10 gennaio 1984

Mia moglie desiderava ardentemente un figlio, era ossessionata
dall’idea, e per quanto mi sforzassi, non riuscivo a capirla. Avevamo tutto per
essere felici: una villa in città, una casa al mare, uno chalet in montagna…
Frequentavamo circoli prestigiosi, gente altolocata, ristoranti esclusivi…
Eravamo sposati da molti anni e niente ci aveva mai diviso, neanche la diversa
estrazione sociale: Amalia veniva dalla media borghesia, mentre io ero il
settimo figlio di una coppia formata da un operaio e una casalinga, affidato in
tenera età a un istituto, nell’Italia del dopoguerra. Dell’istituto ricordo
solo il freddo gelido delle sere, la severità dei sorveglianti, le punizioni,
il senso d’abbandono. Cominciai presto a lavorare dall’unico calzolaio della
zona; avevo otto anni, e non era un gioco cucire le scarpe a mano, sotto
l’occhio vigile e i rimproveri del padrone, sempre pronto ad arrabbiarsi e a
inveire pesantemente. A vent’anni, aprii la mia bottega fra mille difficoltà,
tuttavia quando Amalia ne varcò la soglia quattro anni dopo per ordinare delle
scarpe, avevo già accumulato una discreta fortuna. Mi conquistarono la sua
delicatezza, il lieve rossore delle sue guance; un anno dopo, la sposai. Aveva
diciannove anni ed eravamo nel cinquantasette.

3 settembre 1983

Caro
diario, chi ti scrive è Bienvenu. Non so con chi parlare. La mamma sta molto
male, ed io, senza di lei, mi sento solo e triste. Tutti mi odiano, soprattutto
il babbo. Fuori, piove.

 

3 settembre 1983

Signore, che
pioggia! Un vero diluvio…Mia moglie sta morendo, e non c’è niente da
fare…Vorrei morire anch’io! Non riesco a essere gentile con quel moccioso che
sta sempre fra i piedi. Maledetto sia il giorno in cui lei lo portò qui, è
stato l’inizio della nostra fine!

10 gennaio 1984

Gli anni
passarono via veloci, soprattutto per me, impegnatissimo nel lavoro. La sera in
cui dovevamo uscire a festeggiare le nostre nozze di cristallo, qualcosa in lei
incrinò la mia euforia, un non so che di malinconico. Alle mie domande, rispose
con voce strozzata che non si sentiva di festeggiare una vita che stava man
mano perdendo significato, senza senso né scopi, fatta solo di sprechi e
svaghi, improntata all’unica soddisfazione di sé, e siccome la guardavo senza
capire, concluse chiaramente: – Vorrei un figlio, Fabio.

– Ancora
questa storia! – esclamai, seccato. – È da qualche mese che me lo fai notare,
faccio del mio meglio, occorre pazienza!

– Lo so,
facciamo entrambi del nostro meglio, temo però di non poter più aspettare.

– Amalia,
sarebbe a dire? – chiesi, allarmato.

– Ho deciso
di adottarne uno.

Ovviamente
ero contrario, tuttavia non riuscii a dissuaderla. Un mese dopo prese l’aereo
per un paese del corno dell’Africa, invitata da una suora missionaria con cui
corrispondeva già a mia insaputa. Ci rimase tre lunghi, infiniti mesi, e tornò
radiosa, con in braccio un minuscolo fagotto tutto nero. Ero pervaso da
sentimenti contraddittori: da un lato, la gioia segreta per avere mia moglie,
compagna e amica tornata allegra come agli inizi della nostra unione, e
dall’altro il sordo rifiuto di quell’estraneo che strillava e occupava gran
parte del suo tempo e delle sue energie.

4 settembre 1983

Tutti in
questa casa mi guardano storto: la governante, la cuoca, il giardiniere,
l’autista. Li ho sentiti parlare, quando non mi vedevano. Affermano che se la
mamma non fosse andata in Africa a cercarmi, non si sarebbe mai ammalata. Io
voglio bene alla mamma, e dico le preghiere per la sua guarigione.

10 gennaio 1984

Amalia, poco
tempo dopo il suo ritorno, cominciò a lamentare piccoli malesseri, che imputava
alla stanchezza. All’inizio, ero del suo stesso parere, non aveva mai lavorato
in tutta la vita e aveva rifiutato ogni aiuto per crescere il bambino, pure
quello di sua madre. In seguito, sempre più allarmato, riuscii a convincerla ad
andare dal medico. Dopo tre anni d’esami negativi, le fu diagnosticata una
sindrome rara, contro la quale la scienza era impotente. Frastornato dalla
notizia, imputai la colpa della malattia al viaggio di mia moglie in Africa. –
Su, non dica sciocchezze, molte persone s’ammalano senza aver mai lasciato il
proprio paesino – replicò il medico, con cui eravamo a colloquio. Abbattuto,
svuotato da ogni pensiero, ascoltai come in un incubo mia moglie che, passato
qualche attimo di riflessione, chiedeva al medico quanto tempo le mancava e
come sarebbe stata la sua vita…

5 settembre 1983

Nei periodi in cui la mamma stava bene, ci
divertivamo tanto, sempre. Andavamo a passeggiare al parco, e lei s’arrabbiava
se gli altri bambini mi puntavano col dito. Al cinema poi era bello, perché
m’abbracciava forte al buio e mi baciava sulla guancia un sacco di volte!

La sera, prima che mi addormentassi, mi
sussurrava all’orecchio: – Sii forte e coraggioso. Adesso sta sempre a letto e
non posso vederla. Guarisci presto mamma, ti prego, mi manchi e da solo ho
paura…

19 settembre 1983

Giovedì
scorso, la mamma mi ha fatto chiamare al suo capezzale. – Lasciateci soli – ha
intimato al babbo, ai nonni ed al dottore, pallidi ed impietriti. Il babbo non
sembrava se stesso, aveva gli occhi rossi e la barba, che non portava mai.
Usciti loro, ho messo la mano in quella calda di mia madre. Il suo respiro
corto mi sfiorava il viso in un soffio che benedicevo. Il suo sguardo era più
dolce che mai e mi venne voglia di piangere.

– Non
ti ho mai spiegato il significato del tuo nome? –
 mi disse piano.

Dissi di no con un movimento del capo.

– Significa
benarrivato, in francese. Non dimenticarlo mai, ti ho desiderato con tutte le
mie forze, con tutto il cuore, e sono felice di come sei cresciuto, sei proprio
il mio bambino. Non potrò più stare con te, vorrei però che tu mi facessi una
promessa.

– Tutto
quello che vuoi, mamma, sperando che tu guarisca!

– Temo
che non sia possibile, tesoro, non dipende da me. Promettimi che sarai carino
con papà.

– Mamma…

– Ti prego, Bienvenu…

– Proverò,
mamma, ma sai che…

– Adesso
stringimi forte, tesoro, ti voglio tanto bene.

– Ti
voglio tanto bene anch’io.

Il dottore
ha poi aperto la porta della stanza e sono dovuto uscire. È stata l’ultima
volta che ho visto mia madre.

25 settembre 1983

È cosi
vuota la casa senza la mamma. Tornando da scuola corro ancora in salotto, dove
si sedeva a leggere, nell’intento di abbracciarla, e solo allora rammento che
non c’è più. Oggi il maestro di storia mi ha biasimato, e non so perché.

3 ottobre 1983

La pace ha proprio smesso di abitare in casa
mia: stamattina ho ricevuto una convocazione per incontrare i maestri di
Bienvenu. Pare che ultimamente abbia un comportamento aggressivo coi compagni.
Sto pensando seriamente di mandarlo in qualche collegio.

3 ottobre 1983

Oggi, al
ritorno da scuola, ho trovato il babbo che mi aspettava in salotto. Gli sono
andato incontro, celando la paura che m’ispira. Desideravo tanto che mi
abbracciasse, invece mi ha ordinato di sedermi e ha mi fatto una lunga predica
sul mio comportamento a scuola, minacciando di mandarmi in istituto qualora non
avessi cambiato atteggiamento. A quel punto, mi sono alzato e sono scappato in
camera mia. Ho aperto l’atlante geografico regalatomi da mamma, alla voce
Africa. Vorrei tanto trovare gente che mi voglia bene!

4 ottobre 1983

Quel maledetto bambino è scappato da scuola!
È dalla pausa di metà mattina che nessuno l’ha più visto. La direttrice della
scuola ha chiamato verso mezzogiorno per accertarsi che stesse meglio,
attribuendo alla sua improvvisa scomparsa un malore, e la governante ha
risposto che non era tornato a casa. Adesso sono sommerso da chiamate, visite,
è stata qui anche la polizia. Le ricerche sono iniziate, e non sopporto che
tutti continuino a chiedermi: –
Non
hai proprio idea di dove possa essersi nascosto, dei posti che gli piacciano?.
Certo che non ne ho idea, non so niente di quel bimbo, stava sempre con la madre!

6 ottobre 1983

Sto scoprendo i meandri più oscuri del mio
essere ed è tutt’altro che confortante. Oggi sono venuti a trovarmi i genitori
di mia moglie. Non li ho ricevuti tanto bene, avevo la mente altrove, al lavoro
che sto trascurando, agli impegni d’affari annullati, ai bilanci da chiudere
per il fine anno. La madre d’Amalia non smetteva un istante di piagnucolare: –
Dove sarà mio nipote?. A un certo punto, spazientito, ho urlato: – Ma quale tuo
nipote?. Ella e il marito mi hanno guardato con sgomento, poi si sono alzati e
sono andati via senza proferire parola. Ecco, mi sento un mostro.

9 ottobre 1983

Sono passati cinque giorni ormai e sto
scendendo lentamente all’inferno. Non sto bene da nessuna parte e non riesco a
fare niente. Perfino i miei pensieri mi sembrano prostrati. Per la prima volta,
ho esaminato la mia vita a fondo, da tutti i lati, partendo da quella che è
stata finora e provando a delinearne il futuro. Ne è scaturito un autoritratto
infelice per il bambino senza infanzia che sono stato e per l’adulto
insensibile che sono diventato. Non so cosa significhi una famiglia, né cos’è
l’amore fra un padre e suo figlio; da piccolo mi hanno trattato da
indesiderato, e mi accorgo solo ora d’aver fatto lo stesso con Bienvenu.
Contrariamente a quello che ho sempre pensato, la mia ostilità non nasceva dal
fatto che non fosse mio figlio biologico, bensì dalla mia scarsa propensione
alla paternità. Chissà quanto sarà smarrito, quel piccolo! Ha acquisito inoltre
nelle ultime settimane la consapevolezza di essere stato adottato, il che deve
aver aggiunto confusione a uno stato d’animo già provato dalla malattia di
Amalia. Adesso sento di poterlo aiutare, però bisognerebbe ritrovarlo prima.

 

14 ottobre 1983

La mente annebbiata da dieci giorni insonni,
ero in salone a bere l’ennesimo caffè quand’è suonato il campanello, verso le
nove di stamattina. La governante è andata ad aprire, ed è tornata a informarmi
che avevo visita, con aria seria. Non riuscivo a credere ai miei occhi vedendo
sulla soglia dell’ingresso Bienvenu, proprio lui, insieme a una sconosciuta.
Accompagnato dalla sensazione di nuotare in un sogno, ho aperto le braccia
grandemente ed ho abbozzato un sorriso. Il piccolo è rimasto interdetto qualche
istante, poi con passo timido e con un sospiro sollevato, mi ha stretto
all’altezza della cintura ed è scoppiato a piangere. Allora, ho capito che era
tutto reale.

 

10 gennaio 1984

La signora che mi aveva riportato Bienvenu
non aveva figli, ed era naufragata nei suoi tentativi di adottarne uno per via
delle lunghe pratiche burocratiche e dei raggiunti limiti d’età. Quella
mattina, s’imbatté mentre andava al mercato in un bambino che scappava, lo
fermò e gli fece delle domande, alle quali lui non rispose. Lo portò in casa
sua, dai vari notiziari apprese che lo si cercava, tuttavia decidette che il
piccolo sarebbe tornato solo esprimendone il desiderio.

Sono grato alla vita per avermi dato
l’opportunità di cambiare, e a Bienvenu per avermi amato come solo sanno fare i
bambini, senza giudicare. Sono un uomo felice.


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