La casa di Ivan Zubov

 

Ricevetti la lettera raccomandata dal vecchio Semion alla fine di
agosto. Mi comunicava che la casa doveva essere demolita di lì a poco e se
volevo andare a Mosca potevo fermarmi da lui. Il mio cuore cominciò a battere
forte in preda all’emozione. Aspettavo questo momento da molto, l’avevo sognato
da quando avevo lasciato la Russia anni prima ed ero decisa ad andare a fondo
nella faccenda e recuperare quel tesoro che mi apparteneva ed era profondamente
legato alle mie radici.

I ricordi dell’infanzia come un’onda calda erano saliti al cuore.

Vedevo una ragazzina, alta e magrolina, con due treccine bionde
sempre disfatte, correre su e giù per la scala della casa di legno a due piani,
in un sobborgo della periferia di Mosca. I miei genitori avevano un piccolo
appartamento al secondo piano con il balcone che guardava verso il giardino.

La nonna Elisabetta abitava nel suo appartamento al primo piano. I
miei genitori lavoravano di giorno, tornavano a casa solo alla sera e la
maggior parte del mio tempo lo passavo da lei; così che tutti i parenti
dicevano che ero la nipote preferita della nonna.

La casa era stata costruita da mio nonno Ivan Zubov, ricco
commerciante di lievito, per andare ad abitarci dopo le sue nozze con
Elisabetta, la bella figlia del proprietario della vicina manifattura di
Filimonov. Quelle nozze la gente del sobborgo le avrebbe ricordante per tanto
tempo. I cavalli più belli della zona, fra i quali i famosi stalloni di Oriol,
portavano i loro proprietari sulle carrozze addobbate per la festa.

Il matrimonio era stato celebrato nella chiesa ortodossa del
sobborgo, dedicata a S. Elia, bianca e cesellata, con le alte cupole dorate,
costruita, dopo la vittoria su Napoleone sopra la collina vicino al laghetto.

La nonna mi portava da bambina alle lunghe messe ortodosse dove
immagini sacre mi guardavano da tutte le parti illuminate dalle fiamme delle
candele poste sui grossi candelabri. Imparai a cantare le principali preghiere
ed assimilai il senso del sacro che mi entrava nel sangue.

Dopo le nozze gli sposi si trasferirono nella casa nuova. Era
stata costruita con grandi tronchi robusti e stagionati, messi ad incastro,
l’uno sopra l’altro, senza l’uso dei chiodi, grazie solo alla abilità degli
operai. Poi l’avevano rivestita con assi di legno e verniciata. Era di un color
marrone tendente al rosso scuro che allora andava molto di moda.

Era la più bella casa sulla via o forse anche in tutto il
sobborgo. Dietro alla casa c’era un gran giardino che occupava tutto lo spazio
fino alle stalle che davano su un’altra strada parallela. Nei due lati era
recintata da una alta staccionata di legno.

I meli e i ciliegi erano stati i miei amici per tanti anni, mia
nonna Elisabetta li ricordava quando erano ancora dei piccoli arbusti, fragili
e buffi nella loro magrezza.

Da ragazza consideravo il giardino come un mio amico intimo: lui
custodiva i miei segreti adolescenziali e giovanili, a lui confidavo le mie
angosce e le paure. Il giardino mi era stato sempre vicino, mi consolava come
poteva, nella sua ombra e nel suo profumo trovavo la calma. Abbracciavo i
grossi tronchi dei meli per trovare le risposte alle mie domande alle quali
nessuno degli adulti sapeva rispondere: bisognava solamente saper aspettare e
le risposte si formavano nella mia mente.

Ogni anno aspettavo il lento svegliarsi del giardino.
Festeggiavamo insieme la stagione della fioritura quando tutta l’aria intorno
s’impregnava del profumo degli alberi fioriti. D’estate casa e giardino erano
quasi uniti: i meli e i ciliegi più vicini la toccavano, e noi, gli abitanti
della casa, eravamo grati per questa unione che ci procurava l’ombra fresca nei
giorni più caldi. E la raccolta dei frutti in autunno! La casa era colma di
mele e di ciliegie: fresche nelle ceste e nei secchi, essiccate su vassoi e
cartoni, cotte per la marmellata nei vasi di vetro che impregnavano la casa dei
tanti sapori diversi.

Il giardino era sempre bello, in qualsiasi stagione, sotto il sole
e sotto la pioggia, al mattino ed al tramonto. Era vivo, viveva a modo tutto
suo, come pure la casa.

Dormiva d’inverno di un sonno profondo, catartico, ma d’estate lo
si sentiva sospirare anche di notte; i rami più giovani e delicati tremavano e
bisbigliavano sotto i leggeri soffi del venticello notturno.

I primi alberi, mio nonno Ivan Zubov cominciò a piantarli con la
nascita del primo figlio. Quando nasceva un figlio maschio il nonno piantava un
melo, quando nasceva una femmina, un ciliegio. Di maschi ne aveva avuti quattro
e di femmine sei.

In fondo al giardino, nelle stalle, Zubov teneva i suoi cavalli
con i quali lui e i suoi lavoranti, andavano per le cittadine intorno a Mosca a
vendere il lievito.

Dopo un anno dal matrimonio era nato il primo figlio maschio di
Zubov: Vassilij. Elisabetta era diventata ancora più bella di prima. Il
commercio di Ivan Zubov prosperava.

Erano i primi anni del ventesimo secolo. I lontani echi dei
subbugli a Pietroburgo, come li chiamava Zubov, non toccavano il ritmo sereno
della vita. I figli nascevano uno dopo l’altro, erano sani e robusti come i
loro genitori, e riempivano tutta la casa con le loro grida di gioia o di
pianto. Elisabetta non aveva un minuto di riposo.

Aveva due donne che la aiutavano. Una era una sua lontana parente
zitella che trovò nella famiglia Zubov il suo focolare domestico. Si chiamava
Fenia, avevo saputo che era rimasta zitella a causa di un amore con un tenente
dell’armata dello zar. Il tenente era stato ucciso nella guerra di Crimea e lei
non volle più saperne di matrimoni, per tutta la vita era rimasta fedele al suo
tenente.

L’altra era una ragazza di nome Nina, anche lei una lontana
parente di Elisabetta, che era venuta a Mosca per entrare in un monastero e
aspettava il permesso della madre superiora.

Le donne preparavano da mangiare per la famiglia sempre in
aumento, badavano ai bambini e alla casa.

Tante cose avevano visto e vissuto insieme la casa e il giardino:
la prima guerra mondiale quando Zubov diede i suoi cavalli migliori per il
fronte, la rivoluzione d’ottobre, quando uno dei figli diventò un bolscevico,
la nuova politica econo-mica che stroncò il commercio di mio nonno e portò
all’espropriazione della casa da parte del nuovo stato con la dittatura del
proletariato.

Tutto questo mi raccontava nonna Elisabetta quando ero la
ragazzina con le treccine sempre disfatte dal continuo correre e saltare.

Poi, quella volta, assicurandosi che eravamo sole, andò verso la
stufa che riscaldava il suo appartamento, tolse con cura una delle piastrelle
bianche che coprivano i mattoni e dall’incavo del nascondiglio primitivo tirò
fuori un medaglione d’oro massiccio con una bella catenella di antica
fabbricazione. Me lo mise davanti e disse:

– Aprilo!

Schiacciai il bottoncino che si trovava sotto al medaglione, il
coperchio si aprì e vidi il ritratto in miniatura del bel volto di uomo.

– È tuo nonno – disse – me lo regalò quando ci siamo sposati.

Avevo visto anche prima due o tre fotografie di mio nonno quando
era già in età avanzata e non immaginavo che fosse stato così bello da giovane.

Il nonno era morto prima della mia nascita, dopo aver passato
dieci anni in prigione per aver raccontato al figlio del suo vicino un aneddoto
di matrice politica durante una festa di famiglia.

Fu denunciato. Morì di paralisi dopo due mesi dal suo ritorno
dalla prigione e prima della sua morte il vicino venne a chiedere il suo
perdono.

Il nonno non parlava più, fece un cenno con la mano, qualcosa a
metà fra una croce e un segno di andar via – raccontava la nonna.

– Questo medaglione l’ho messo via per te – mi disse. – Così ti
ricorderai di tuo nonno e forse anche di tua nonna – e alcune lacrime le
scesero dagli occhi azzurri.

La baciai e dissi che non l’avrei mai dimenticata. La nonna mise
di nuovo il medaglione nel nascondiglio e mi insegnò come trovarlo quando non
sarebbe stata più lei a darmelo.

Dopo la scuola superiore andai a studiare a S. Pietroburgo.

La nonna morì quando ero via. Quando tornai, l’appartamento era
già occupato da una famiglia sconosciuta: gli alloggi a Mosca erano molto
richiesti e per ogni appartamento che rimaneva libero c’era una fila di gente
che  aspettava di trasferircisi subito.
Così non potei recuperare il medaglione.

Questa faccenda rimase in sospeso per quasi trent’anni. Ma mai
come adesso sentivo la necessità di recuperare i ricordi della mia infanzia, le
mie radici ed anche quel medaglione che faceva parte di tutto il tesoro
donatomi in questa vita.

 

Il giorno seguente al mio arrivo a Mosca andai a vedere la casa.

L’antica casa di legno, costruita alla fine del secolo scorso,
sembrava una figura grottesca ed antiquata fra i nuovi palazzi, alti sette-nove
piani, sorti attorno. Sembrava un brutto anatroccolo fra i nuovi arrivati; la
sua originaria bellezza era nascosta sotto lo strato scuro e cupo che le
avevano lasciato la nebbia, la pioggia, il vento e il gelo di quasi cento anni
di vita.

Era abbandonata: le finestre del primo piano erano state rotte dai
ragazzacci del quartiere e al posto della porta principale c’erano delle assi
di legno fissate con grossi chiodi. Dei cinque gradini che portavano al piano
rialzato ne erano rimasti, due, e gli operai che avrebbero dovuto smontarla
avevano messo una angusta e stretta passerella.

Il grande vestibolo con la scala di legno a due rampe che portava
al secondo piano, aveva quattro porte imbottite contro il gelo dell’inverno
russo. Una era la porta principale, sulla strada, e di fronte si trovava quella
che dava nel giardino. Le due porte laterali a destra e a sinistra della scala
portavano negli appartamenti. Ultimamente venivano aperte e chiuse a pedate e
dalla plastica rotta dell’imbottitura 
scendevano a brandelli pezzi d’ovatta come le bende avvezze di un
ferito.

L’unica porta rimasta intatta era quella che dava in giardino.
Della vecchia scala non esisteva nemmeno un gradino ed era stata sostituita da
una scala a pioli. Gli operai dei cantieri vicini per entrare usavano quella,
tanto erano tutti o carpentieri o muratori e se ne servivano senza impicci. Il
secondo piano pericolante era chiuso; nell’appartamento a destra del primo
piano c’era l’ufficio del capocantiere, e in quello di sinistra la piccola
mensa per gli operai che lavoravano alla costruzione dei grandi palazzi
attorno, che isolavano la casa dal resto del mondo.

Era la stagione delle mele. Gli operai del cantiere vicino avevano
raccolto le più belle e le più mature, però tante erano già cadute ed erano
destinate a marcire sotto gli alberi; emanavano l’odore del siero mischiato a
quello dell’erba e terra bagnate.

Nonostante la sua età il giardino diffondeva un odore fresco e
umido nel tiepido giorno dei primi di settembre.

Il piano regolatore prevedeva la demolizione delle vecchie case e
la gente del quartiere andava a cercare le probabili cose preziose fra le
macerie. Poco tempo prima un anziano, di nome Michail, che conoscevano tutti
nel quartiere, cercando qualche cianfrusaglia fra i resti di un’altra casa
demolita, aveva trovato un antico cofanetto rinforzato in ferro pieno di monete
con il ritratto dell’ultimo zar. Non sapendo bene cosa fare, agitatissimo dalla
sua scoperta, Michail aveva portato il cofanetto alla polizia dove lo avevano
preso, avevano compilato l’atto del ritrovamento e gli avevano promesso un
premio. Michail ricevette in compenso una pensione mensile come premio ed era
felicissimo, al contrario dei suoi due figli, ubriaconi e vagabondi, che a
conti fatti dicevano a tutti che il loro padre rimbambito li aveva privati di
una fortuna favolosa portando le antiche monete alla polizia. La gente del
quartiere era d’accordo con loro.

Ad ogni demolizione di una vecchia casa molti andavano provvisti
delle pale e vanghe, ma la polizia era diventata furba e prima di tutti mandava
sul posto la sua squadra di poliziotti che praticamente setacciavano tutte le
macerie. Non avendo trovato niente mettevano il filo di cinta attorno e
andavano via. La gente scavalcava la cinta ed ogni pezzo delle macerie passava
attraverso tante mani, ma non trovavano niente. La fortunata scoperta di
Michail rimase unica ed entrò nella storia non scritta del quartiere.

Oramai nelle case antiche era rimasta solamente la casa di Zubov,
come la chiamava la gente, ma era di legno, dicevano che l’avrebbero portata in
campagna e dunque di macerie non si trattava affatto. Il nome di Zubov si
tramandava di generazione in generazione. Era il costruttore ed il primo
proprietario della casa, di lui sapevano che era molto ricco e la gente pensava
che qualche monetina d’oro il vecchio Zubov senz’altro l’aveva nascosta sotto i
pavimenti della casa ai tempi della privatizzazione e della nuova politica economica
nei lontani anni venti. Alla gente dunque dispiaceva che quelle cose preziose,
se c’erano, andassero a finire nelle tasche degli operai e del capo cantiere,
estranei alla vita del quartiere.

Ero felice di vedere la casa della mia infanzia, addirittura
l’aria che la circondava sembrava famigliare e cara. Il capo cantiere voleva
smontarla e portarla nel lontano paesino di sua suocera: la casa della suocera
oramai era vecchia, lui sarebbe dovuto andare in pensione dopo pochi anni e il
paesino gli piaceva, e così con poca spesa, praticamente di trasporto e di mano
d’opera, avrebbe avuto una casa nuova, di legno antico ben stagionato, non come
ne vendono adesso; dopo dieci anni ti ritrovi con la casa tutta marcia.

Mi fermai dal vecchio Semion, l’unico amico rimasto vivo di mio
padre. In cambio della vecchia casa di legno vicina a quella di mio nonno,
demolita secondo il piano regolatore, Semion aveva ricevuto un minuscolo
appartamento in uno dei nuovi palazzi vicini, era felice di non aver dovuto
spostarsi in altra zona della città.

Eravamo nella sua minuscola cucina, al quarto piano a bere il tè
alla moscovita e guardavamo con melanconia le vecchie fotografie che Semion
conservava gelosamente. Lo smantellamento della casa era previsto dopo due
giorni: la gente del quartiere sapeva tutto quello che succedeva nelle
vicinanze.

Aspettai due giorni e verso sera andai a vederla ancora e sentii
una mano come stringermi il petto quando vidi che rimaneva della casa. Gli
operai del cantiere avevano fatto piazza pulita, avevano portato via tutti i
tronchi e tutte le assi della casa lasciando solamente qualche scheggia qua e
là. Al posto della casa erano rimasti quattro camini che sembravano una parodia
dei ruderi romani. Tre camini erano rifatti e avevano un aspetto quasi moderno.
Ma il quarto… Era così nero dal fumo che quasi non si vedevano più le
mattonelle. Dalla disposizione dei camini riconobbi quello che apparteneva alla
stufa russa nell’appartamento di mia nonna.

E ancora i ricordi dei tempi lontani mi si presentavano davanti
come fossero proiettati dalla pellicola di un film. Accarezzai il camino,
cercai di ricordare la posizione del mattone che dovevo spingere per aprire il
nascondiglio segreto e all’improvviso sentii sotto la mano il vacillare di un
mattone.

“Adesso mi crolla tutto addosso” – pensai quasi con tenerezza. Ma
non sentii nessun rumore e il camino rimaneva fermo come prima. Mossi il
mattone di più e lo tirai fuori con una facilità sorprendente. Nella luce
crepuscolare dell’inizio di un settembre caldo e un po’ umido vidi dentro
l’incavo coperto dalle lastre di ferro, il medaglione.

Lo misi in tasca e andai da Semion. Eravamo ancora nella cucina
minuscola di Semion a bere il tè. Nella mia mente era apparso il volto della
nonna Elisabetta. Da quando la ricordavo non portava mai nessun anello o una
catenella: aveva venduto tutto per mandare i viveri nella prigione al nonno.

Aprimmo il medaglione. Il bel volto con baffi e barba corta e
folta guardava attentamente dalla fotografia. Gli occhi erano di mio padre e lo
stesso sguardo vedo a momenti in mia figlia.

La vecchia casa tenendo per sé un segreto quasi per ottant’anni
aveva deciso di fare a me, ultima della famiglia Zubov, un regalo. Nel mio
studio ho la foto di mia nonna vestita come si vestivano le donne nel secolo
scorso attorniata da cinque bambini piccini. Mio padre non era ancora nato.
Vicino ho messo il medaglione con il ritratto di mio nonno.

Passeranno a mia figlia e ai figli suoi, se Dio vuole, come dono e
ricordo del mio paese, della sua gente che non può essere sconfitta o annullata
nonostante tutte le sofferenze causate dalle rivoluzioni, le dittature e le
guerre che si sono susseguite e alle quali era predestinata per svegliare, in
ultima analisi, l’anima del popolo.

Dopo un lungo martirio il gigante dormiente si sveglierà e
rivelerà al mondo la sua intima natura d’amore.

 

 


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