Frontiere di parole. Parole oltre i confini

Ci sono parole che creano frontiere, steccati
invisibili di odio e di incomprensione; ci sono parole, invece, che abbattono i
confini con l’intensità della speranza. Le parole hanno forza, la forza di chi
le pronuncia, e nello stesso tempo vivono indipendentemente da chi le ha
pronunciate.

Le parole uniscono e dividono: non esistono
parole neutre. Non c’è parola senza signif-icato, anche se celato nei meandri
di frasi sconnesse e impigrite. Per chi emigra le parole acquistano un “peso”
maggiore, perché a loro il migrante affida la sua vita; il passato, il
presente, il futuro. Alle parole viene assegnato il compito di tessere la trama
del ricordo; per non dimenticare, per non perdersi, per coltivare i sogni, per
non annegare nella nostalgia.

“A partire furono costretti dalla fame… A
tessere legami c’erano le lettere e i pacchi”,
scrive Rodolfo Di Biasio nel suo libro I
quattro camminanti in cui rievoca l’emigra-zione italiana in America attraverso
le storie di quattro fratelli partiti da un piccolo paese della Ciociaria.  “Le parole si strappavano a fatica dalle
loro labbra, ed essi le disperde-vano per disperazione”.
Così descrive Di
Biasio il “dolore silenzioso” dei migranti italiani di inizio secolo.

E ora quali parole possono descrivere la vita
di quanti, per volontà o per sorte, hanno lasciato il loro paese per cercare
fortuna altrove, spesso lontano da amicizie e affetti? Il concorso letterario
per immigrati Eks&Tra ha raccolto le parole dei migranti in Italia, così
come essi stessi le hanno espresse. Sono le parole di uomini e donne accomunati
da un medesimo destino: il viaggio verso l’ignoto di culture diverse. Sono
parole di nostalgia, di rabbia, di tristezza, di saggezza. Sono parole che
narrano l’incontro e a volte lo scontro, l’illusione e la disillusione, che
diventano ancor più intensi quando il viaggio è un cammino a ritroso alla
riscoperta delle proprie origini. E l’impatto spesso è doloroso perché riflette
un’immagine diversa del migrante: non è più quello che era prima di partire, è
diventato uno straniero in patria. Compare all’improvviso una realtà nuova, una
dimensione di alienazione dalle proprie radici che lacera l’anima finché
l’immigrato non accetta di rientrare in sintonia con le pulsazioni della terra
natale.

C’è un solo modo per rientrare in sé stessi:
ascoltare le parole del cuore, “perché il cuore lascia che la vita accada,
la mente, invece, vuole dirigere gli eventi”
scrive l’etiope Gabriella
Ghermandi nel racconto “Il telefono del quartiere”.

Attraverso il filo del telefono scorrono le parole cullate
dalla vita lenta del villaggio africano: “Come un percorso stabilito dal
fato, a Kechenè tutto passava per quella casa, per quel telefono. Attese,
proposte di lavoro, di matrimonio, amore, morti…”

Le parole creano la vita in quel quartiere “fermo
come un dipinto”.
Solo quando Gennet, la protagonista, aprirà il suo cuore,
riuscirà a capire il significato più profondo dell’esortazione del suo amico
Zeggu: “Que-sto hai perso in Europa, quel ritmo lento, dilatato che apre
tutte le porte. Ti farà piangere, gioire, ringraziare la tua terra. Solo così
potrai ritrovarti.”

Significa per Gennet pulsare all’unisono con
la propria patria e con la propria anima abbattendo i confini di spazio e di
tempo.

Arrivai in Italia e subito il ritmo serrato mi aggredì,
ma dentro di me la pace. In quel posto sacro dove conservavo il ritmo della mia
terra tutto era quieto, anche quando c’era dolore. Ora potevo stare ovunque su
questo pianeta, ero a casa dentro di me…

C’è invece chi vive in uno stato di
sospensione, fuori da sé stesso e senza dimora, come testimoniano gli
intensissimi versi tristi del poeta albanese Gezim Hajdari: “Vivo sospeso /
senza appartenere a nessuna dimora / al bivio di un equilibrio”, “la mia
angoscia diventa orizzontale / come la mia illusione / sottile diventa anche il
muro / che mi difende e mi divide”. “Di giorno sto con voi e di notte emigro
laggiù / portato da un’ombra.”

Il tunisino Imed Mehadheb nel racconto “Meteco.
L’uomo che baciava i libri”
tesse una trama complessa e ricca di inventiva
in cui usa le parole per ribaltare situazioni. Tommie, un afroamericano in
preda ad un delirio, si “sveglia” bianco e naziskin e si ritrova a picchiare i
suoi stessi amici.

Kawawa stava suonando il saxofono immerso in una nuvola
di pentagrammi bastardi alla ricerca dell’ottava nota della dissidenza. (…)
Tommie, dopo una breve esitazione, serrò il suo pugno e colpì Kawawa al petto
ma, a sua volta, sentì una fitta al petto. Colpì Kawawa alla spalla e, con
meraviglia, sentì una fitta alla spalla e si fermò.

Forse il segreto per riuscire a creare una
società tollerante sta proprio qui: mettersi nei panni degli altri, perché,
come scrive Imed “la vita non è né bella né cattiva, spetta all’individuo
darle un senso attraverso il suo comportamento.”

Le parole narrano storie, ma possono anche
opporsi alla fine di una storia, lasciando in sospeso tante possibili
soluzioni: basta disporre le parole in un altro modo ed i protagonisti vengono
catapultati in un’altra vita. È quanto avviene nel racconto “Il rapimento”
del bosniaco Bozidar Stanisiç, in cui si narra l’esistenza dei profughi di
guerra sempre protesi verso il ritorno un giorno in patria. È la storia di “Vladimir
R., trasferito da un mondo in cui credeva e per cui aveva lottato. Ma la fede
si era assottigliata fino a diventare come un capello invisibile, e la lotta si
era tramutata in silenzio, in un altro paese.”

Non a caso l’autore sceglie l’assenza di parole per
descrivere lo stato di profonda prostra-zione in cui cade chi è costretto dalla
violenza ad abbandonare gli affetti più cari. Allora anche le parole si
arrendono, sembrano sfug-gire, non servire più a nessuno. È l’inizio
del-l’incomunicabilità che contraddistingue ogni guerra, fuori e dentro di sé.

E allora se le armi tolgono forza alle
parole, per Stanisiç l’unico modo per opporsi è sospendere la narrazione: “No,
Vladimir R. non raccontò la fine della storia, come se davvero al mondo ci
fossero storie che non hanno la loro fine.”

L’incomunicabilità tra marito e moglie, parole non dette
di un intenso amore, sono la chiave di lettura del racconto “La storia di
Fatima”
della camerunese Gertrude Sokeng. La protagonista, ritornata in
Marocco alla morte del marito, decide di ripercorrere in Italia le tappe del
suo amato per “ricordare Rachid insieme alle persone che l’hanno
conosciuto”.
Solo intraprendendo il viaggio a ritroso nel paese di
immigrazione Fatima prende consapevolezza di “quanto poco conosceva Rachid”
e della dura realtà, a lei sempre celata per amore, vissuta invece dal marito
in Italia.

La parola è il fulcro del racconto “Chiama-temi
Mina”
dell’italo-malgascia Fitahiana-malala Rakotobe Andriamaro, una
ragazza dal nome complicatissimo che decide da sola di abbattere le barriere
linguistiche inventandosi un nome italiano “Mina”. Facile, diretto; inventarsi
un nuovo nome significa crearsi un’identità nuova che dirime la precedente.
Eppure un imprevisto annulla la piccola invenzione linguistica e fa ripiombare
Mina nell’isolamento dell’incomunicabilità.

È provocatorio il racconto “S.D.” di
Jadelin Mabiala Gangbo del Congo Brazzaville, per il quale vengono usate
volutamente parole crude, a volte persino insolenti e volgari. L’autore sembra
voler insudiciare il linguag-gio per rendere l’atmosfera dei “miserabili” di
una società futura dove le ingiustizie ed i soprusi regneranno sovrani. E così
intesse una trama fantascientifica con scambio di alieni tra il pianeta terra e
il pianeta Anarchia.

Il pianeta Anarchia – scrive Jadelin – era
identico al nostro, in quanto al peso e alla densità della popolazione. I nomi,
le età e le fisionomie coincidevano nei soggetti dei due paesi. Non mi rendeva
affatto orgoglioso sapere che anche lì esisteva uno Zono di quarantadue anni,
con due figli e una moglie. Lo immaginavo con uno stile di vita differente dal
mio; un invertebrato, dato che vive in un pianeta anarchico dove la gente nasce
già con ideologie di rispetto nel Dna.

Non è un caso che entrambi i protagonisti,
l’alieno ed il terrestre, si chiamino Stronzo, ma ben diversa sarà la loro
sorte: il terrestre soggiogherà Anarchia introducendovi ogni sorta di violenze
ed ingiustizie, mentre l’alieno accolto in terra come un eroe verrà presto
abbandonato da tutti e considerato un incapace per i suoi sani principi. La
stessa parola, “Stronzo”, acquista così due significati opposti: ecco come
culture differenti possono plasmare gli uomini affidando differenti significati
al linguaggio.

La sperimentazione narrativa più riuscita è
quella operata dalla messicana  Martha
Elvira Patiño nel racconto “Naufragio”. La scrit-trice reinterpreta
infatti modelli linguistici mutuati dalla cultura classica patrimonio
del-l’Occidente (l’Eneide di Virgilio), calandoli nell’attualità delle
migrazioni da paesi di dif-ferente tradizione culturale.

L’esito è una “discesa agli Inferi”
attraverso un viaggio errabondo per mare, metafora del viaggio dentro l’animo
umano e dei popoli.

C’è dentro di noi, poveri mortali, una forza
spirituale che va ben al di là del dolore o della volontà. Dopo tanto fuggire
dalla devasta-zione e poi il naufragio nel mare per lunghi giorni, c’è ancora
speranza nel mio volto solcato da molte amarezze.

Eppure le parole di pace di cui il
protagonista vorrebbe servirsi per creare concordia tra i popoli, tra chi è
costretto a migrare e chi è costretto ad accogliere genti sconosciute, non
sortiscono l’effetto desiderato. “La pace, sembrava scritto, la si doveva
ottenere con la violenza”.
L’epilogo è amaro: un naufragio nella memoria di
guerre vicine e lontane in cui la vittoria sarà sempre “tetro spettro della
morte”.

Quando le parole tacciono, sembrano dire gli scrittori
immigrati, i silenzi non alimentano la speranza nel dialogo, ma sono il
riflesso dell’incomunicabilità. Solo la parola salva; spetta quindi a tutti noi
dar forza alle parole di chi sta gettando messaggi in bottiglia abbandonati
troppo spesso alla deriva di sentimenti monchi, perché non vissuti dav-vero con
il cuore.

 

 

* Giornalista, presidente
dell’associazione interculturale Eks&Tra, via Covignano 165/B, 47900 Rimini

tel. e fax 0541/392951

e-mail: gnaffo@infotel.it

 

 


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