Ricordi di una camerieraTC "Ricordi di una cameriera"

 

È stato bellissimo il
viaggio che ho fatto in Africa, un mese fa, 
conoscendo posti di profonda magia. Sfortunatamente ho visto anche tanta
miseria.

Al mio ritorno in Italia,
dove vivo, i miei soldi stavano quasi per finire. Così, all’inizio dell’estate,
decisi di trovare lavoro come cameriera in una pensione di montagna, nel
Trentino. Sarebbero stati solo quattro mesi di lavoro, poi sarei tornata a casa
a riposarmi. È stato difficile per me lavorare per tutto questo tempo con
giornate lavorative di dodici ore, senza neanche un giorno libero e convivendo
con  persone stressate quanto me.

Già al secondo mese di
lavoro non ne potevo più: la mia testa funzionava come un orologio, non
riuscivo a rilassarmi neppure durante la pausa di riposo; la routine della
colazione, pranzo e cena mi lasciava estremamente nervosa.

Il rapporto con i clienti
era l’unica cosa che spezzava la monotonia di quei giorni. Servivo una
clientela eterogenea, dal piccolo imprenditore abituato alla vacanza durante il
solito mese, nella stessa pensione, con la stessa moglie, all’operaio
entusiasta di poter, solo dopo cinque anni di risparmi, permettersi il lusso di
una semplice vacanza. La grande verità è che io ho scoperto troppo tardi di non
avere pazienza per quel lavoro. Cominciai ad avere sintomi preoccupanti,
persino allucinazioni.

Quando servivo a tavola mi
veniva il desiderio impulsivo di rompere un piatto pieno sulla testa di un
cliente, di annunciare lo sciopero generale della cucina, o il giorno nazionale
del digiuno decretato dal Papa. I giorni duravano un’eternità, però, pazienza!
Io pensavo ai soldi che dovevo prendere e mi accontentavo. Questo, chiaro,
senza fare bene i conti con le clausole del sindacato; le ore lavorative erano
pesanti. Però cosa potevo fare? Io non sono capace di chiudere un occhio, sono
una persona critica, lo sono sempre stata. Avrei voluto, in qualche occasione,
non avere nessuna coscienza sociale o politica. Guarda un po’: il tipo che è
sfruttato e che non ha coscienza riesce sempre a rassegnarsi. Beve, si fa una
scopata e via, così è felice. Felice il cazzo! Dovrei vergognarmi di pensare
così… Sono momenti di debolezza.

Mancavano soltanto venti giorni
alla chiusura della pensione quando, mentre preparavo la colazione, vidi
passare il cuoco. Lo salutai freddamente e lui rispose con altrettanta
freddezza. Pensai: “Tanto meglio”.

Era una mattina come le
altre: caffè, latte, pane, signorsì, prego, immondizia, immondizia, faccia una
buona passeggiata e mangiavano, mangiavano. Per ogni cliente che si alzava dal
tavolo, io sparecchiavo; le posate e i resti li portavo in cucina per poi
metterli a posto.

Quella mattina, quando
l’ultimo cliente fu uscito, raccolsi tutto, aprii la porta della sala da
pranzo, ed invece della cucina vidi una lunga strada piena di curve. Per un
istante non seppi cosa fare, però non avevo tempo per fermarmi a riflettere.

Andai avanti con un vassoio
pieno di tazze e posate di quello sporco cliente. Camminai più o meno cinque
minuti e vidi la cucina dopo un piccolo ponte.

Continuai a camminare per
quindici minuti circa, attraversai il ponte e finalmente riuscii ad aprire la
porta della cucina. Tutto stava al proprio posto, così cominciai a lavare
tutto, perché erano già le undici e presto il pranzo doveva essere servito.

Dopo qualche minuto, arrivò
il cuoco e mi salutò come al solito. Senza perdere tempo gli chiesi se sapeva
il perché di quella strada improvvisa, ma lui mi rispose, con indifferenza, che
il suo compito consisteva nel preparare del cibo mangiabile, se possibile, e
nient’altro.

Rimasi senza parole. Ma ero
già in ritardo e non avevo tempo per chiarimenti. Il menù consisteva in:
bistecca di porco e verza cotta. Presi tre piatti nella mano sinistra e altri
tre nella mano destra. Il cuoco rimase commosso dal mio impegno e fece anche
lui uno sforzo, per essere educato, aprendomi la porta.

Ma non era possibile! Quella
strada era ancora lì. Mi voltai per chiedere spiegazioni al cuoco, ma la porta
si era già chiusa. Porca miseria! Io non avevo più tempo e il cibo si stava
raffreddando. Percorsi la strada il più velocemente possibile, più ancora del
mio raziocinio. Dopo venti minuti arrivai davanti alla porta della sala da
pranzo, ed anche se non ero più sicura di niente, ero certa che la porta fosse
quella.

Tuttavia, al posto della
stanza da pranzo trovai una piccola piazza piena di barboni ammucchiati uno
sopra l’altro. Io ero lì, con sei piatti puzzolenti di bistecca di porco e verza
cotta in mano, senza sapere cosa fare. Quelle persone mi guardavano con una
soddisfazione incredibile. Nel mezzo di quella gente, notai quella cliente
cicciona con il suo marito piccoletto con i vestiti a pezzi, ed anche quella
cliente solitaria, in questo giorno, aveva intorno uomini con capelli e barba
lunga che quando sorridevano mettevano in mostra i loro denti neri. Non l’avevo
mai vista sorridere, ma quel giorno lo fece. Cominciai a servire ed osservai il
loro piacere mentre mangiavano e bevevano con un’innocenza quasi infantile.
Piano piano si ubriacarono e si sentirono felici. Senza nessuna norma di
comportamento, senza nessun limite.

Soddisfatti, i miei clienti,
si accomodarono e si addormentarono lì, nella piazza. Raccolsi silenziosamente
tutti i piatti, bicchieri e posate: non rimase nient’altro. Seguii nuovamente
quella strada  e notai che era piena di
verde e di fiori, e provai una sensazione di grande piacere quando,
attraversato il ponte, ed aperta la porta, vidi il cuoco, che mi salutò con un
“buongiorno” sorridendo, questa volta, di cuore.

 

 


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