano un talismano di cuoio intarsiato, con una conchiglia
e brontolò:

– Abbi cura di te!

L’Italia! Dio, il freddo! non immaginavo
fosse così pungente. La mie labbra si screpolarono, le dita si irrigidirono e
la mia pelle prese quel colore grigio delle lucertole, nonostante mi spalmassi
di crema di cocco. La prima notte fu infernale, la passai in un albergo
prenotato a Roma da mio fratello: coricata sul letto come usavo fare sulla
stuoia nella mia capanna, ero mezza assiderata, non sapendo che bisognava
infilarsi dentro le lenzuola. Fofo me lo spiegò, sfottendomi, il giorno dopo,
quando venne a prendermi alla stazione a Bergamo.

Mio fratello mi aveva fatto venire per
badare alla sua casa e ai suoi figli, perché lui e la moglie lavoravano tutto
il giorno. Lui, la moglie italiana e i loro due bambini abitavano a Torre
Boldone, un paesino non lontano dal capoluogo, dove lavorava come medico. Mi
avevano destinato una stanza nella taverna della loro villetta. Si vedeva che
stavano bene, anche se trovavo mio fratello un po’ succube della moglie, che
comandava come mia madre, ma in modo più esplicito.

All’inizio fu difficile comunicare con mia
cognata e i miei nipotini, perché non capivo la lingua, e mio fratello si
rifiutò di farmi da traduttore. Subito mi raccomandò di tenere la mia stanza in
ordine, di usare le “pattine” quando entravo in salotto, di non farmi la doccia
tutti i giorni perché il riscaldamento costa, di non lasciare le luci accese
nelle scale e in bagno, di non impiegare tre ore per stirare, di non parlare
nella nostra lingua e di tenere basso il volume di quella “nenia” di musica
africana. Incluso nel sacrosanto decalogo, vi era il divieto di cucinare cibi
che richiedevano troppo tempo di cottura, e che soprattutto impregnavano la
casa per giorni con la scia degli aromi dei condimenti (la “puzza”).

Sentivo che era sempre angosciato di
vedermi fare qualche gaffe, tipo: sgranocchiare le ossa durante il pasto, cosa
che a lui piaceva tanto fare al paese. Ma chissà perché qui sembrava suscitare
in lui come un senso di vergogna. Non riconoscevo più mio fratello, si lasciava
chiamare dai figli col suo nome, come se fosse un loro coetaneo. Lui e la
moglie davano sempre precedenza loro in tutto e dovevano pure supplicarli per
mangiare carne! Erano troppo viziati. Io, i miei figli (ne volevo almeno sei),
li avrei educati all’africana: obbedienza e rispetto. Non mi piaceva come i
bambini rispondevano ai loro genitori.

Sorrido ora a ripensare a queste cose, al
mio stupore quando vidi per la prima volta mio nipote inscenare una delle sue
isteriche commedie, perché si era formata della “pellicina” sul latte. Quando
vidi mio fratello alzarsi, mi rallegrai pensando al giusto ceffone che stava
per dargli, invece prese un cucchiaio per asportare semplicemente qual velo e
implorarlo:

– Dai, pulcino, bevine ancora un po’!

Ero davvero sconvolta!

Dovevo badare a loro, ma non riuscivo a
farmi obbedire. Un giorno in cui ero fuori di me, li sgridai nella mia lingua,
perché mi era più facile e loro scoppiarono a ridere, scimmiottando
letteralmente il mio “parlare  africano”
con “Abuga, bongo bingo!” “Eppure”  –
pensai con amarezza – “questa è la lingua dei padri del vostro padre!”, ma non
proferii parola.

Non sapevo più come comportarmi. Mia
cognata mi faceva sentire un’intrusa, mi guardava con aria sospettosa, perché,
per educazione, non la guardavo negli occhi quando le parlavo. La sentii un
giorno dire a una sua amica al telefono che ero sorniona e ipocrita.

Il mio sogno d’Europa stava tramutandosi
in un incubo: troppo freddo, poco tempo, e poi l’indifferenza, la solitudine…

Me ne stavo sempre di più rinchiusa nella
mia stanza a cullarmi nella nostalgia. Feci presto a consumare il sacchetto di
farina di manioca e le arachidi che mia madre m’infilò in valigia. Non riuscivo
a adattarmi a mangiare sempre la pasta: anche se loro dicevano che c’era
differenza fra tortellini, bucatini, spaghetti e lasagne, per me era sempre
pasta. Avevo voglia di gustare la pate (polenta bianca non salata) con un buon
sugo di gombo e di pollo, con tanto peperoncino dentro, assaporarla con le
mani, prendere un boccone scottante e fumante, triturarlo per bene, arrotolarlo
da farne una pallina ed improntarci un solco profondo con il pollice da poter
raccogliere per bene il sugo prima di inghiottirlo, poi leccarmi le dita con
delizia e rosicchiare un pezzo d’osso…

Sorrido oggi della vergogna provata quando
il mio corpo vide lì la luna per la prima volta e non sapevo cosa fossero gli
assorbenti (avevo con me le pezze di stoffa), oppure quando mi avventurai per
la prima volta a comprare le calze, non sapendo che ce ne fossero di diverse
taglie, colori e “denari”…

Rivedo ancora, come se fosse ieri, la
faccia esterrefatta di mia cognata quando mi vide estrarre dalla lavatrice il
mio primo tentativo di bucato, con le maglie che si erano raggrinzite e le
camicie e gli slip bianchi che erano diventati rosa o macchiati di viola…

Devo la mia salvezza a Conception, una
ragazza filippina che faceva la colf presso una famiglia nella villetta
contigua alla nostra e parlava un po’ di francese. Ci vedemmo per la prima
volta sui balconi, mentre ero intenta a battere un tappeto, poi ci trovammo a
fare la spesa al supermercato. Lei era già in Italia da cinque anni e la sua
amicizia ed i suoi consigli furono per me come manna nel deserto.

Presto imparai la lingua, a cucinare e a
tenere la casa al meglio. Lavoravo svelta e mi avanzava tempo per leggere e
guardare la televisione. Ben presto avevo imparato ad apprezzare il cibo.
Cercai di assimilare più cose possibili, di dimenticare totalmente quella che
ero. Intanto diventai più esigente, volevo che mio fratello mi lasciasse uscire
ogni tanto, volevo la mia giornata di libertà come Conception, volevo soldi per
poter mandare un regalo a mia madre, per compare vestiti nuovi come piacevano a
me e non più riciclare quelli di mia cognata. Nella discussione che ne nacque
con mio fratello, ci scambiammo accuse reciproche, che non avrei mai pensato
poter formulare. Disse: “Sei un’ingrata!”, quando gli annunciai di aver trovato
lavoro presso una signora anziana a Bergamo, perché volevo guadagnarmi la mia
indipendenza. Da prima urlò: “Se volevamo pagarci una baby sitter o un colf,
non c’era bisogno di mandarti a chiamare dall’Africa, sai!”, poi di fronte alla
fermezza della mia decisione, tentò la carta sentimentale:”Non t’importa di
lasciarci così in difficoltà, di abbandonare i tuoi nipoti, fingevi allora di
volergli bene! sei proprio senza cuore!”

Solo io so quanto mi costò lasciare mio
fratello, resistendo alla tentazione di abbracciarlo, per spiegargli che non
ero venuta fino in Europa senza tentare di realizzare qualcosa, che a differenza
di lui, sognavo di tornare a casa e creare qualche cosa di mio, che non volevo
fare la domestica a vita in terra straniera.

Così una mattina di primavera, quando
l’aria mattutina pungeva appena viso e narici, e la natura si svegliava dal suo
cupo letargo con il germogliare delle piante e il dolce gorgoglio di libertà
degli uccelli, spiccai il mio volo verso l’indipendenza. Andai ad abitare
appena fuori Bergamo, presso un’anziana signora (Maria) che mi mise in regola
con la questura e il libretto di lavoro. Intanto mi ero iscritta ad un corso di
taglio e cucito e risparmiavo i soldi, per pagarmi una macchina da cucire tutta
per me.

Passato il primo momento di rabbia, e dopo
una lettera di nostro padre, mio fratello venne a trovarmi di nascosto dalla
moglie. Lì da me, ritrovavo il Fofo che avevo sempre conosciuto, parlavamo
nella nostra lingua, gli preparavo piatti nostri, piccanti, che inghiottiva
golosamente… con le dita, poi spezzava l’osso con i denti e ne succhiava
voluttuosamente il midollo, facendo un rumore infernale e lo sentii infine
ridere come si usa da noi a piena gola e parlare e ricordare della gente, degli
episodi del villaggio. Un giorno, vedendolo ballare scatenato al ritmo di una
musica tradizionale, lo sfottei:

– Dottore, se ti vedessero i tuoi
pazienti!

E lui ribatté ridendo:

– Diranno: eppure sembrava uno come noi!

Se ne andava poi con passo leggero, con
dentro gli occhi la luce ironica di chi si diverte a tradire sé stesso.

La mia amica Conception veniva a trovarmi
una domenica su due, ed insieme si fantasticava sui nostri progetti da
realizzare una volta tornate definitivamente a casa. La mia idea era di aprire
un atelier inizialmente  da sola, poi
creare una cooperativa di sarte e confezionare vestiti alla moda europea, con
tessuti africani, chissà magari da rivendere alla grande distribuzione in
Europa…

Ebbi anche l’opportunità di conoscere
altri compaesani e così ripresi a salutare gli africani che incontravo per
strada. Alcuni venivano a trovarmi, perché avevo la fortuna di avere un
appartamento solo per me, al piano terra della villa, dove si poteva stare
assieme per fare le trecce, ascoltare musica, senza disturbare nessuno, parlare
ad alta voce. I nostri incontri, erano le uniche  occasioni per sfoggiare i miei bubu sgargianti…

La signora Maria era veramente gentile.
Una sera mi confidò, mentre ricamava con gli occhi stanchi sul suo tombolo il
millesimo centrino, che avevamo portato la luce e la gioia di vivere nella sua
casa, che inizialmente  a sentirci da
lontano parlare e a vederci gesticolare, sembrava che stessimo litigando.

Un giorno, Fofo mi trovò a casa con delle
amiche intente a ballare un motivo del paese. Al suo arrivo, si fece un
silenzio di rispetto, ma carico di rimprovero, perché in molti lo consideravamo
come un “traditore”. Non tanto perché aveva sposato una bianca, ma perché,
dicevano, era diventato come un bianco: freddo ed indifferente alla sua gente,
come se si vergognasse delle sue origini e poi non si capiva perché, con tutto
lo spazio che aveva in casa sua, non organizzasse ogni tanto qualche serata per
ballare, almeno per le feste importanti. Si sentiva a disagio e dopo un po’
scappò via con la scusa di un paziente da visitare. Da allora prese a
telefonarmi prima di arrivare come usano in Europa. Non per difenderlo, ma
capivo che aveva fatto la scelta di stare definitivamente in Italia, e per la
pace della sua famiglia era dovuto scendere a compromessi con sé stesso.

Conoscendo mia cognata, sapevo che non
poteva portare “gente” in casa così all’improvviso, come usiamo fare da noi e
ospitarli per pranzo o cena o addirittura stare a dormire. Qui è tutto diverso,
da noi con l’abitudine della grande famiglia e il fatto di cucinare piatti
unici a base di sugo, si fa presto a riscaldarne un po’, a rigirare in pentola
un po’ di pate o pestare del fufu per fare posto attorno al piatto per
l’ospite.

Alcuni davano la colpa a mia cognata, ma
credo che qui, il ritmo della vita è tale che il tempo annacqua i sentimenti
divorando la vita e la gente. Se a lui andava bene così, come mi confessò un
giorno, doveva andare bene anche per noi, perché lui rivendicava il suo diritto
a vivere la sua vita come libertà individuale e non collettiva come predica la
solidarietà africana, e poi non si sentiva l’obbligo di frequentare qualcuno
per il solo fatto che quello era nero oppure proveniva dall’Africa.

– Qui in Europa – sentenziò – ognuno deve
pensare per sé, punto e basta, io mi sento in dovere solo nei confronti dei
miei parenti stretti e solo se bisognosi o meritevoli.

Certo non condividevo il suo punto di
vista.

Replicai soltanto:

– Fofo, questo paese, questa nebbia non fa
per me, mi manca il sole, le feste al villaggio, il tempo, le risa della gente,
il vivere assieme con le persone.

Eppure, continuai a lavorare,
risparmiando, soffocata dalla nostalgia con un unico pensiero e traguardo:
tornare a casa per aprire il mio negozio di sartoria.

Infine due anni fa, con un groppo in gola,
abbracciai tristemente la signora Maria, che era stata così buona con me,
sapendo che la mia partenza coincideva con il suo ingresso in un ricovero.
Trattenendo a stento le mie lacrime nascenti, salutai mio fratello, Conception
e tutti i miei amici, e me ne tornai a “casa” con la valigia piena di regali,
di piatti e posate, con un sogno da realizzare.

Al mio ritorno in Africa, passata la prima
settimana d’effervescenza, capii che non potevo più vivere al villaggio, dove
non c’era né luce né acqua corrente, abituata com’ero ormai a vivere con certe
comodità. Non riuscivo più ad intavolare una conversazione decente con le
amiche di un tempo che, ormai, si erano sposate: chi già con due, o tre figli e
che, lo sentivo, m’invidiavano malevolmente. I miei vecchi insistevano a
volermi scegliere un uomo da sposare, ma io avevo ormai deciso per una vita
libera da “single”: non volevo fare la serva di nessun uomo e tanto meno
rinunciare ai miei progetti.

Decisi di trasferirmi in città, un po’ per
sfuggire all’assalto quotidiano  dello
sciame dei parenti, che si allineavano per la questua, un po’ perché il caldo,
le mosche, le zanzare mi erano diventati insopportabili e sentivo la necessità
di vivere in un ambiente climatizzato, ordinato e tranquillo.

Il primo anno non fu così facile, ma
lentamente incominciai a farmi una certa clientela e una delle mie clienti,
Sonia, che ha il suo negozio di parrucchiera dirimpetto al mio, è diventata la
mia migliore amica. Sonia è una ragazza formosa, gentile e decisa: è tornata
dalla Germania, dove lavorava “nello spettacolo” due anni prima di me, per
investire i suoi risparmi nel suo salone.

Ora per me le cose vanno meglio.

In verità dovrei dire, ora andrebbero
meglio, se non fosse per quella strana sensazione d’irrequietezza che ogni
tanto mi invade tutta fin dentro le ossa.

Allora prendo la mia auto, vado in centro
città a girare per i negozi, entro nei supermercati a comprarmi degli
spaghetti, delle scatole di pelati, della carne venuta dalla Francia, un po’ di
taleggio e poi ritorno a casa a cucinare il tutto e ad invitare Sonia a cenare
con me. A volte andiamo a prendere l’aperitivo al “Gattobar” e poi via di corsa
a divorare una pizza “Da Silvia” per concludere la serata a vedere qualche bel
film con Mastroianni e Sofia Loren. Oppure ce ne stiamo in casa a vedere le mie
foto di quando ero a casa “mia” in Italia ascoltando le canzoni del festival di
Sanremo, di Baglioni, Ramazzotti o Zucchero.

La domenica, attraverso tutta la città per
andare ad assistere alla messa nella parrocchia dei padri comboniani per poter,
all’uscita, conversare un po’ con loro, in italiano.

A volte è Sonia a invitarmi a bere una
birra all’osteria “Bavaria” dei marinai tedeschi, che lei stupisce con il suo
perfetto tedesco, poi ce ne andiamo a casa sua a mangiare salsicce con crauti e
senape e ballare dei valzer viennesi.

Non so spiegarmi quel vizio, quella mania
di cui non riesco proprio più a disfarmi e che mi fa addirittura fare il tifo
per gli azzurri quando c’è una partita internazionale, al punto che con Sonia
dopo un’Italia-Germania, non ci siamo più parlate per una settimana.

Ah l’Italia! Pensare che in Italia, volevo
tanto tornare a casa! Ormai mi sento come inquilina di due patrie: a volte ne
sono felice, a volte mi sento un po’ dimezzata, un po’ squilibrata, come se una
parte di me fosse rimasta là, eppure so che lì avrei di nuovo il mal d’Africa.

Forse la mia è nostalgia, o più
semplicemente mal di… mal d’Europa.

 

 

 

 

 


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