Sognando una favola

 

Quando si è
da soli a sognare, è solo un sogno. Quando si è in tanti a sognare, è già la
realtà che avanza.

(Proverbio
brasiliano)

 

Davide, sua moglie e i loro due figli erano venuti a passare le
vacanze di Natale dai genitori in Africa. Per i bambini era ormai diventata una
tradizione quella di fare Natale ogni due anni con i nonni, alternandosi con i
cuginetti della Francia, i figli della zia Sarah. Quando i cugini andavano a
Natale, toccava loro andarci d’estate e viceversa. Avevano lasciato le colline
innevate della Brianza, le sue serate nebbiose e il suo freddo pungente per
piombare dopo poche ore di viaggio nel caldo torrido, umido e afoso della terra
africana.

I bambini erano tutti eccitati, perché a loro piaceva quel modo di
passare un Natale diverso, senza l’abituale albero con i calzettoni appesi, i
panettoni e i pandori. L’atmosfera magica dei chiari di luna africani, tingeva
le serate d’un alone di mistero che li affascinava, e, nella semplicità
ritrovata, sembrava di gustare maggiormente la gioia dello stare assieme, di
sentirsi uniti, di sentirsi famiglia.

Il piccolo Selom, di dodici anni, in particolare, si pregustava le
serate in compagnia del nonno, perché lo avrebbe “stressato”, come diceva suo
papà, per farsi raccontare favole e storie del passato. A dire il vero, con
quel chiacchierone di suo nonno, era difficile a volte distinguere le une dalle
altre. Alla piccola Seyenam, che aveva dieci anni, piaceva anche l’idea di
farsi coccolare e viziare dalla nonna.

Erano arrivati da una settimana, che era volata via come
d’incanto, presi com’erano a ritrovare i loro amichetti per rincorrersi
all’aperto, lontano dai soliti videogames, a crearsi giochi, a tuffarsi
nell’oceano, a costruire un presepe gigante nel giardino, a girare per i
mercati alla ricerca di cose insolite, e a volte, nella serata, ad andare a
vedere ballare, sotto il ritmo sfrenato del tam tam, la gente del vicino
villaggio. Seyenam, che era meno timida, si lasciava travolgere dal ritmo e
seguiva con il corpo il muoversi sensuale delle danzatrici, mentre Selom si
accontentava di accompagnare il ritmo con la testa, battendo le mani. Andavano
a letto stremati ma felici, sprofondando in quella dolce piccola morte che è il
sonno. Erano davvero felici di appartenere a mondi a un tempo così diversi e
così simili. In un certo senso si sentivano dei privilegiati.

La vigilia di Natale, dopo cena, dopo che il sole gigantesco e
rosso aveva macchiato l’oceano come l’olio di palma, prima di sprofondare sazi
nelle sue braccia, si erano seduti sulla veranda tutti e sei. Tre generazioni
unite da un profondo affetto: il nonno africano nella sua sedia a dondolo stava
riempiendo la sua pipa, la nonna italiana trafficava con aghi e filo di lana
per rifare un coniglietto per la sua adorata nipotina. Papà Davide e la moglie
brasiliana, erano concentrati sul gioco della dama, mentre Selom e la sorellina
cantavano una cantilena, seduti l’uno di fronte all’altro, battendosi le mani,
alternandole poi incrociandole, accelerando sempre più il ritmo di un gioco
vecchio come il mondo. Dopo un po’ si stancarono e Selom, come in tante altre
sere, si avvicinò al nonno che sembrava appisolato nella sua sedia,
tiracchiandolo per la manica del suo bel boubou azzurro, ricamato con colori
vivaci, dicendo:

– Nonno! Nonno! Stai dormendo? Subito suo padre alzò la testa dal
gioco per ammonirlo:

– Selom! Non disturbare il nonno!

– Ma che disturbare! – ribatté subito il nonno destandosi,
attirandolo a sé. – Vieni qui piccolo principe, dimmi!

– Nonno, mi racconti ancora di te e della nonna?

– Oh Dio! – esclamò la nonna scherzosamente con voce di finta noia
– ancora queste vecchie storie, lo sai piccolo che quando tuo nonno comincia
non finisce più!

E affermando questo, lanciò uno sguardo di dolce complicità al suo
“vecchio negro” come lo chiamava nell’intimità. Aggiunse poi:

– Chi è causa del suo mal…

E la nipotina concluse sveltamente:

– … pianga se stesso.

– Dai nonno! – insisté Selom.

Il nonno, che adorava raccontare le storie, non si fece pregare
più di tanto. Mentre i nipotini srotolavano una stuoia ai suoi piedi, e si
accomodavano, egli accese  la pipa,
sotto lo sguardo di rimprovero di suo figlio.

Si sistemò per bene nella sua sedia, tirò una bella boccata di
fumo ed iniziò così:

– Conobbi vostra nonna quando ero un giovane studente in Italia.
Allora qui non esisteva l’Università. Di africani in Italia in quegli anni ce
n’erano ben pochi, e la gente non era abituata a vedere, come si diceva allora,
della “gente di colore”. Per strada, ovunque, ti guardavano con una certa
curiosità e a volte con diffidenza. Non era raro sentire i bambini mormorare al
tuo passaggio: “Mamma, mamma, guarda quel signore è sporco!”, oppure più
semplicemente: “Mamma, un negro!”.

– Erano proprio stupidi! – fu il commento di Selom.

La nonna intervenne precisando:

– Erano bambini! Anche qui in Africa i primi tempi, i bimbi mi
correvano dietro gridando: “Yovo! (bianco) Yovo! Bonsoir, ça va bien, merci!”.
Lo dicevano pure a Davide e Sarah. Ti ricordi che Sarah le prime volte si
stupiva sbuffando: “Ma come! Qui mi chiamano bianca e in Italia mi dicono
negra!”.

– Sì però – riprese il nonno – a te non capitava nel salire sul
metrò, di vedere la “sciura” stringersi la borsetta al corpo appena ti vedeva
salire, oppure non vedere nessuno sederti accanto sul treno, finché tutti gli
altri posti non erano occupati!

– Così avevi tutto il posto per te, nonno! – commentò pratica
Seyenam.

– Lo volete lasciare raccontare? – intervenne papà Davide, che
aveva smesso di giocare, per avvicinarsi alla moglie a sentire questa storia
che ormai conosceva a memoria, per averla sentita centinaia di volte. La sua
bellissima e dolce moglie, di natura riservata e silenziosa rincarò a sua
volta:

– Zitti bimbi, sentiamo il nonno!

– Insomma, erano altri tempi! – riprese quest’ul-timo. – La nonna,
l’ho incontrata ad una festa di compleanno da amici. Tutti ballavano, tranne
lei.

– Ballavi anche tu nonno? – chiese la piccola a cui sembrava
impossibile che il nonno potesse ballare.

– Certo che ballava! – rispose la nonna. – Era un bravo ballerino
e tutte le ragazze andavano pazze per lui!

– Adesso non esagerare! – disse lui con falsa modestia. – Per
molte, era solo ed unicamente della semplice curiosità, il fascino
dell’esotico. Insomma, mi attirava questa fanciulla che non mi degnava neanche
d’uno sguardo, allora mi sono avvicinato a lei per conoscerla.

– E subito vi siete innamorati! – concluse romanticamente la
piccola Seyenam, mentre tutti si misero a ridere, e lei s’imbronciò pensando di
essere presa in giro.

– Non fu proprio così, ma mi era piaciuta subito perché sapeva
ascoltare e non solo sentire.

– Lui invece mi aveva conquistata – sussurrò la nonna – con quella
sua calma, quel suo fare sicuro, maturo e poi sapeva incantarti e raggirarti
con le parole. Mi piaceva, punto e basta, e non mi ero neanche posta il
problema che fosse nero.

– E così abbiamo incominciato a frequentarci, ma lei non voleva
cedere subito!

Come cedere subito? – chiese Selom.

– Papà! – esclamò Davide con voce di rimprovero.

– Oh! Figliolo! Sono cose della vita. Altrimenti non saremmo tutti
qui oggi!

– La nonna non voleva cedere alla corte del nonno – spiegò la
mamma a suo figlio che fece un “Ah!” d’intendimento.

– Poi alla fine – concluse la nonna – cedetti al suo “charme”
irresistibile, ci sposammo e nacquero vostro papà Davide e vostra zia Sarah.

– Che bello! – esclamò la piccola Seyenam.

– Sì, – riprese il nonno – possiamo dire oggi che la nostra, è
stata ed è, tuttora, una bella storia d’amore, anche se non fu sempre facile.
Abbiamo dovuto, come tutte le coppie, imparare a conoscerci meglio, a superare
i nostri piccoli egoismi, le nostre abitudini di vita legati al fatto di essere
di cultura diversa. Per esempio, io non ero abituato a fare i lavori di casa,
perché da noi erano considerati “roba da donna”, e facendoli, mi sembrava
giusto averne un riconoscimento, quasi una medaglia da parte sua. Mentre lei,
tornando come me dal lavoro, faceva le stesse cose, e mi sembrava del tutto
naturale che lo facesse senza averne ricompensa. Poi ero, a dire la verità, un
po’ permaloso, e me la prendevo nelle discussioni quando lei alzava la voce,
perché mi sembrava che mi volesse comandare, allorché contraria-mente alle
nostre abitudini, mi consideravo già magnanimo per il fatto che discutevo ogni
cosa con lei.

– Io invece – proseguì la nonna – non sopportavo inizialmente,
quando abbiamo vissuto in Africa, tutta quella promiscuità, parenti di qua e di
là, gente che ti arrivava in casa a qualunque ora, anche all’ora di pranzo e
che l’ospitalità africana obbligava ad accogliere a volte anche per dormire,
addirittura nel salotto. Non mi sentivo più in casa nostra, continuavo a
ripetergli che avevo sposato lui e non l’Africa. Condividevo tutto il bel
discor-so della solidarietà, della famiglia allargata, del senso della
comunità, ma da brava brianzola mi sembrava che tutto questo fosse del puro e
semplice parassitismo. Il vostro nonno non aveva il senso del tempo, quando mi
diceva “torno alle cinque”, bastava che incontrasse qualcuno, se ne stava a
fare “palabre” e se ne tornava alle sette, senza pensare neanche a telefonare.

– Da noi in Africa il tempo non esiste! – sentenziò il nonno. –
Poi un poco alla volta, ci siamo “imparati”. Ognuno ha cominciato a levigare un
po’ del suo, ad uscire dal suo etnocentrismo, e…

– Cosa vuole dire “et…nocentrismo” nonno? chiese Selom.

– Vuol dire pensare che le nostre abitudini di vita, il nostro
modo di pensare e di fare, solo perché nostri, siano quelli buoni e giusti.
Invece ci sono cose buone e non buone in ogni cultura, in ogni paese. E abbiamo
cercato di prendere le cose buone delle nostre due culture per insegnarle a tuo
papà e alla zia Sarah. In un certo modo siamo stati fortunati, perché eravamo
della stessa religione, perché se fossi stato per esempio un musulmano
praticante, avrei potuto sposare altre donne, e…

– Ti sarebbe piaciuto! – scherzò la nonna, ma lui continuò come se
non avesse sentito.

– E poi non abbiamo avuto ostacoli da parte di nessuno dei
genitori.

– Perché dovevano essere contrari, se vi amavate? – chiese
giudiziosamente Seyenam.

– Perché allora – rispose suo papà – le coppie cosiddette
“domino”, le coppie miste, in Italia erano viste come strane, perché per la
gente era una novità. Ricordo che addirittura avevano invitato nonno e nonna a
Roma ad una trasmissione televisiva sull’argomento.

– Sembra incredibile! – mormorò Selom.

– Sì, lo ricordo anch’io – proseguì il nonno. – E ricordo che già
all’epoca tuo papà che aveva all’incirca la tua età, ri…

– Invece aveva nove anni, anzi mancavano due mesi ai suoi nove
anni! – puntualizzò la nonna, che in fatto di memoria per le date era sempre
stata una campionessa.

– Insomma, già allora tuo papà rimase stupito quanto te, e mi
confidò che per lui una coppia mista era un uomo che sposava un robot. Ma
purtroppo, non tutti la pensavano così. Lo slogan era “moglie e buoi dei paesi
tuoi”. Ho visto degli amici minacciati di morte per essersi innamorati di una
donna bianca. Ho visto genitori tagliare i ponti con le loro figlie, perché avevano
la sola colpa di essersi innamorate di un negro.

– Sembra incredibile, nonno! – intervenne ancora Selom. – Come
facevano i nipotini a vedere i nonni?

– Erano tempi duri; alcune coppie che non andavano d’accordo si
rifugiavano dietro il paravento degli scontri culturali per giustificare il
loro fallimento, nascondendo così quello che era un’incompatibilità di
carattere.

– Alcuni ci dicevano – aggiunse la nonna – che eravamo degli
incoscienti, perché, secondo loro, i nostri figli non avrebbero saputo in che
cultura identificarsi, mentre noi eravamo sicuri che il fatto di poter
attingere a due culture diverse era una vera ricchezza per loro, un’opportunità
da invidiare.

– È così bello per noi – convenne Selom – poter girare per
l’Africa, l’Europa e il Sud America, parlare in francese, italiano e
portoghese, sentire tante favole diverse, poter mangiare tanti piatti diversi.

– Tu pensi solo alla tua pancia! – ribatté subito sua sorella.

– Devi ammettere papà – aggiunse il figlio Davide – che voi
eravate genitori un po’ speciali, che vi amavate seriamente, che tu non hai
sposato la mamma solo per poter avere la cittadinanza e metterti in regola .Ci
avete insegnato fin da piccoli ad essere orgogliosi di ciò che siamo,
rispettando gli altri, a contare sulle nostre capa-cità, a non giudicare la
gente dalle apparenze, ma ad avvicinarla con la consapevolezza che siamo tutti
portatori di valori complementari.

– Abbiamo fatto quello che dovrebbe fare ogni genitore
responsabile.

– Sì in teoria!– ribatté il figlio. – Poi ci avete dato
soprattutto tanto affetto, che per me è stato l’ancora di salvezza per
affrontare ogni avversità. Sapevo di essere amato da voi e questo mi bastava e
non pretendevo di essere amato ed accettato da tutti. E di chi non mi accettava
per il mio colore caffelatte avevo solo compassione, perché non aveva ricevuto
l’affetto che voi mi avete saputo dare.

Dopo queste parole, la nonna cercò di nascondere la sua emozione
dietro una tosse nervosa e il nonno prese un fiammifero per riaccendere la
pipa. La nonna, rivolgendosi a Davide disse semplicemente:

– Grazie Davide.

– E poi? – chiese ancora Selom.

– E poi bimbi, è ora d’andare a nanna – rispose la mamma – i nonni
sono stanchi. Domani è Natale, bisogna svegliarsi presto per la messa. Date il
bacio della buonanotte ai nonni e subito a letto. Domani, il nonno vi
racconterà il resto.

L’indomani, giorno di Natale, la casa dopo la messa fu invasa da
parenti di ogni grado, con una miriade di bimbi che correvano da tutte le
parti, eccitati nei loro bei vestiti nuovi, discorrendo dei loro regali. La zia
Sarah, il suo marito francese e i loro figli telefonarono. Selom e Seyenam
passarono almeno mezz’ora al telefono a fare gli auguri ai nonni Luís e Rosana
in Brasile. La nonna chiamò le sue sorelle e suo fratello in Italia. Il povero
telefono quel giorno era davvero bollente. La nonna, da buona brianzola,
sussurrava a tutti pensando alla bolletta:

– Mi raccomando, il tempo è “danè”!

Poi si sedettero tutti a tavola a gustare in allegria quel misto
di piatti dei tre continenti. Giunti al dolce fatto dalla nonna, i bimbi
gareggiarono in canti e poesie in diverse lingue, mentre il nonno cominciava a
dondolarsi dal sonno sulla sua sedia. Fece così la sua siesta quel giorno,
mentre la nonna si gustava in santa pace il suo immancabile e irrinunciabile
caffè, incurante del divieto dei medici.

Il buio, come di solito in Africa, arrivò presto, e il cielo di
velluto nero si cosparse di stelle luminose. Selom e Seyenam erano fuori nel
cortile col loro padre a ricercare ed identificare le varie costel-lazioni.
Davide fin da piccolo aveva avuto la passione per le stelle, e passava la notte
di San Lorenzo con il naso all’insù, per vedere le famose stelle cadenti.

Il nonno si avvicinò ai nipotini per dire loro:

– Vedete, bambini, guardare su nel cielo ci aiuta a ricordare che
noi siamo esseri della terra, e non di un altro pianeta. La terra è il nostro
bene più prezioso, è il nostro mondo e tutti noi quaggiù, al di là delle nostre
differenze, siamo prima di tutto cittadini della terra. “La terra” recita un
proverbio amerindiano, “non è un’eredità dei padri, ma un prestito dei nostri
figli”. Dobbiamo fare di tutto per conviverci in pace e trasmetterla intatta
per le generazioni a venire.

– Nonno, è quello che dice anche il mio maestro Salvatore! –
esclamò Selom.

– Sì, oggi vi insegnano tutte queste cose, ma ai miei tempi era
tutto diverso. Quando vostro papà era a scuola, si incominciava appena ad
accennare ai discorsi sulla mondialità e a parlare d’intercul-turalità. Alcuni
pionieri cercavano allora di defini-re la figura del mediatore culturale. Ci è
voluto tanto tempo per capire il ruolo essenziale della scuola nella formazione
di nuove mentalità, di una nuova visione dell’umanità, “dell’uomo universa-le”
come l’aveva sognato un grande poeta africano…

– Nonnino, raccontaci ancora le storie del tuo tempo! – chiese
Seyenam.

– Forse è meglio che facciamo sedere il nonno – intervenne il loro
padre ed andarono a raggiungere la mamma e la nonna sulla veranda.

Il nonno tirò fuori la pipa, caricandola con calma, conscio che
tutti erano lì appesi alle sue labbra, poi dopo la prima boccata iniziò:

– Ieri sera vi raccontavo che appena arrivati, ci chiamavano
“gente di colore” – poi mormorò fra sé – “come se il bianco non fosse un
colore!”. In quei tempi in Africa c’era tanta povertà. I giovani erano senza
lavoro, senza futuro. In alcuni paesi la democrazia sembrava una parolaccia, in
altri v’era la guerra. L’Europa si avviava lentamente verso l’unione, era
caduto il muro di Berlino e l’Africa, non facendo più peso nella bilancia,
veniva puramente e semplicemente scaricata. I francesi per primi cominciarono a
chiudere le frontiere e a rimandare gli africani con voli charter ai paesi
d’origine.

– Anche in Europa i giovani avevano problemi di lavoro – precisò
la nonna.

– Sì, è vero, ma l’Europa vomitava quelli che ormai avevano preso
a chiamare “extracomu-nitari”, che fino allora erano stati sfruttati, facendo
fare loro i lavori umili che i giovani europei non erano più disposti a fare.
Le donne facevano le serve, curavano i bambini e gli anziani.

– L’Italia – convenne la nonna – non era preparata ad accogliere
tutta questa gente. Arrivò gente dalla ex Jugoslavia in guerra,
dall’Est-europeo, dall’Albania, dai Paesi asiatici, dal Bacino mediterraneo e ovviamente
dall’Africa. L’Italia che per anni era stata un paese di emigrazione, si
accorse di colpo di essere considerata, senza saperlo, un paese ricco, una
specie d’America.

I neri africani seppure in numero ridotto rispetto agli altri,
erano per il colore della loro pelle più “visibili”: alla TV per parlare
dell’immigrazione, mostravano sempre loro. Sulle spiagge, i ragazzi che
vendevano statue, accendini, collane e cianfrusaglie varie venivano chiamati
“vù-cumprà”.

– Vù cosa? – chiese Seyenam. – È una parolaccia nonna?

– No tesoro – rispose la nonna – ma significava qualche cosa di
peggio. Riassumeva in sé il fatto, che non eravamo tutti pronti ad accettare le
dif-ferenze, ad accogliere il diverso da noi.

– Eravate… et-no-centrici – concluse fieramente Selom.

– Proprio così! – riprese il nonno. – Come diceva la vostra
bisnonna italiana, “l’ospite è come il pesce…”

– Dopo tre giorni puzza – completò la piccola ridendo.

– Gli “extracomunitari” – continuò il nonno – erano diventati i
capri espiatori delle tensioni politiche anche se, ad onore di verità, non
tutti noi ovviamente eravamo dei santi. Come in tutti i gruppi umani c’erano
delinquenti e criminali. Ma invece di applicare le leggi esistenti, si pensò di
chiudere le frontiere, come se bastasse questo a frenare, in un uomo disperato,
la sete irrefrenabile di cercare migliori condizioni di vita.

– Iniziarono così – completò la nonna – i ricongiungimenti
familiari, che portarono inevitabilmente nuovi problemi. Uomini e donne
facevano venire i loro rispettivi mariti, mogli o figli. I genitori che
facevano venire i figli, non conoscevano bene la lingua, non erano integrati,
ma semplicemente fagocitati.

– Fago… cosa? – chiese Selom.

– Vuole dire – spiegò il nonno – che vivevano fra di loro senza
avere rapporti veri con gli italiani.

– Vuoi perché non conoscevano la lingua, vuoi perché non si
aprivano neanche loro, ma soprattutto perché la gente non era pronta ad
accettarli, accusandoli di venire a rubare il lavoro, la casa, di essere
portatori di chissà quali malattie, di spacciare droga, ecc.

– Sì! – confermò papà Davide. – Ed intanto, arrivavano bambini, ne
nascevano. Quei bambini con cui mi trovavo a scuola avevano delle grosse
difficoltà. Molti problemi con i genitori, che dopo tanti anni di separazioni,
se li ritrovavano estranei. Alcuni figli, per via della lingua, facevano da
genitori ai genitori. A scuola avevano difficoltà perché i loro genitori non
riuscivano a seguirli nei compiti.

Erano come alberi sradicati, divisi fra due mondi, quello esterno,
nuovo, bello della scuola e dei compagni di gioco, e l’educazione soffocante in
casa. I genitori a loro volta erano divisi fra metodi educativi diversi, fra
l’educazione tradizionale e quella del paese di accoglienza.

– Papà, non capisco quello che dici – disse Seyenam.

– Vedi piccola, alcuni genitori erano stati educati con il
bastone, anche a scuola. Altri erano musulmani, poligami, cioè con tante mogli.
A scuola i bambini musulmani mangiavano del prosciutto senza sapere che era di
maiale. Quando tornavano da scuola sotto Natale, e dicevano al loro papà che la
maestra aveva detto che è Gesù Bambino che porta i doni, il padre si ribellava
dicendo che bisogna seguire solo quello che dice il corano. Ma il povero bimbo
che non aveva fatto la scuola coranica non ci capiva niente.

– Ma a noi a scuola ci insegnano tutto questo – disse Selom.

– Sì, lo so – rispose suo papà– ma allora i tempi non erano
maturi, la scuola e gli insegnanti stessi non erano preparati. Gli stessi
luoghi di culto per i non cristiani esistevano solo in qualche grande città.

– Questi bambini africani, ma soprattutto i loro genitori –
riprese il nonno – erano come… “equilibristi in patrie a noleggio”. Si
trovavano presi in un sandwich fra un non più e un non ancora. Non erano
totalmente europei perché non accettati, ma neanche più totalmente africani. Di
ritorno in patria, si trovavano sfasati rispetto alle loro tradizioni per via
dei nuovi valori acquisiti. Tanti erano acculturati, a volte assimilati, ma
pochi erano integrati e pochissimi avevano saputo fondere armoniosamente le due
culture…

A questo punto, quando il discorso stava diventando sempre più
difficile da capire, la piccola Seyenam appoggiata con la testa sulle ginocchia
della nonna, cominciava a dare segni di stanchezza e sprofondò ben presto nel
sonno. Selom invece era bello sveglio. Il nonno dopo aver tirato invano la sua
pipa che era ormai spenta apostrofò il ragazzo:

– Selom, vai a vedere nel forno se la manioca che ho messo è ormai
cotta!

Il ragazzino svelto si alzò e corse verso la cucina, mentre tutti
sorridevano a quel vecchio scherzo che il nonno faceva sempre e che anche lui
aveva subìto da suo padre, che lo aveva a sua volta subìto dal suo.

Tornando a mani vuote e vedendo le facce divertite, capì di essere
stato oggetto di uno scherzo e si mise a ridere anche lui.

Il nonno disse:

– Piccolo principe, fra poco sarai grande e se un giorno ti
sposerai e avrai figli, potrai fargli anche tu questo scherzo.

– Scommetto che ce l’hai già la fidanzatina! mormorò curiosa la
nonna.

– Certo che ce l’ha! Confermò suo padre con tipico orgoglio
maschile.

– È una piccola bimba tailandese della sua classe – aggiunse sua
madre, mentre lui la guardava con occhi di compiaciuto rimprovero, cercando di
tapparle la bocca con tutti i mezzi.

– Aha! – esclamò il nonno– ci mancava proprio un’asiatica in
famiglia, scommetto che si chiama Kaori.

– Cosa? – chiese Selom.

– Lascia perdere tuo nonno! – ribatté la nonna – sta parlando di
un personaggio della pubblicità del suo tempo. Tuo nonno ha sempre avuto un debole
per le asiatiche.

– Allora – concluse Selom – sei proprio come me.

– Sì, piccolo principe – rispose il nonno – diciamo che tu sei
proprio come me.

Sua madre si alzò, e prendendo la piccola addormentata fra le
braccia sussurò:

– Selom è tardi, dai la buonanotte al nonno, domani sera ti
racconterà il resto. Selom si alzò e in un abbraccio salutò:

– Buonanotte, nonno!

– Buonanotte figliolo! Fai dei bei sogni, saper sognare è
importante, perché la realtà non è altro che l’ombra di un sogno, perché a
volte nella vita, succede che i sogni si avverano… anche se ci vuole tempo…

 

 


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