L’impasto di una terra TC "L’impasto di una terra "

 

Appena Yanis entrò, scorse l’esile sagoma del nonno
delinearsi nel largo chiarore della finestra che dava sull’interno
dell’abitato.

L’anziano guardava verso le eterne facciate delle
case popolari, i fili alle finestre zeppi di bucato, il pessimo intonaco
sbiadito che copriva tonnellate e tonnellate di cemento armato. Per un istante
spostò la vista sulle sue mani, ancora ruvide anche dopo un bel pezzo che aveva
ottenuto la pensione. Sopra, come una coperta grigia il cielo soffocava la
metropoli che aveva mangiato tutti gli anni attivi della sua vita. Dai piani
alti, raggiungibili soltanto con ascensori imbrattati dallo sfogo quotidiano
dei ragazzi, tutte oscenità, la terra sfuggiva alla vista del vecchio. Ma da
quella finestra, con aguzzi occhi rimpiccioliti sotto le folte sopracciglia,
chissà che buco nero egli stava mirando?

– Respiro male quest’aria, figliolo. – Si lamentò
prima di girarsi. Andò ad accomodarsi sul sofà, sollevò il bicchiere dal
tavolino di fronte a sé, e bevve un sorso d’acqua. Indicando la poltrona,
invitò a sedersi il nipote che era rimasto, appoggiato, sulla soglia del
salotto. – Che hai fatto di bello questa domenica? – Chiese affettuosamente.

– Ho visto degli amici, colleghi di studio, di
lavoro. – Rispose il giovane evasivo mentre si adagiava sulla poltrona. Che
fosse stato nei quartieri più esclusivi della città, che non avesse visto
l’ombra dei sedicenti amici o colleghi e che fosse invece andato al cinema con
una ragazza nel boulevard più famoso del mondo, non era il caso
di farne un tema su cui conversare. D’altronde l’atteggiamento insolito,
estraneo al carattere del nonno, non lo lasciava indifferente.
Nell’ispezionarlo furtivamente, atteggiò il viso in una smorfia di
preoccupazione .

– È bella la giovinezza – disse il vecchio allusivo.
– Pure io ho fatto questa vita, quando ero giovane come te, forse peggio… – E
sorrise.

Anche Yanis sorrise, un po’ timidamente.

Questo nonno aveva con il ragazzo un legame più
stretto di quello che aveva dimostrato coi figli, forse per un sentimento
profondo, ravvisava in lui il rinascere di sé stesso.

– Con il tuo babbo e i tuoi zii ho vissuto poco.
Lasciavo il loro destino nelle mani della tua nonna. Conoscevo meglio i
cantieri che casa mia. – Ribadì con un po’ di orgoglio. E come per confermare
con prove concrete quanto aveva appena detto, si rialzò e fece capolino dalla
finestra, verso le case popolari massicce e ferme come le montagne. – Anch’io
ho compiuto il mio dovere nei loro confronti. Adesso è giunta l’ora di
realizzare l’ultimo atto della mia vita.

– Nonno, ne abbiamo già discusso, è una cosa
irrealizzabile. – Disse Yanis con scetticismo.

– Come sarebbe a dire, mi stai offendendo! – esclamò
il vecchio, ancora in piedi. – Ti mando a prepararmi il soggiorno, ti do tutto
ciò che occorre… poi ci andremo io e la nonna, a passare il resto dei nostri
giorni in pace.

Il ragazzo ridendo con discrezione lasciò intendere
come un consenso. Andò anche lui ad affacciarsi alla finestra del salotto. Si
imbatté nelle mura ingiallite delle HLM1. Fra non molto l’illuminazione avrebbe fatto della
città una stella frammentata nella notte. Yanis tornò al centro del salotto,
continuava a ridacchiare, non notò che il vecchio, tornando dall’armadio con un
piccolo astuccio in mano, lo stava esaminando con aria severa e allo stesso
tempo affettuosa.

– Non c’è niente da ridere, se non ti piace quello
che dico, esci da questa stanza!

– Oh, nonno, non esco, io voglio ascoltarti. Ma cosa
ti aspetti da chi non ha mai mandato una notizia, da un paese chiuso
ermeticamente? Nella pentola a pressione tutto bolle in fretta.

– Insomma il mio paese è ben cotto, mi vuoi dire
questo? No, no. Io non sono di questo parere. Gli studi l’hai finiti un lavoro
fisso, o almeno, un’occupazione degna per essere chiamata lavoro non ce l’hai,
è un’occasione d’oro per te. Anche tu appartieni a quelle parti. Il tuo sangue,
la tua carne, le tue ossa sono un impasto di quella terra.

– Oh, nonno, io sono nato qui! – Disse il ragazzo.
Vide il vecchio aprire l’astuccio, estrarre fuori una specie di grossa moneta
con catena che la trapassava con un foro fatto sul margine. Scorse una scritta
che occupava una delle facce, sapeva leggerne la lingua, ma non ne comprendeva
tanto il senso. Rise ancora.

– Ridi quanto puoi – acconsentì l’altro – la
missione sarà come un piccolo lavoro oltre ad essere un’occasione per conoscere
le tue origini.

Poco convinto, il ragazzo mormorò una frase alquanto
frastagliata.

– Il mio orecchio diventa sempre più pesante. Parla
un po’ più forte!

– Ho detto ci penserò.

Alla risposta pur incerta, un lampo di contentezza
si accese nelle pupille del vecchio; era un passo avanti nel convincere il
ragazzo. Ininterrottamente prese ad articolare discorsi incomprensibili,
aiutandosi con insoliti gesti. Il ragazzo rimase di fronte a lui impietrito a
scrutare il ragionamento da matti. Poi interruppe il silenzio esclamando: – Putain,
il nonno sta proprio male!

– Si atteggiò come a chiamare soccorso e riprese: –
Il nonno sta male!

Invece fu il vecchio stesso pronto a soccorrerlo,
con uno scatto energico gli afferrò il braccio. – Ma che dici, figliolo – fece
nella lingua del posto che parlava bene, anche se l’accento perenne stabiliva
con esattezza la sua provenienza. Puntò il dito sulla moneta e proseguì
sorridente: – Per un attimo sono partito lontano, mi sono trovato fra la mia
gente, nei bei tempi, sulla mia terra coperta d’erbe dal colore caldo e ho
respirato l’aria fresca della primavera.

– Negli ultimi tempi parti un po’ spesso, nonno –
constatò il nipote quietandosi – ma oggi mi hai proprio spaventato.

– E tutto ciò lo avrai sotto i tuoi occhi, sentirai
in abbondanza gli odori del luogo, ed assaggerai i saporiti cibi piccanti.

Il ragazzo storse la bocca, lasciò cadere il capo su
un lato, grattò i capelli spettinati, e cadde nello sconforto più assoluto al
punto di perdere il sorriso che aveva sempre offerto al nonno. Fu incapace di
pronunciare una parola.

– Te lo assicuro, laggiù ti divertirai. Dal mio nome
tutti ti riconosceranno. Siamo conosciuti, abbiamo rapporti di parentela
dappertutto fino al confine della nazione. Basta pronunciare il nome Garib
della grande famiglia Ibnu Kamel Beni Giamia Uled Kaled.

– Una frase che irrita la gola. Ibnu Kamel, vabbè, è
il nostro cognome, e poi Beni Già…. no, non ci riesco.

Ibnu Kamel Beni Giamia Uled Kaled.

 

***

 

Negli anni della sua giovinezza si vedeva Garib
sempre in compagnia di un certo Radi. Costituivano un vero esempio di amicizia,
tanto erano stati una coppia inseparabile, finché non era cominciata a frullare
nella testa di Garib l’attrazione dell’altra riva del vasto fiume.

Un giorno Garib, da solo, era sdraiato al di qua
dell’acqua limpida, strusciava con le gambe sull’erba primaverile. Il suo interesse
verso tutto ciò che lo circondava era scarso. Ammirava qualcosa che emanava
luci dorate dall’altra parte. Immerso in un sogno, parlava fra sé e sé come un
pazzo. Ad un tratto disse: – Vorrei tanto toccare il mistero. Guardò il
medaglione appeso al collo, ne lesse il retro, due amici, un cuore, insieme
fino alla fine.
Pensò a Radi.

E Radi, con l’elasticità di un fantasma, non tardò a
farsi presente; aveva in mano un pallone che lasciò scivolare sulla terra. Notò
che l’amico era molto svogliato all’idea di giocare e che, invece, tirava dal
petto il medaglione mettendogli la scritta in bella mostra. Era stabilito che
questo rituale si doveva svolgere nei momenti importanti. Radi ricambiò il
gesto, pur prendendo alla leggera l’atto, non voleva fare altro che divertirsi
con l’amico e il pallone.

– Io mi sto divertendo così – gli disse Garib
puntando il dito verso il lume dell’altra parte. Un giorno ci andrò… e porterò
anche te.

– Sei fissato amico mio. – Fece Radi e rise. – Noi
non abbiamo mezzi per andare avanti neanche un metro. Quest’acqua è bella,
pulita, ma non sappiamo quanto è profonda. Dai, giochiamo un po’ prima che ci
caccino via gli adulti.

– Anche noi siamo adulti e… intraprendenti. – Garib
si alzò, bloccò sotto un piede la palla che gli correva incontro. Nella sua
mente si materializzavano stratagemmi per affrontare l’impresa. Per esempio, un
paio di camere d’aria da gonfiare bene per costruire una specie di gommone.
Senza rendersi conto che gli automobilisti facevano il paese in largo e in lungo
per un pezzo di ricambio così. Mosse il pallone sotto il piede schiacciandolo
al suolo. Provò difficoltà a coordinare le sue parole. Ma poi si voltò verso il
fiume e aggiunse: – In qualche modo ce la faremo!

Radi che lo conosceva bene, lo squadrò con stupore,
questa risposta così convinta non se l’aspettava. Non era preparato ad
un’impresa così chiaramente impossibile, e gli passò la voglia di giocare. E
dopo alcuni giorni non seppe commentare il fatto, quando Garib lo sorprese con
il suo mezzo di trasporto marino nascosto sotto il cespuglio delle riva e gli
disse: – Non puoi dirmi di no adesso che ho fatto tutto, e ho pensato anche a
te. Tu verrai con me. Ed il nostro ritorno sarà con grossa fortuna.

– Dio ci salvi! – Pregò Radi e supplicò: – Garib,
non lo fare! È una pazzia!

Invece l’altro se ne andò annunciando di essere
pronto per la mattina dopo, lasciando indietro Radi ritto come un palo, la
bocca rigida.

Garib sapeva bene di non poter prevedere quando
sarebbe ritornato dal viaggio. Salì su per la collina panoramica abbracciando
con lo sguardo il paese intero che vi si adagiava sopra. E, una volta in cima,
si sedette guardando a lungo la vista sotto di lui. Qui ebbe l’intera zona
sotto gli occhi, il piccolo paese poteva entrare in un palmo di mano, la strada
principale lo tagliava in due ali disuguali di case e di grossi alberi. Le
persone spuntavano dagli angoli come cespugli mobili. Nel giorno del mercato si
dirigevano al centro. In questo modo, Garib voleva accomiatarsi dalla gente, le
stagioni, il colore vivace dei prati, il rosso dei papaveri, gli elementi di
quella realtà.

Quando Garib giunse al punto di partenza, la mattina
dopo, con un borsone a tracolla, le prime luci promettevano un cielo azzurro
per la giornata. Liberò il piccolo mezzo di gomma dalla corda, lo spinse verso
l’acqua, ebbe un improvviso brivido sulla schiena e sentì la mancanza del suo
amico. Ecco che questi saltò dal nulla, bloccò la zattera dall’altra estremità
e annunciò: – Non ti lascio andare!

E invece di fargli compagnia, mise il bastone fra le
“gomme” di Garib che presto si irritò perché non c’era tempo da perdere. – Ma
che vuoi? Vattene, vattene! … Ti prendo a schiaffi se non mi lasci in pace.

Radi venne cacciato via a più riprese, dopo che i
due si azzuffarono perfino. E finalmente Garib sedette sulla sua barca
prendendo rotta, con il volto all’indietro, a controllare le mosse di Radi.
Mentre remava si accorse che l’amico non si era rassegnato, che si era subito
lanciato affannosamente a nuoto. Arrivò ad afferrare la zattera. Garib lo
minacciò con il remo. Radi fece un segno di rassegnazione e disse sconfitto: –
Non mi colpire, ti lascio andare, ma ho deciso di venire con te.

Scivolò sopra, in silenzio e un lungo sguardo
riconciliante si stabilì fra i due. Dopo aver remato insieme per un tratto,
Garib parlò: – Grazie! Sei un vero amico. Ora mi chiedo, come avrei potuto fare
tutto questo senza di te.

L’altra riva sembrava irraggiungibile. Un’improvvisa
nuvola grigia iniziò a stendersi su di loro. Scorsero una superficie agitata e
stesa verso un orizzonte cupo ed incerto. La riva che desideravano raggiungere
scomparve del tutto. Di là a pochi minuti, la zattera perse l’equilibrio. Non
era il fiume di sempre che conoscevano. Persero il senso di orientamento, ma
Garib continuava a dire: – Andiamo avanti, tutto passerà.

La nuvola non aveva nessuna intenzione di passare,
in breve si avvicinò alle loro teste. Si addensava e si oscurava. Le onde
presero a ballare pericolosamente agitate dallo spirale dell’audace vento.
Garib a prua tenne la bocca chiusa, quando vide immergersi il mezzo a più
riprese. Radi sulla poppa traballante, non era in grado di ristabilire
l’equilibrio. Garib ammise: – Non riconosco questo fiume!

– Non è un fiume… furono le ultime parole smorzate
di Radi che venne travolto all’istante dalla bufera. Garib udì un boato forte e
a stento fece in tempo ad intravedere il compagno avvolto, come un pulcino, in
un’ala acquosa.

 

***

 

Quando Garib riaprì gli occhi si trovò circondato da
uomini mascherati e in divisa, vide un mondo acceso, tutto bianco candido.

Dove sono? – fece.

Nessuno degli uomini che parlavano fra di loro
ripose, ma lo guardavano. Steso su un letto, anche esso bianco, lenzuola
bianche, non riuscì a definire in che tipo di posto stava. Le parole che
echeggiavano nelle orecchie, lo riportarono al lontano passato, alla scuola che
aveva abbandonato alla fine delle elementari. Gli vennero in mente i maestri
che gli insegnavano la lingua che si praticava solo in classe. Man mano che si
riprendeva, cominciò a afferrare qualche senso. Si aggiunse un’altra persona
che disse:

– Te la sei cavata bene, giovanotto.

Credeva di essere finito in un manicomio. Fu questa
convinzione a scuotergli la mente. Preso dal panico, si mise a strillare a
squarcia gola: – Perché mi avete messo qua? Perché?

L’uomo afferrò per le spalle il paziente estenuato,
gli batté teneramente su una guancia e rispose: – Ti abbiamo salvato la vita,
coglione! Ma con la polizia, non ci possiamo fare niente. Ti rispedirà come un
pacco a casa tua.

Fuggì dall’ospedale e si ritrovò in un mondo
affollato da costruzioni le cui cime si fondevano nelle nuvole, tutto era
confusamente caotico ed estraneo ad ogni sua aspettativa. Si consolava almeno
per il fatto di aver ripreso presto a conoscerne il linguaggio. Dopo un breve
vagabondaggio, all’improvviso la sua coscienza fu scossa.

Aveva lasciato il compagno nel mezzo del percorso
(non sapeva se era morto, non sapeva se era stato salvato o era ritornato). Nel
profondo del suo cuore si aprì una dolorosa ferita.

L’esigenza di sopravvivere poi lo condusse dritto
dritto in un cantiere. Conobbe gli ambienti della clandestinità. Sprovvisto di
documenti, lavorava e abitava in nero.

Conobbe sua moglie nella clandestinità. Negli anni
che seguirono fece un cantiere dopo l’altro, diventando un bravo muratore. Si
sposò e così uscì dal lungo e buio tunnel della burocrazia. Fece figli che
cresciuti si sposarono ed ebbero a loro volta figli. Ma la ferita del suo cuore
non guariva. E quanti anni erano passati, quasi non se lo ricordava. Ora che
era vecchio pure insisteva con sé stesso, coinvolgendo il nipote, era
determinato. Non aveva più né motivo né voglia di stare sotto quella coperta
grigia che perdurava sempre troppo sopra la banlieu. 2

Dopo la partenza di Yanis, il vecchio passava le sue
giornate vaneggiando, e sperava che il ritorno del suo inviato sarebbe stato
carico di felici notizie.

 

***

 

Quando sulla nave che accarezzava la superficie del
mare azzurro Yanis iniziò a vedere la città bianca, gli sembrava di conoscerla.
I racconti del nonno avevano lasciato poche sorprese. Ed era affascinante
l’avvicinarsi lentamente, come quando si prende a stabilire una relazione con
un’amata. Si teneva appoggiato alla ringhiera del bordo con gli occhi che
assumevano l’intera luce, godeva l’aria mite che gli lisciava con dolcezza i
capelli dietro le tempie.

Un raggio caldo solcò i suoi profondi sentimenti, e
fu contento di aver accettato la proposta del nonno, nello scoprire tanta
bellezza. Ed era solo l’inizio. Poi il controllo della dogana e della polizia
di confine si svolse come in altri viaggi che aveva fatto all’estero, in
ordine.

– Uled Kaled? – chiese Yanis nella lingua locale con
difficoltà, all’ufficio d’informazioni della Capitale. Dietro lo sportello un
funzionario alla scrivania, un altro in piedi che teneva puntato il mitra verso
Yanis. Non si ricordò su che tipo di rivista o in che gioco di guerra aveva
visto quell’arma ma della sua origine sovietica, del suo nome kalashnikov, e
del suo impiego comune nei paesi in via di sviluppo, aveva sentito. Era
consapevole del suo corpo pietrificato in quell’istante.

Il funzionario aprì dinanzi a sé un grosso volume
sfogliandolo con pigrizia. – Vediamo dove si trova, quest’Uled Ka…led. Fa parte
di un gruppo di ricerca archeologica, suppongo. – Disse nella lingua di Yanis
che notò fin dall’inizio l’importanza di questa lingua, praticata da molta
gente.

– È il paese del mio nonno, ci voglio andare!

Il funzionario allungò il collo come un’anatra verso
lo sportello, squadrò smorfiosamente il ragazzo e disse cattivo: – Mi vuoi
prendere per il culo.

Il collega, provocando un clic metallico, drizzò la
canna dell’arma più precisamente verso il ragazzo, che ora si sentì paralizzare
la lingua nella sua bocca asciutta. Per mostrare le sue buone intenzioni, alzò
le mani, sul viso un’espressione tutt’altro che offensiva. La sua espressione
disarmata fu convincente, il Kalashnikov si abbassò verso le ginocchia e l’uomo
dietro lo sportello si riaddolcì. Riprese a sfogliare più attentamente il
gigantesco atlante.

– Mi ripeta cosa vuole.

– È un compito… che mi ha affidato mio nonno… Ci
vuole ritornare lui… Ecco, ed io vado per metterlo in contatto con la gente e
magari trovargli una casa dove stare. Spiegò il ragazzo, col viso color oliva
per lo spavento.

– Ora si calmi! – Fece l’altro poco convinto. – Quel
paese appartiene al passato. Adesso andarci è riservato a gente con mezzi che
possa mobilitare personale e materiale. Ci vogliono soldi! Da solo, la
mangerebbero le bestie, subito dopo il muro.

– Ho tutto il necessario, l’importante è che ci
arrivo e incontro delle persone, sono pronto a pagare qualsiasi prezzo. E ci
devo andare! – Non capì cosa intendeva l’altro con il passato, le bestie, il
muro…

– Se ce li ha i soldi, veda la AMT, agenzia
militare turistica.
Bisogna essere accompagnati.

Il funzionario consultò un elenco preso da una
specie di mensola. Fece vedere una cifra stampata in corrispondenza con il nome
Uled Kaled al ragazzo: – Ci vogliono due jeep e cinque uomini armati. Almeno!
Sempre che debba fare il contratto con la AMT.

– Con la AMT, due jeep e cinque uomini armati?

– Minimo!

I marciapiedi della città erano affollati, le strade
frequentatissime di traffico. L’odore della benzina inondava l’aria, il rumore
continuo di motori e clacson rendeva insignificante la presenza umana. A bordo
della seconda jeep sul lungo mare verso il paesino Wed Kaled, (sperduto chissà
dove), il cuore stretto nella morsa dell’emozione, Yanis ammirava il colore
chiaro delle case, dei palazzi che rispecchiavano lo splendore del sole, la
città che, immersa in una specie di bosco sul lato destro, cavalcava la collina
a forma di mezza luna, mentre sulla sua sinistra le onde non si stancavano di
ballare sulla sabbia della costa. Tre persone su ogni mezzo, salvo lui e i
conducenti, tutti tenevano il mitra puntato verso l’esterno.

– Stiamo per lasciare la città, siate prudenti,
mettetevi il cappuccio ninja3. – Fece uno dei soldati che coprì il viso alla testa di
cuoio, spiegando al cliente: – È per prevenzione perché l’aria, d’ora in poi,
sarà contaminata.

Pure Yanis si incappucciò, e all’istante vide un
vero muro alto avvicinarsi. Il traffico verso quella direzione era diminuito
notevolmente, i marciapiedi si svuotavano di passanti. I soldati esibirono con
ostentazione le canne fuori dai finestrini. Il varco del muro sovrastato da un
recinto fitto di filo di ferro spinato, era un tunnel corto che attraversarono
subito. A poche centinaia di metri, si presentò tutt’un altro mondo, il
silenzio, il vuoto e il cammino senza indicazioni stradali che non finiva mai.

Come ubriachi in corsa senza sosta, comparvero
alcuni branchi di somari grigi. Grossi rettili strisciavano dappertutto, e se
si avvicinavano al convoglio venivano crivellati dai mitra, scarabocchiando il
terreno bianco di sabbia. Le zone abitate erano piccoli agglomerati stretti e
distanti dalla strada. Al di fuori non si vedeva anima viva. Accumuli di sassi,
muri sventrati con qualche finestra superstite, facevano pensare alla
distruzione di un paese. I motori delle due vetture che correvano lasciando
dietro una scia di polvere, ronzavano di continuo, gli uomini a bordo stavano
in silenzio finché non si scatenò una raffica di spari, all’improvviso. Il
viaggiatore si abbassò dietro lo schienale del conducente fino a nascondersi completamente.
Le jeep si fermarono, i soldati tornarono tranquilli dopo la sparatoria.

– Che serpentone! – Fece uno ritraendo il mitra
all’interno. Scesero tutti tranne Yanis.

Formando un cerchio, i soldati esaminarono la
massiccia bestia abbattuta. Yanis alzò la testa con prudenza all’altezza del
finestrino, non aveva mai visto niente di così mostruoso.

L’aria era calda e pesante, e sulla collina
dirimpetto sagome di sciacalli si muovevano contro luce, aspettando di
impadronirsi della preda. Poi fino all’arrivo a Uled Kaled la scena si ripeté
diverse volte.

A poca strada, il buio era già sceso, ma il bled,4 simile agli altri paesi
visti lungo il viaggio, era abbastanza illuminato. Una sparatoria costrinse le
due jeep a fermarsi un’altra volta all’entrata. I soldati scesero, ma questa
volta tutti tranquilli. Incoraggiato da tale calma, pure Yanis li seguì. Quando
i mitra ripresero in una raffica secca di spari si buttò spaventato per terra
al fianco dell’automobile, ansimante. Ritornato il silenzio, udì risate
divertite dei militari. Uno di loro lo raggiunse di corsa.

– Alzati – fece con rispetto, tirandolo per un
braccio – alzati, qui si spara verso il basso. Bisogna stare in piedi per
evitare eventuali incidenti. Del resto sono rimasti pochi uomini, non si
sparano più. Gli uomini sono preziosi di questi tempi. Bisogna eliminare queste
bestie… chissà da chi e da dove cazzo ci sono state mandate. Adesso ti dobbiamo
portare alla casa degli ospiti dove devi alloggiare, e domattina vedrai che la
gente (gente per così dire, ce n’è poca) ti aiuterà a trovare i tuoi parenti…
(parenti, per così dire, se è rimasto qualcuno) – il militare fece una smorfia
di disgusto e rabbia, e concluse: – Queste bestie hanno rovinato la vita a
tutti.

“Sono preziosi gli uomini” la frase penetrò nelle
orecchie del ragazzo come una nota musicale, uscita proprio dalla bocca di un
militare, gli piacque, e si rimise dallo stress che durante il viaggio lo
racchiudeva in un cerchio angoscioso.

– Ecco la casa degli ospiti. Il nostro compito finisce
qui. – Disse l’uomo della AMT che scosse le spalle.

 

***

 

Yanis esitò davanti alla porta sbarrata
dell’alloggio che, con uno scatto determinato, si aprì dall’interno dopo pochi
istanti. Una giovane donna gli saltò davanti agli occhi. La creatura meravigliosa,
dalla carnagione bruna, dai larghi e scuri occhi, dai capelli neri tenuti in
coda corta sulla nuca, impugnava lo stesso tipo di arma, ma con la canna verso
l’aria, non verso di lui. Ma la tuta che indossava la prima donna che incontrò
nel paese dove viaggiava fu una cosa mai vista, trasparente come un cellophane,
la pelle fresca la contaminava di colore roseo. Ella sorrise ed una fila di
denti bianchi riempirono la sua bocca di gioia. Colto dall’ampio spettacolo,
egli, non si sa se per sollievo o per sgomento, fece un respiro profondo, ed
emise ancora una volta parole balbettanti dalla sua bocca aperta.

– Non c’è da spaventarsi dolcezza – fece lei, la
tuta tremava sui fianchi curvi.

All’interno siamo noi le padrone. E quindi ci
comportiamo come pare a noi. È per protesta che abbiamo rifiutato di andare
fuori. Il conflitto non è finito. Entra.

Lo prese per mano e lo condusse lungo un corridoio
pulitissimo, sui cui lati si vedevano molte porte, come in un albergo. Nel
fondo lo introdusse in una stanza dove giaceva un letto matrimoniale. Lo aiutò
a sistemare la roba del viaggio nell’armadio, riponendo l’arma nell’angolo
vicino, gli offrì una gruccia per la giacca che lei appese nel mobile, quando a
quel punto egli prese per parlare, gli tappò amichevolmente la bocca. Non esitò
a sdraiarlo sul materasso come un bambino, e fra le gambe rimaste penzoloni
sull’orlo si eresse lei come un cipresso. Per un attimo gli regalò una serie di
carezze sui capelli spettinati prima di appoggiare il dito sul primo bottone
della camicia, la aprì con delicatezza fino a metà poi la sua mano ritornò a
tappargli la bocca. In breve si sciolse i capelli, si liberò dei vestiti
trasparenti che scesero armoniosamente lungo le gambe dritte.

Yanis, immobilizzato come un oggetto antico, non era
in grado di realizzare la veridicità della scena. Quando la donna prese ad
avvicinarsi, fu colto da un’emozione raggiante pensando a un bacio,  si levò un poco e una mano andò a posarsi su
una coscia di lei. Ma il lieto momento andò ad annebbiarsi in un secondo.
Perché, non seppe come, si trovò di nuovo steso sulle lenzuola bianche. Lo
schiaffo che ricevette fu violentissimo.

– Maschio di merda, pure tu, straniero, sei uno
stronzo! Voi maschi cercate soltanto questo. – Disse indicando il suo pube
fitto e riccioluto. – Sembravi buono buono, siete tutti uguali, alla prima
occasione allungate le mani. Qui commando io.

Stordito fino allo svenimento, riparò la faccia con
entrambe le mani. Solo adesso le sue parole esplosero: – Adesso voglio parlare.
Come ti permetti, mi porti fino a questo punto e poi mi aggredisci come una
pazza, dandomi dello stronzo? Io non voglio niente, sono qui per un motivo ben
preciso. Viste tutte queste complicazioni, voglio subito chiarire le cose.
Prima di tutto voglio rivelare la mia identità, io sono…

– Sst! – Lo interruppe lei. – La prima condizione
importante è di non dare i tuoi dati alla prima persona che capita, meglio a
nessuno. È pericoloso. Ciò che ci interessa su di te, lo sappiamo già. –
Indietreggiò rivestendosi e appese sulla spalla la sua arma. – Non chiedere,
non informare; il paese lo devi conoscere da solo nel silenzio totale; devi
ascoltare, guardare, insomma devi osservare.

Yanis a poco a poco sentiva più forza nella sua
anima, acquisiva velocemente una specie di esperienza, famigliarizzando con gli
eventi in corso. Nel suo sguardo balenò un fulmine carico di curiosità: – Ma
perché tanta violenza, tanto riserbo, e malintesi. Non capisco poi questa
spaccatura.

– Spaccatura, ben detto! La nostra società non riguarda
solo gli esseri umani (come avrai già visto durante il viaggio), c’entrano
anche le bestie: è diviso in tre. All’interno le donne che comandano, fuori le
abitazioni i maschi…

– I maschi di merda, ironizzò lui.

– … I maschi di merda, all’interno dell’agglomerato.
In là, è il terreno delle bestie. Vedi, più vai fuori, più il livello si
abbassa. La colpa è sempre e solo dei maschi, non dico uomini, una parola
nobile, e se si continua così il termine scomparirà dal vocabolario. I
pochissimi uomini rimasti sono andati in clausura, e anche questo è un tipo di
protesta, si sono dati alla lettura eterna e a produrre libri che del resto
sono apprezzati soltanto all’estero, e qui da poche donne. I maschi hanno
tradito la nostra causa comune.

Mentre lei parlava come un insegnante di storia,
lui, sotto l’effetto dello stupore, fece due occhi strabuzzati che per poco non
saltavano fuori come pallottole. Davanti alla potenza femminile, agli
sconvolgenti capricci, alla determinazione della bella donna, sentì crescere
dentro di sé un vulcano di ammirazione. Non era sicuro di voler fare altre
domande, ma sforzandosi, e per non andare fuori il filo logico del discorso,
chiese:

– Quale causa?

La domanda fece sì che la donna rinunciò a lasciare
la stanza, nonostante in quell’attimo, fosse scoppiata una serie di spari
fuori. Ella ripose l’arma accanto alla porta con la calma di chi conduce una
vita serena. Il putiferio sembrava abituale. Era importante invece il discorso.
Fissando l’ospite, stirò la pelle della fronte verso i capelli, si rese
ponderatamente seria.

– Dunque, della causa comune, non sai niente. Eppure
in principio, è stata un esempio di lotta per tutto il mondo… – nel vedere il
ragazzo stringersi le spalle, si fermò ad osservarlo pensierosa. Si immerse con
il pensiero nella guerra che aveva devastato intere zone, nelle immagini
orribili di migliaia di cadaveri abbandonati sulle strade, nel buio che
attraversava il paese e di cui si ignorava la fine. La dolce voce si rattristì
quando riprese a parlare.

– All’aggressione che abbiamo subito, abbiamo
resistito insieme. L’abbiamo combattuta insieme. Sono stati anni terribili. Gli
invasori hanno preso in ostaggio il 75% della popolazione fra le due famose
catene montuose. Hanno imposto il ricatto del secolo, o consegnargli il destino
della nazione, o venivano uccisi tutti quanti gli ostaggi, tanto che avevano
presto cominciato a eliminare una persona al minuto. Avevano l’intenzione di
instaurare un sistema che noi non conosciamo. Con regole estranee che non
corrispondevano né all’esigenza della nostra terra, né al corso della nostra
storia, né al sapore del nostro cibo, né al vestire, né al parlare, né al
nostro modo di fare i bisogni naturali. Allora ci siamo opposti. Ma il ricatto
era troppo crudele, stavamo per cedere alla capitolazione.

Si fermò una seconda volta, il suo volto si
irrigidì, fece un respiro leggero prima di concludere. – Ma gli ostaggi non
hanno ceduto! Hanno scelto il sacrificio, collettivamente si sono suicidati,
uomini e donne a pari passo. Lasciarono un documento prezioso, trovato dopo la
vittoria, in cui raccomandarono alcuni principi fondamentali, fra l’altro
l’uguaglianza fra i sessi. Tutti i principi furono rispettati, tranne la
benedetta uguaglianza. I maschi hanno tradito. Anche la Capitale che abbiamo
tanto difeso ci ha voltato le spalle, si è chiusa nel suo muro spinoso.

– È spaventoso – disse lui. Stranamente ma per la
prima volta si sentì a suo agio, percepì quanto era distante da casa, la sua
città gli sembrava andare ad evaporare in un lontano futuro.– Ciò che ho visto
è spaventoso. Tu me lo stai confermando con il tuo racconto dettagliato. Ma
adesso, voglio dirtelo, non ho più paura. – Lasciò il letto raggiungendola, la
camicia ancora sbottonata a metà.

– Ho deciso di andare fino in fondo non solo nel
compito affidatomi dal nonno, per cui sono qui, ma voglio conoscere questa
società nei minimi particolari. Non mi curerò certo di queste spaccature
assurde che vi siete imposte. – Si appoggiò al fianco di lei e mise un braccio
intorno alla sua vita, la strinse: – Andrò perfino fuori, fra quelle che
chiamate le bestie.

Con delicatezza, lei si scostò, si piazzò faccia a
faccia con lui e disse con vigore: – Tu non hai nessun nonno originario di qui!
Vieni, ti faccio vedere qualcosa. – Lo tenne per mano e lo trascinò fuori dalla
stanza, da un uscio che dava su uno spazioso cortile. Nel buio, una fontana che
si rialzava centralmente insisteva a gorgogliare con un sibilo leggero.

Era circondata da statuette di persone,
contrassegnate da nome, cognome e data di nascita, nella lingua che Yanis
sapeva solo leggere. Per la maggior parte erano figure femminili, sette
rappresentavano donne di età media, quattro di età giovanissima. Le uniche due
figure maschili erano impostate in due estremità opposte, al collo di ciascuna
era appesa una grossa medaglia. L’aria era fresca, a quell’ora regnava
imponente il silenzio sulla zona.

La ragazza con la tuta trasparente e il mitra sulla
spalla, sufficientemente informata sull’ospite ignaro, seppe a che punto intendeva
condurlo.

– Come vedi, ci sono solo due uomini onorati nel
nostro santuario. Tutte queste personalità hanno dato la loro vita per la causa
comune. Sono stati esempi di eroismo nella nostra storia.– Lei fece un cerchio
con il dito indicando il monumento. Lo spinse fino alla prima figura maschile.
– Leggi qui!

– Radi, non ci credo! È l’amico di mio nonno! Dovevo
cercare pure lui, è mio compito ritrovarlo. 

Vide che la medaglia al collo della figura era
identica a quella del suo nonno. Di colpo si sentì ravvicinato davvero
all’origine, origine che non aveva niente però a che fare con cibi saporiti,
parenti fino al confine del paese, sui quali il vecchio Garib insisteva nei
suoi racconti.

Dopo questa rivelazione, la donna prese ad osservare
con attenzione la reazione alquanto agitata di Yanis.

– Questo non è nulla – gli disse misteriosa –
andiamo a vedere l’altro uomo.

Camminarono, lo teneva per il braccio come per
sostenerlo nel caso che inciampasse per un improvviso infarto.

– Non è possibile! –  disse ad alta voce. – Mio nonno è vivooo!

Con una mano lei gli tappò la bocca e con l’altra
gli strinse la nuca, e questa volta rivelò quanto era capace di fare, aveva
niente meno che una forza da lottatore: – Il tuo nonno è vivo solo in questo
piccolo cervello.

Il ragazzo si rese conto di tutta questa forza,
tuttavia non aveva alcun interesse di lanciarsi in una sfida fisica con una
donna. Piuttosto si abbandonò fra le sue mani morbide come un agnello in cerca
di affetto. E quando lei mollò la presa, egli cercò di rimanerle attaccato.

– La verità è che questi due uomini sono importanti
per la nostra causa. – Si raddolcì lei, che invece ora lo carezzava sulla nuca.
– I motivi veri per cui hanno lasciato il paese, sono una cosa e l’idea della
gente su di loro è un’altra: sono spariti (probabilmente autoesiliati), non per
timore di combattere il nemico comune, ma avranno voluto evitare di restare
coinvolti in una guerra sorello-fratricida. Tutti e due sono affogati in mezzo
al mare: fu il primo suicidio simbolico.

– Adesso sono molto contento di essere qui – disse
lui sereno – però ci voglio rimanere e voglio battermi anch’io. Ma non certo
per la vostra causa, combatterò per rivelare la verità sul mio nonno, sul suo
amico e su tutto quanto mi pare storto.

A conclusione delle sue parole, sembrava aspettare
qualche reazione violenta da parte della donna, e non gli importava.

– Bene! – fece lei invece, e la fila corretta dei
denti bianchi costruirono il suo sorriso meraviglioso. Gli porse il kalashnikov
con un gesto sacro. – Questo è un regalo per te!

 

           

 


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