Letteratura
d’immigrazione e letteratura d’emigrazione: qualche riflessione in margine al
concorso Eks&Tra

 

 

L’assegnazione di un premio letterario è una buona occasione per i
membri della commissione giudicante per riflettere sul proprio intervento, il
che significa per me, anzitutto, interrogarmi sul senso della mia
partecipazione a questa giuria e nello stesso tempo aprire una discussione sul
concetto stesso di letteratura dell’immigrazione: come si può definire, qual è
la sua posizione sulla scacchiera letteraria, con quali criteri va giudicata,
quali sono i limiti, chi sono gli autori, quali le tematiche, qual è e com’è la
sua lingua…? Le mie riflessioni partiranno inevitabilmente dalla mia posizione
di italianista (ahimè non italiano) operante in Belgio, interessato ormai da
più anni agli scrittori italiani del mio paese. Forse non è inutile aggiungere
che il Belgio è un paese bilingue, anzi trilingue in quanto costituisce una
terra d’incontro tra le culture germanica e romanza.

È immaginabile che un giorno s’insegni in Italia una letteratura
con nomi quali quelli di Yousef Wakkas, Gezim Hajdari, Mohamed Ghonim, Amor
Dekhis, tutti viventi ormai da anni nel paese e scriventi in italiano (e non
più un italiano composto a quattro mani), o ancora Girolamo Santocono, Carmine
Abate, Rosa Cappiello o Pier Giorgio Di Cicco, scrittori dai bei nomi italiani
sì ma solo in parte italofoni e attualmente viventi nei quattro angoli del
mondo?<!– –>1

E perché no? Quando nella seconda metà del Trecento iniziò in
tutta la penisola italica il noto culto delle “tre corone” nessuno nel nord o
nel sud si lamentò che Dante, fosse fiorentino, cioè un forestiero, nato e
vissuto in un paese non contiguo, o addirittura lontano per la maggior parte
degli stati che un giorno avrebbero costituito l’Italia. E il successo dei
grandi trecentisti non è stato nemmeno ostacolato dal fatto che scrivessero in
volgar toscano, una lingua ben diversa dalle parlate in uso altrove. Anzi, Dante,
Boccaccio e Petrarca appartenevano, per così dire, alla letteratura italiana
ben prima che fosse nata tale dicitura. Nessuno poi ha mai messo in dubbio
l’appartenenza a questa letteratura di Ungaretti, benché fosse nato ad
Alessandria in Egitto, o avesse scritto in Egitto e in seguito a Parigi versi
francesi. Ma la sua qualifica di “nato all’estero, da genitori italiani” è oggi
condivisa da centinaia di scrittori italiani all’estero che per vari motivi,
fra cui si annovera certamente il non rientro in patria al contrario di quanto
fece Ungaretti, non riescono a penetrare in Italia: italo-americani,
italo-canadesi, italo-australiani, italo-tedeschi, italo-belgi…

Nell’Europa odierna le distanze si stanno annullando, tra poco
neanche le frontiere conteranno più. Ne stanno già approfittando i beni
economici, di più in più attirati dalla magica prospettiva dell’euro, ma si ha
qualche volta l’impressione che gli uomini o le idee non circolino con la
stessa facilità. È una strana contraddizione constatare che in un’epoca di
comunicazione multimediale i libri spesso circolano meno rapidamente che non
nel Cinquecento, e che la maggiore accessibilità dei testi non ne ha garantito
automaticamente una diffusione capillare. Al recente convegno sull’Italiano
oltre frontiera (Lovanio, 22-25 aprile 1998) una poetessa italo-belga, Teresa
D’Intino ha accusato l’indifferenza totale dell’Italia nei confronti degli
scrittori italo-belgi:

Noi esistiamo e stiamo anche in buona salute in fatto di
scrittura… ma figuriamo sempre nella lista dei dimenticati. Siamo solo oggetti
di studio – e ne siamo contenti: meglio oggetti di studio che oggetti di niente
– ma non voglio morire prima che mi leggano in Italia. Voglio, fortissimamente
voglio essere letta in patria prima di morire.

 

Anche questo grido di disperazione nasconde però, forse
inconsciamente, una limitatezza di visione e una certa incomprensione nei
confronti della letteratura degli immigrati in Italia. Rivolgendosi ai
partecipanti del convegno, D’Intino ha continuato:

 

(…) quando si parla di letteratura d’emigrazione, i relatori di
madrepatria trattano sempre della letteratura degli scrittori africani,
marocchini, albanesi, ecc… Finora non ho ancora sentito parlare di noi, degli
scrittori italiani emigrati in Belgio (…). Cosa dobbiamo fare affinché ci si
occupi di noi in Italia? Dobbiamo diventare africani, marocchini, albanesi?

 

Mentre si capisce bene l’impazienza che esprimono queste parole,
delude alquanto che proprio gli emigrati all’estero dimentichino così presto la
particolare situazione di scrittori lontani dalla propria patria – che poi è
sempre stato pure il loro caso – e che neanche loro prevedano spontaneamente
uno spazio per inserire nello stesso tempo Santocono e Ghonim.

È chiaro tuttavia che letteratura d’emigrazione e letteratura
d’immigrazione non devono essere in opposizione; si contrastano solo qualora si
guardino i testi letterari con gli occhi classificatori delle vecchie categorie
tradizionali basate su visioni nazionalistiche e romantiche di stampo prevalentemente
ottocentesco: quello che è italiano non è straniero, la poesia non è la prosa,
un autore appartiene a questo o a quel genere… Questa mania di voler sempre
incasellare tutto e tutti avrà pure avuto i suoi vantaggi pratici e soprattutto
didattici, ma in un mondo polietnico e multiculturale non regge più, piaccia o
no. Si può essere isolati in patria, più di uno straniero, come anche
perfettamente integrati in un paese con una lingua e una cultura del tutto
diversa. In quale letteratura va inserito, secondo i criteri tradizionali, un
racconto fiabesco pubblicato da un italo-belga in un’edizione bilingue
italiano-sloveno (l’autore è originario delle valli del Natisone): quella
belga, un concetto già in sé discutibile in un paese con lingue e culture diverse
e quindi da suddividere in fiamminga e francofona; quella francese, ma della
letteratura dei paesi francofoni si parla ovunque fuorché nella Francia stessa;
nella letteratura italiana, ricordando che in fondo il volume è uscito a
Trieste, o in quella dialettale, tenendo conto ovviamente del fatto che lo
sloveno appartiene alle minoranze linguistiche non italiane…?<!– –>2

Ho preso un esempio complesso del mio paese, ma è ovvio che il
problema si pone ovunque; anche per il concorso di Eks&Tra sono stati
presentati testi scritti in altre lingue: francese, spagnolo… perfino
filippino, e testi bilingui. Sulla necessità di superare il sistema
tradizionale delle divisioni nazionalistiche si può facilmente essere
d’accordo, ma ciò non significa automaticamente avere delle idee chiare sul
come dovrebbe funzionare un approccio polisistemico nuovo. Mi rendo conto,
però, che tutto ciò sarà difficile, finché rimarrà solo una costruzione teorica
ad uso letterario e non basata su trasformazioni profonde anche nella società per
renderla davvero multiculturale.

Un altro problema che va affrontato con una certa urgenza è quello
della qualità. Troppi testi sono poeticamente e tematicamente assai scadenti e
bisogna spesso diffidare di scrittori di un’unica piccola raccolta di poesie
stampata a proprie spese, più per vanagloria che per vera ispirazione poetica o
urgente bisogno di trasmettere un messaggio o suscitare sensazioni estetiche.
Vorrei ricordare a questo proposito il duro giudizio di Prezzolini: “Più volte,
e sempre col candore dell’arcigno toscanaccio che è, Giuseppe Prezzolini
strapazzò gli sforzi letterari della colonietta italo-americana, fatta di gente
umile e sprovvista di studi: sarti, barbieri, calzolai, muratori, minatori che,
spinti da semplice nostalgia più che da complesse velleità di Parnaso,
pubblicavano (mi riferisco agli anni Cinquanta) versi che della lingua italiana
avevano il desiderio cocente e innocente più che la conquista dotta e
incorrotta”.<!– –>3

Scrivere ha senso solo quando si ha qualcosa da dire e si sa come
esprimerlo; solo il secondo si può in parte imparare. È vero che in un mondo
retto in larga misura dal denaro non basta più avere da dire qualcosa per
sfondare ed essere letto, specie se si è alle prime armi: ci vogliono canali di
diffusione adeguati, case editrici disposte a prendere rischi, critici che
vogliono percorrere vie nuove, un pubblico curioso ed aperto. I concorsi
letterari qui possono aiutare col dar voce, com’è nel caso di Eks&Tra, a
nuove categorie di scrittori, e col portarli alla ribalta; ma non possono
conferire qualità a opere che ne sono prive.

Un’ultima riflessione riguarda lo svolgimento dei lavori della
giuria, anche se per saggia tradizione le deliberazioni di una commissione sono
segrete. Vorrei ringraziare comunque tutti i membri per aver prefigurato a
scala ridotta questa futura società aperta e sensibile all’altro,
indispensabile per dar spazio alla letteratura dei migrantes. Ho letto testi, e
attraverso questi testi incontrato degli uomini che di sicuro altrimenti non
avrei frequentato, ed è stato un arricchimento profondo che spero la
pubblicazione di questo volume possa trasmettere a molti lettori. Ho anche
imparato tanto dalle discussioni, specie quelle concernenti le diverse visioni
sulla letteratura, e sui concetti di originalità e di autenticità in
letteratura, in rapporto al problema della necessità o meno, per chi scrive in
Italia, di conformarsi alla letteratura italiana. E poiché la scrittura è
anteriore ad ogni eventuale premiazione, è tutto merito degli immigrati scrittori.

 

 

*
Prof. di Linguistica italiana alla K.U. Leuven (Università Cattolica di
Lovanio, Belgio), socio corrispondente dell’Accademia della Crusca.

 

Note

 

1    Per una prima analisi e un’ampia
bibliografia di quest’ultimo gruppo si leggano gli atti del primo convegno
internazionale sulla Letteratura dell’emigrazione di lingua italiana nel mondo,
tenutosi all’Università di Losanna dal 30 maggio al 2 giugno 1990: Jean-Jacques
Marchand (a cura di), La letteratura dell’emigrazione. Gli scrittori di lingua
italiana nel mondo, Torino, Fondazione Giovanni Agnelli, 1991. Al fenomeno è
stata dedicata anche un’intera giornata del convegno sul Rinnovamento del
codice narrativo in Italia dal 1945 al 1992, svoltosi all’Università di Lovanio
dal 3 all’8 maggio 1993: cfr. Serge Vanvolsem e.a. (a cura di), vol. II: Gli
spazi della diversità, Roma-Leuven, Bulzoni-Leuven University Press, 1995, pp.
499-578; e anche in quello sull’Italiano oltre frontiera, appena conclusosi
(Lovanio, 22-25 aprile 1998), (Atti in preparazione).

2    Si tratta di Roman Firmani, Andren.
L’ultimo gnomo / Zadnji shrat, Trieste, Editoriale stampa triestina, 1989.

3   Il testo citato da Joseph Tusiani viene
ripreso da Robert Viscusi nell’articolo “La letteratura dell’emigrazione
italiana negli Stati Uniti”, cfr. Jean-Jacques Marchand (a cura di), La
letteratura dell’emigrazione, cit. p. 125.

 

 

 


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