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La tradizione nella mia valigiaTC "La tradizione nella mia
valigia"

 

Il mio nome è Michele Akira
Yamashita e, come indica il nome, sono metà italiano e metà giapponese. Ma solo
da un po’.

Infatti sono nato in una
società occidentale, apprendendo la modalità di comunicazione occidentale e per
molto tempo ho ignorato una dimensione che pure era parte di me. L’ho ignorata
perché il modo di comunicare di mio padre, e non sto parlando esclusivamente di
lingua, era diverso, più silenzioso. Chissà se la colpa sia stata mia o sua,
più probabilmente di entrambi, fatto sta che sono cresciuto credendo che la
scienza e la cultura occidentali potessero risolvere ogni problema
dell’umanità. Insomma sono cresciuto illuminista.

Fortunatamente o
sfortunatamente che sia (prima sembrava tutto molto più facile) un giorno al
liceo ho scoperto la filosofia e soprattutto Pascal e tutto è crollato. Ed ecco
cosa oggi le mie due parti, che ho scoperto alla fine non essere poi così
antitetiche, direbbero della tradizione e della valigia.

 

1. È possibile tenere una
tradizione in valigia?

Michele: Non capisco perché insisti
sul fatto che una tradizione non possa stare in valigia. Abbiamo una cultura e,
non dimentichiamolo, una personalità che non devono rimanere chiuse in noi
stessi ma essere donate al mondo, specialmente se consideriamo la vita come un
viaggio il cui  scopo è la
collaborazione, come suggerisce il titolo. E va donato per intero: tutto ciò
che non è dato va perso. Quale altro sistema suggerisci per farlo?

Akira: Una tradizione non è un
mucchietto di libri o di fogli o di qualche cosa d’altro che possa essere
tradotto in logica o linguaggio: ammetterai che esistono culture che ne fanno a
meno. E, per inciso, non le considero affatto “inferiori”.

A proposito di noi: ritieni
forse che lo Zen sia traducibile in termini di linguaggio? Lo Zen, non ricordo
più chi l’abbia detto, è un’esperienza. E l’esperienza non si racconta.

Ti ricordi l’esempio di
Polanyi? Un conto è leggere libri su come si scia, un conto è imparare a sciare
da un maestro. Nessuno ha mai imparato a sciare sui libri né, tanto meno, credo
che tutti i grandi nuotatori conoscano la legge di Archimede che li fa stare a
galla. I libri e la cultura in generale sono come la punta di un iceberg…

Michele: … al di sotto della quale
sta una dimensione tacita molto più grande. Lo so, l’abbiamo letto insieme
Polanyi, non ricordi? Anche al di sotto della scienza che viene considerata la
massima espressione della cultura occidentale esiste tutto un humus
strettamente umano, silenzioso; anche in questo campo che pare così razionale,
in cui sembra che tutto sia numero, si scopre che la ricerca della bellezza, così
sfuggente e apparentemente irrazionale, sta alla base di tutto.

Però vedi che anche tu sei
costretto a citare dei libri in favore della tua argomentazione? Io dico che la
valigia va riempita di libri, di immagini, di opere d’arte e, perché no, anche
di libri di fisica poiché questa è la nostra cultura.

Anche se certo non pretendo
di portarmela tutta dietro e so perfettamente che senza nessuno che legga e
mostri le sue emozioni, senza un “maestro”, per quanto indegno come lo posso
essere io, i libri non parlano.

Akira: In questo caso siamo
d’accordo. È difficile scorgere l’iceberg senza quella punta che viene fuori:
consideriamo dunque i libri come dita che indicano la luna. Tuttavia ricordiamo
che non sono la luna.

Comunque vorrei che il
bagaglio fosse più leggero, non tanto per motivi di fisica, quanto per il fatto
che non vorrei facessimo la fine degli ideofascisti di Feyerabend: una valigia
troppo piena è un impedimento per chi vuole cooperare. È il modo migliore per
imporre agli altri e non imparare nulla.

Una volta un insegnante di
filosofia andò da un maestro di Zen per imparare. Il maestro gli offrì una
tazza di the ma quando la tazza del professore fu piena il maestro continuò a
versare; allora il professore gridò: “Cosa fai, non lo vedi che è piena!!”. Il
maestro non fece altro che rispondere: “La tua mente è come questa tazza,
troppo piena. Dunque com’è possibile che io ti insegni qualcosa?”

Una delle capacità che ci
sono date dall’essere metà italiani e metà giapponesi è che abbiamo imparato ad
imparare, ad ascoltare senza dare nulla per scontato, per banale, per
peccaminoso o, aggettivo molto caro agli illuministi, “primitivo”.

Troppo spesso voi
occidentali avete considerato le altre tradizioni “primitive” e avete loro
imposto la vostra. Al di là di casi evidenti come gli Aztechi, pensiamo ai
modelli di sviluppo imposti ai popoli Africani, modelli economici del tutto
incompatibili col loro vecchio modo di vivere e che ha prodotto effetti
disastrosi sia a livello di guerre e sfruttamento, sia a livello ambientale. Ma
la cosa peggiore è che forse abbiamo perduto per sempre gli insegnamenti che
loro avrebbero potuto darci.

Michele: Dunque portiamoci dietro
Feyerabend e un’autentica voglia di imparare. Questa è la prima cosa da mettere
in valigia e da difendere: un’autentica democrazia; non una democrazia di tipo
illuminista, disposta ad accettare solo la razionalità e ad imporre un modo di
ragionare, ma una democrazia di tipo “londinese”. Sì, una democrazia in cui,
come a Londra, tutte le culture convivono e collaborano mantenendo le proprie
radici, ragionando in maniera diversa.

Non accettare modi di
arrivare alla verità diversi equivale ad ammettere una sola verità. Un po’ come
in un sistema formale: fissati assiomi e regole, è tutto finito.

 

2. Il corpo come prima fonte
della tradizione

Akira: Bene siamo giunti ad un
buon punto di equilibrio, ma la prima cosa che è necessario portare è il nostro
corpo che viene assai prima dei libri.

Generalmente le persone
considerano il corpo e le emozioni come inutili perdite di tempo, o peggio
ancora come distrazioni dalla ragione, unica fonte di conoscenza e possibilità
di un’esistenza felice. Quanto tempo abbiamo impiegato per uscire dall’errore,
vero?

La realtà è che se vogliamo
avere una memoria il corpo è il primo testo da conservare, un bene veramente
prezioso. In ogni nostra cellula esiste una memoria di generazioni e
generazioni di Yamashita e di Soffritti, il corpo è la sede degli istinti, esso
pone un limite all’arroganza della mente, che si crede infinita. La mente è
come i rami di un albero che cercano la luce, ma il corpo è come le radici su
cui si regge. Forse è questo uno degli insegnamenti dello Zen: riuscire a
raggiungere la nostra vera natura attraverso il finito della nostra corporeità.

Secoli di lavoro non
basterebbero a un computer ben costruito per gustare un buon gelato.

Dunque dobbiamo portare in
primo luogo il corpo che ha memorie ben maggiori della nostra mente.

Michele: E poi chissà che in effetti
non abbia ragione quel signore che ha scritto The japanese brain
sostenendo che la scrittura ideografica ha fatto sviluppare ai Giapponesi un
cervello che non solo lavora in maniera diversa, ma è costruito in maniera
diversa! In tal caso basterebbe portare noi stessi in giro per il mondo per far
conoscere cos’è il Giappone.

Al di là di ipotesi
intellettualmente interessanti, ma che lasciano un po’ il tempo che trovano,
hai perfettamente ragione. È necessario portare con noi tutto quell’ambito di
sensazioni che ci sono date dal corpo e quel bagaglio di gesti per esprimerle
all’esterno.

Ricordo quella volta che
siamo andati alle onsen (terme): il bagno caldo, guardare le stelle…
Ricordo anche quella poesia: “La lunga notte, il rumore dell’acqua esprimono
bene quello che penso”. Quando si abbandona ogni pensiero e si ascoltano con
calma le proprie sensazioni si entra in contatto con quella memoria cui ti
riferisci: si sente quella calma, quella comunione con la natura… Ma
descriverlo a parole non si può.

Il rapporto con la
corporeità caratterizza fortemente un popolo. Forse è vero, l’influenza
giapponese ci rende più silenziosi, più discreti nell’esprimere il nostro stato
d’animo, ma questo non significa vivere meno intensamente, significa forse
gustare la vita che scorre in noi con più calma e introspezione.

 

3. Il cuore

Akira: Comunque il corpo non è la
sola sede di memorie ataviche, in esso risiede la sensazione, ma abbiamo anche
il cuore. Troppo spesso la filosofia occidentale ha creato una dicotomia
mente-corpo dimenticandosi del cuore.

La sensazione provata alle
terme è sì una questione di corpo, ma anche di cuore. È difficile parlare in
italiano di questa grande parola. Kokoro in giapponese indica un ambito
molto più ampio: significa cuore, certo, (per quanto non in senso fisiologico),
ma anche intenzione, volontà, sentimento e molte altre cose. La metafora del
cuore è invece spesso usata in ambito buddista per descrivere il vuoto, quella
sensazione che tu prima hai cercato di descrivere e che molte filosofie
orientali considerano l’autentica natura dell’uomo.

Anche nel kokoro
risiede la memoria di un popolo, e di una famiglia soprattutto. Forse una delle
cose dell’oriente di cui maggiormente l’umanità ha bisogno è proprio un cuore
che possa guidarci oltre l’egoismo, la solitudine, l’odio. E, se vogliamo
imparare e insegnare, una mente senza cuore è completamente inutile. La mente
da sola può insegnare solo alle macchine, perché conosciamo alla perfezione il
loro linguaggio. Ma quando veniamo a contatto con culture diverse, o anche
semplicemente con persone diverse, non possiamo assolutamente pensare che loro
diano a gesti e parole gli stessi significati, né esiste un “linguaggio
perfetto”, come direbbero i positivisti, attraverso il quale sintetizzare tutte
le culture e le personalità del mondo. In quei casi solo il cuore, così
apparentemente irrazionale, ci può aiutare. Esso è sempre vuoto e ben disposto
verso gli altri, solo lui ci può indicare da quali basi parte un gesto, una
parola… Solo utilizzandolo potremo mantenere la nostra cultura senza rinunciare
ad apprendere dalle altre. La mente è come un occhio che vede le sfumature, il
cuore è come un occhio che vede l’armonia delle sfumature. Come potremmo mai
fare a meno dell’una o dell’altro?

 

4. Il simbolo

Michele: Dunque ora abbiamo deciso
di portare con noi i tre elementi portanti dell’Uomo nella forma suggeritaci
dalla nostra tradizione (ma speriamo di impararne altri): corpo, cuore e mente.
Tuttavia mi pare che manchi ancora qualcosa: un elemento che riesca a fonderli
insieme in un’unica cosa, che riesca ad esprimerli insieme in una volta sola,
qualcosa che riesca a comunicare agli altri tutta questa ricchezza.

Il linguaggio normale,
quello razionale, ovviamente non è sufficiente. Tale linguaggio tende a
racchiudere tutto in categorie ben definite, a limitare. E in effetti questo
comunicare basta, come dici tu, per insegnare a una macchina. Ma abbiamo
qualcosa di meglio: la terra, l’aria, l’acqua, il fuoco… i simboli insomma.
Essi sono utilizzati da tutta l’Umanità, sono presenti nell’inconscio collettivo.
E hanno un significato comune a tutti gli uomini. Le differenze di significato
esistenti sono come diversi cancelli che conducono comunque allo stesso punto.

Una tradizione potrà
sottolineare dell’acqua il potere generativo, un’altra l’adattabilità, un’altra
ancora potrà associarla al sentimento. Ma nessuna potrà mai affermare di essere
l’unica detentrice della Verità e se lo facesse dimostrerebbe di essere cieca.

Una volta tre ciechi che non
avevano mai potuto toccare un elefante vennero messi di fronte ad un esemplare.
Il primo ne toccò la proboscide, il secondo ne toccò una gamba il terzo ne
toccò il ventre.

Il primo disse: – L’elefante
è simile ad un lungo serpente!

Il secondo disse: – No,
l’elefante è un albero di non grandi dimensioni! 

Il terzo infine affermò: –
Sbagliate! L’elefante è come un enorme cane senza peli.

E poi continuarono a
litigare per ore.

In realtà il simbolo è
quell’elefante e le incomprensioni nascono quando tentiamo, con la nostra cieca
razionalità, di darne una definizione. Esattamente come l’esperienza, il
simbolo è simile ad un insieme di punti sparsi su un piano. La razionalità è
come una linea che cerca di racchiuderli tutti. Non è sbagliato farlo, come i
ciechi non sbagliano a toccare l’elefante, ma esistono sempre altre possibili
descrizioni valide e bisogna ricordarlo.

Tuttavia interpretare il
simbolo razionalmente non è una necessità per tutti: colui che, favorito dalla
sua tradizione o da doti sue proprie, riesce a “sentirlo” è molto avvantaggiato
nella sua comprensione perché riesce a coglierlo non solo con lo spirito
luminoso della razionalità, ma anche con la notturna luce dell’istinto e del
sentimento che è più proprio del linguaggio simbolico. Ma quali simboli
dovremmo dunque portarci dietro?

Akira: Da buon giapponese amo la
natura e dunque porterei con me il mare che tanto amiamo, essendo anche un po’
genovesi, la notte e le stelle, che sempre ci hanno fatto da guida nei momenti
difficili, e nient’altro.

In questo modo, portando con
noi solo la notte, l’acqua e null’altro se non spazi aperti, potremo sempre
dare agli altri comprensione e libertà.

Michele: No, portiamo con noi anche
il fuoco e la luce del sole per rischiarare e donare agli altri conoscenza,
bruciando sulla nostra strada la paura, il desiderio e l’ira.

Anzi, solo sintetizzando
fuoco e acqua, luce e oscurità potremo essere veri uomini.

 

5. Il paradosso

Akira: È giusto, mi hai ricordato
ciò che stavamo cercando: un modo per comunicare con tutti.

Dunque aggiungiamo un ultimo
tassello al mosaico, un tassello che nella tua ultima frase era
inconsapevolmente presente: non esistono solo due forme di linguaggio, ne
esiste anche una terza. Forse più inquietante, ma altrettanto universale: il
paradosso.

Per quanto siano poche le culture a utilizzarlo affermo la
sua universalità perché per comprenderlo si deve andare al di là delle parole,
al di là del linguaggio, al di là del paradosso stesso. Non a caso questa
tecnica è stata sviluppata dal più grande nemico della parola: dallo Zen.

Nansen fu troppo buono e perse
il suo tesoro.

In verità le parole non
hanno alcun potere.

Anche se la montagna diventa
mare,

le parole non possono aprire
la mente altrui.

Questa poesia di Mumon
coglie nel segno: le parole non possono aprire la mente di nessuno.

Il paradosso porta alle sue
estreme conseguenze la logica e distrugge il linguaggio. La regola del
paradosso è quella di mostrare l’insufficienza e la contraddittorietà del
ragionamento per mostrare altre realtà, realtà che sono comuni a tutti gli
uomini. Realtà che sono mostrate dall’illuminazione nello Zen.

Una volta Joshu chiese a
Nansen quale fosse la Via e Nansen rispose:

La Via non appartiene alle cose che si vedono, né alle
cose che non si vedono. Non appartiene alle cose conosciute, né alle cose
sconosciute. Non cercarla, non studiarla, non nominarla. Per trovarti su di
essa, apriti immenso come il cielo.

E per aprire una persona
bisogna rimandarla a se stessa.

Dunque se vogliamo essere
realmente utili dovremo sempre ricordarci di non dare mai risposta ai problemi
degli altri, ma di aiutarli a trovare la soluzione che giace dentro di loro.
Per esempio col paradosso, oppure utilizzando i simboli che, come abbiamo detto
prima, vanno infinitamente interpretati e soprattutto vissuti in maniera
personale.

Fra l’altro, ricordiamoci
che tutte le religioni si esprimono attraverso la voce del simbolo e del
paradosso: dall’ebraismo, al cristianesimo, al buddismo…

E in effetti le religioni,
lo dice il nome stesso derivato dal latino relego “raccolgo”, dovrebbero
servire a tenere insieme: ma non sotto la dittatura delle regole e della
ragione, le quali conducono a guerre e inimicizie, bensì con la consapevolezza,
più presente in oriente dove di rado si è assistito a guerre di religione, che
le vie di accesso sono diverse e personali.

 

6. La bellezza

Michele: Sì, dovremo utilizzare di
volta in volta mezzi diversi per mostrare chi siamo e tutti capiranno qualcosa
di noi anche da come parliamo. Ma non potremo mai, né io lo voglio, dimenticare
il linguaggio razionale.

In effetti è come se non
comprendendo le diverse bellezze di un tempio greco, così simmetrico, e di un
tempio induista, così ricco e poco simmetrico, ne dovessimo buttare a mare uno.

In effetti,
involontariamente, ho toccato un punto importante, almeno per noi: il senso estetico.
Ogni cultura ne ha uno e, per quanto ci riguarda, l’arte e la maniera di
viverla sono il culmine di tutto ciò che una cultura sa apportare al progresso
(non in senso illumen-razio-fascista) umano.

Nell’arte si manifesta
l’Uomo nella sua interezza: corpo, sentimento, mente. È quasi paradossale il
fatto che la ricerca di un modo per esprimere se stessi, la propria cultura, la
propria anima in maniera originale sia poi un linguaggio così universale.
Chiunque è in grado di comprendere l’arte se vi si accosta con lo spirito
giusto e se chi ha creato l’opera aveva l’intenzione di donare qualcosa al
mondo.

Chi nel mondo potrà essere
tanto gretto da non apprezzare Roma oppure Kyoto, per quanto così diverse?

Akira: In effetti ogni uomo va
alla ricerca dell’assoluto e una delle maniere in cui nella storia l’ha trovato
è il senso della bellezza che si esprime maggiormente nella creazione
artistica.

Ma spero questo non sia
stato inteso da tutti i grandi artisti nel modo in cui la intende il Foscolo:
non ha importanza alcuna ottenere la celebrità, sia essa più o meno prolungata
nel tempo, essa non sconfigge la morte, anzi, si limita ad aumentare l’ego.

L’infinito come è inteso dai
grandi mistici, e spero anche dai grandi artisti, non è prolungamento nel
tempo, ma uscita da esso. La forma della bellezza potrà cambiare nei luoghi e
nei tempi, ma la bellezza resterà sempre.

Chi crea o trova qualcosa di
bello è come se aprisse un canale verso l’infinito. In effetti una delle prime
prove dell’esistenza di Dio è la bellezza esistente nel mondo.

Noi siamo dotati, per
tradizione, di due sensi estetici alquanto diversi e questo è un vantaggio: da
una parte c’è il senso estetico giapponese, basato sulla naturalezza e la
asimmetria della natura, quella delle stampe a china e dello haiku, la poesia
di quattro versi che descrive un attimo di vita quotidiana; dall’altra quello
occidentale che in certi casi, come Baudelaire, il nostro poeta preferito,
addirittura arriva all’esaltazione dell’innaturalezza.

In questo modo ci è concesso
di apprezzare sia la natura sia ciò che l’uomo ha creato astraendo (va pur
sempre ricordato, checché ne dica Baudelaire, che l’uomo è un essere naturale)
da essa, vale a dire, per esempio, la scienza e il numero. Molto spesso, come
abbiamo già ricordato in precedenza, la scienza rivela sorprese.

Una volta il fisico Dirac
era in autobus e stava giocherellando con una matrice (una specie di tabella
dove vanno inseriti dei numeri) di due per due. La trovò molto interessante e
trovò che i risultati che dava erano belli. Allora disse a se stesso: – E se
questa matrice avesse applicazioni in fisica?– In seguito la modificò
leggermente e vide che ne aveva. La bellezza aveva colpito ancora una volta nel
segno. E come non ricordare quel congresso in cui il matematico Hadamard
sosteneva l’utilità del senso estetico in matematica e il poeta Valery lo
frenava ricordando l’importanza del rigore!!

 

7. Conclusioni

Akira: Che ne dici, abbiamo
concluso su cosa portare?

Michele: Credo di sì. Riassumerei
tutto con le parole del fisico Heisenberg:

È probabilmente vero in
linea di massima che nella storia del pensiero umano gli sviluppi più fruttuosi
si verificano spesso ai punti di interferenza tra due diverse linee di
pensiero… Se esse realmente si incontrano… Si può allora sperare che possano
seguirne nuovi ed interessanti sviluppi.

Questo probabilmente posso
offrire.

Akira: Se mi permetti io invece
vorrei citare una storiella Zen:

Un giorno un monaco chiese al maestro: – Perché non vedo
la Via da solo?– Il maestro rispose: – Perché stai pensando a te stesso, finché
vedi doppio, dicendo ‘Io no’ e ‘Tu sì’ e così via, i tuoi occhi sono
annebbiati. Quando non c’è Io e non c’è Tu, chi mai vorrà vedere la Via?

Quando si è riacquistata la
reale unità delle cose e delle persone la ricerca dell’uomo è terminata. Questo
io posso offrire.

Michele: Bene. E ora partiamo.

 

 


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