Desidero esprimere la mia gratitudine a tutti i fratelli
che, grazie alle loro informazioni e traduzioni, hanno reso possibile la
stesura di questo racconto. Yoel Adam “Carlos”, tanzaniano. Detenuto presso il
carcere di Bellizzi Irpino. Mohamed Kalisa “Kipingo”, tanzaniano, detenuto
presso il carcere di Augusta. Vincentus Kraten, ivoriano e Bernard Gration,
tanzaniano, detenuti presso il carcere di Benevento. Nabil Maâlaoui, tunisino e
Nabil Bel Hassen, tunisino, detenuti presso il carcere di Ancona. A Edoardo
Massari “Edo” e Maria Soledad Rosas “Sole”: due anarchici morti suicidi nella
gran galera del mondo.

O gentildonne, “O gentiluomini, la vita è breve… se
viviamo,
viviamo per camminare sulla testa dei re”.

(William Shakespeare)

Che cosa è la patria? È il
legame con un albero nel tuo giardino, con qualche amico, con le cose. Il resto
sono cazzate, non c’è infatti alcun bisogno di amare il proprio popolo. Occorre
viverci in mezzo. (Marck Edelman, vicecomandante dell’in-surrezione del ghetto
di Varsavia)

1. Black Power

Tommie, prima di conoscerci,
era un marine assegnato alle basi della Nato dislocate in Campania.

Fu sua madre, Elisabeth
Freeman, a scegliergli il nome omaggio a Tommie Smith, medaglia d’oro per i
duecento metri alle Olimpiadi di Messico ’68.

Quel pomeriggio glorioso del
16 ottobre 1968, Elisabeth Freeman, quindicenne, abitava a Harlem e seguiva in
televisione la cerimonia di premiazione dei duecento metri maschili. Non appena
l’inno nazionale statunitense cominciò a suonare, Tommie Smith e John Carlos,
un velocista texano di Clarksville, abbassarono la testa e levarono verso
l’alto il pugno chiuso e inguantato in nero. E, per Elisabeth Freeman, nulla fu
più come prima. Fu fra i pochi che compresero che la testa piegata dei due
atleti afroamericani di fronte alla bandiera a stelle e strisce, rappresentava
il ricordo dei militanti caduti nella lotta di liberazione nera in America:
Malcolm X, Martin Luther King, ecc., e che quel gesto indicava la riconquista
della dignità nera. Un segnale antagonista che si richiamava alle grandi
rivolte dei ghetti urbani e denunciava l’ipocrisia di una nazione che
riconosceva agli afroamericani soltanto il diritto di essere “magnifici cavalli
da corsa”.

Elisabeth Freeman aderì
giovanissima al Black Panther Party e cambiò il proprio nome in Assata Nkrumah,
omaggio al deposto presidente ghanese Kwane Nkrumah, fondatore dell’All African
Peoples Revolutionary Party. Tuttavia, la sua militanza nel Black Panther Party
durò poco perché l’FBI e i programmi “COINTELPRO” di infiltrazione, spionaggio
e provocazione, nonché le spaccature interne al movimento nero tolsero
progressivamente spazio all’azione politica e all’elaborazione strategica.
Inoltre, Elisabeth Freeman non aveva mai digerito una umiliante frase di
Stokely Carmichael, leader del Black Panther Party e lanciatore, durante una
marcia per l’apertura ai neri dell’Università del Mississipi, dello slogan
“Black Power!”.

Carmichael, futuro marito di
Miriam Makeba, alla domanda: “Qual è la posizione della donna nel movimento di
liberazione nero?”, aveva risposto: “Prona!”. Allora Elisabeth Freeman cambiò
posizione e aderì al movimento di liberazione della donna.

Aveva conseguito, grazie a
una borsa di studio, una laurea in filosofia alla Howard University di
Washington, dove conobbe lo studente somalo Abdi Hassen, padre di Tommie,
nostro fratello.

Quando si trasferirono tutti
e tre a New York, dove la signora Elisabeth aveva trovato un lavoro compatibile
con i suoi ideali, il signor Abdi Hassen prese a occuparsi durante il giorno
del piccolo Tommie e, di notte, faceva il posteggiatore in un parcheggio a
Manhattan. Sappiamo che, all’improvviso, il signor Abdi Hassen cominciò a bere
e divenne spigoloso e manesco. Infine, l’amore si complicò prendendo la forma
di una tortura e la signora Elisabeth decise di divorziare.

2. Thenuovo mondo

Il signor Abdi Hassen tornò
in Somalia e, dopo un breve soggiorno a Mogadiscio, emigrò in Italia. Si era
stabilito a Roma, e, grazie alle sue conoscenze linguistiche aveva iniziato ad
aiutare i membri della comunità somala, soprattutto quelli che desideravano
lasciare l’Italia, chiedendo asilo in altri paesi.

In poco tempo, divenne un
rispettato punto di riferimento noto a tutti come il dottor Abdi Hassen. Con un
atteggiamento pragmatico, trasformò in un ufficio il tavolo di un bar nei
pressi della stazione Termini. Forniva informazioni, consigliava e compilava
moduli sorseggiando birra da grandi boccali, unico compenso che accettava
volentieri anche prima di accompagnare i paesani negli uffici romani dell’Alto
Commissariato dell’ONU per i Rifugiati, dove era conosciutissimo.

C’era anche chi, appena
arrivato da Mogadiscio, si rivolgeva al nostro filosofo chiedendo di essere
aiutato a sbarazzarsi in fretta di un po’ di eroina trasformandola in moneta
contante. Il dottore fa-ceva il passamano dietro un risibile compenso che
fissava lui stesso, e, in questo, era davvero onesto.

A volte, qualcuno si
rivolgeva a lui per aiutare una conoscente a lasciare la Somalia. Egli metteva
in contatto l’aspirante migrante con un suo zio che viveva a Nairobi, in Kenya,
e quest’ultimo orga-nizzava a sue spese il viaggio trasformando, natu-ralmente,
la migrante in un corriere di eroina. Una volta consegnata la merce, si usava
offrire alle donne un piccolo aiuto economico per consentire loro di affrontare
le prime settimane di nuova vita senza traumi.

Insomma, il dottor Abdi
Hassen faceva parte di quella brava gente che può essere estremamente crudele
senza nemmeno saperlo.

3. Il ghetto

Anni fa, nel casertano,
mentre la raccolta dei pomodori volgeva al termine e dopo una notte di pioggia
torrenziale, spuntò, come da un seme sepolto nel deserto, una baraccopoli.
Appena il sole si levò alto, decine di piccoli teli in plastica cominciarono a
riflettere una luce in raggi di tutti i colori, e, a rendere ancor più
sensibile all’occhio questa prodigiosa trasformazione, contribuivano le lamiere
zincate, inchiodate a vetuste assi di legno, e splendenti come tegole d’oro
rese scure dal tempo.

– Chiamiamola Korogocho! –
suggerì un fratello Keniota: – Vuol dire “confusione” in lingua kikuyu, ne
abbiamo una simile presso Nairobi, ma questa, fratelli, vi assicuro che è mille
volte più splendente!

Quando un gelido vento
invernale aveva diffuso la buona novella in tutte le direzioni come il fuoco
tra la sterpaglia, il nostro ghetto si allagò di arzigogolante umanità formando
un brodo primordiale fatto di mille etnie e nel quale Il Misericorde fece suonare
la sua scintilla creando convivialità.

Yoshua Okoro, un nostro
fratello nigeriano, co-nobbe Florence Powell, una donna afroamericana, sergente
nelle forze Nato di stanza in Campania e andarono a vivere insieme in una
villetta a Pinetamare, un villaggio costruito abusivamente su terreno demaniale
cancellando per sempre uno splendido paesaggio di dune mobili con, alle spalle,
una lussureggiante pineta.

Florence cominciò ad
accompagnare Yoshua quando veniva al ghetto e divenne una di noi, amica di
tutte le nostre sorelle che avevano inventato il Fast Sex, e che vendevano
mastur-bazioni sofisticate a prezzi stracciati lungo la domiziana ad anziani
contadini di passaggio, che fermavano i loro trattori al ciglio della strada,
giusto il tempo di una pisciata, per ripartire sgambettanti salutando: “Ciao,
bella abissina”.

Erano state queste donne a
soprannominare Yoshua, Buffalo Bill, dopo averlo visto correre lungo la
dominziana, mentre Florence lo seguiva a bordo della sua Ford targata AFI per
non farlo investire dalle macchine. Infatti, Yoshua era obeso anche se amava
eufemisticamente dire di essere “un po’ cicciottello”, e, da quando conobbe
Florence cominciò a seguire i duri consigli della dietologa dell’esercito
statunitense. Così, quoti-dianamente, Yoshua indossava la sua maglietta
preferita sulla quale era stampata la bandiera a stelle e strisce e la scritta:
“Keep your body fit”, e cominciava a macinare chilometri, ansimante e
ciondolando la testa dalla fatica.

Un giorno, Buffalo Bill ci
fece scoppiare dalle risate presentandosi al ghetto con la testa rasata alla
maniera dei marines e confessandoci serio che quando si svegliava e vedeva
Florence accanto a sé, chiudeva gli occhi e benediva, fremebondo di devozione,
l’America: “God bless Amerika! God bless Amerika!”

Essendo convivente con
Florence, Buffalo Bill ottenne un tesserino Nato che gli consentiva di
circolare liberamente nei luoghi frequentati dai soldati statunitensi, ed ebbe
così modo di co-noscere Tommie, il figlio del dottor Abdi Hassen che si era
arruolato nei marines ed era riuscito a farsi trasferire da Fort Meade, presso
Washington, in Italia per stare vicino al padre al quale era rimasto molto
legato malgrado la dolorosa separa-zione dovuta al divorzio dei suoi genitori.

Inevitabilmente, anche lui
cominciò a frequentare il ghetto e, ogni volta che veniva a trovarci, ci
chiedeva di cucinargli la tighena, una specialità ivoriana a base di riso e
arachidi della quale era ghiottissimo. Ma Tommie sapeva apprezzare anche il
cuscus alla tunisina o i quattro salti in padella della Findus quando andavamo
di fretta.

Era diventato molto amico di
Kipingo, un fratello tanzaniano che, per difendersi contro il male e i demoni,
portava al collo un talismano. Un astuc-cino di cuoio cucito a filo di seta
contenente un minuscolo foglio di carta sul quale era scritto in arabo a
caratteri cufici: “Dio è indulgente clemen-te”, e un composto a forma di
pastiglia ottenuta miscelando una porzioncella di micorize partico-lari con
funghi del tipo “Piptoporus betulinus”, allucinogeni e comunemente usati da
alcune popo-lazioni per uccidere i parassiti intestinali.

Delle micorize, nulla
possiamo affermare, perché il loro segreto è custodito da “coloro che sanno”.

E fu Kipingo a proporre a
Tommie di lavorare per noi.

– Tommie! – esordì, Kipingo
– perché, fratello, non approfitti del tuo passaporto statunitense?

– In che senso, Kipingo?! –
domandò Tommie.

– Beh, tu sei E.C. come noi
ma hai il vantaggio di essere americano e per giunta un marine! A chi potrebbe
venire in mente che trasporti droga nei tuoi bagagli?!

Tommie chiese una licenza e
dopo due settimane partì per la Turchia dove lo attendevano fratelli della
nostra rete. Ritornò con cinque chili di eroina e tutto filò liscio come aveva
previsto il diabolico Kipingo. Poi, fece altri viaggi, anche in America Latina,
per rifornire un fratello liberiano soprannominato Mpishi, che significa
“cuoco” in lingua swahili, perché passava gran parte del suo tempo a miscelare
acqua, bicarbonato di sodio e cocaina in bottiglie di vetro da solidificare a
fuoco di candela per ottenere il crack.

Un bel pomeriggio
primaverile, Tommie andò a Roma a trovare suo padre al solito bar, che i somali
cominciarono a chiamare “Bar Moga-discio” suggerendo al titolare l’idea di una
insegna luminosa con questo nome.

Mentre i due stavano
conversando, si fermò al loro tavolo Ramla, una ragazza somala di origine
yemenita, il cui nome arabo evocava alla mente le sabbie del deserto, da poco
giunta nel “nuovo mondo” grazie ai buoni uffici del dottor Abdi Hassen, ed
intenzionata ad emigrare in Canada per fare l’infermiera o continuare gli studi
in medicina. Appena la vide Tommie si alzò in piedi a mirare quella bocca di
una carnalità aborigena e quei due occhi negri dallo sguardo pieno di luce che
illuminava il volto di Ramla. Allora, il vec-chio Abdi Hassen, che era sempre
di umore per osservare le sfumature, sorridendo sotto i baffi che sapevano di
schiuma di birra, presentò, orgo-glioso, il bel giovanotto alla signorina:

– Ramla, permettimi di
presentarti il mio figliolo.

Tommie sorprese con un atto
di galanteria la povera Ramla baciandole la mano mentre lo sguardo degli occhi
castani, dall’iride divinamente incastonata da cristalli color miele, splendeva
vivace ed attento come un felino.

Stettero seduti a conversare
insieme ignorando, senza volerlo, il dottor Abdi Hassen. Poi, le dolce Ramla,
per sentire di nuovo quel piacevole turbamento provocato poc’anzi dalla
presenza di Tommie dietro di lei mentre le sistemava la sedia, s’inventò una
scusa per alzarsi, facendo scattare immediatamente in piedi il gentiluomo, e
ritornò subito dopo a farsi coccolare dal suo sguardo.

Quando Tommie, riferendosi
alla guerra fratricida che dilaniava la Somalia, aveva affermato: “La vita è
cattiva in Somalia”, vide subito gli occhi di Ramla inumidirsi e capì che non
doveva far vibra-re quella sciagurata corda, e stette dispiaciuto a leggere in
silenzio i segni della tristezza sul suo volto.

Il dottor Abdi Hassen, che
conosceva il passato di Ramla, rammaricato, piantò il suo sguardo nel boccale
di birra mentre lei trovava la forza per rivolgersi a Tommie pronunciando il
suo nome con infinita tenerezza:

– No, Tommie, la vita non è
né bella né cattiva, spetta all’individuo darle un senso attraverso il suo
comportamento.

E si affrettò ad alzarsi,
scusandosi, travolta dal pianto, per chiudersi nel bagno del bar, mentre il
dottor Abdi Hassen rivelava al figlio un fram-mento del passato di Ramla
riducendo a zero le sue chances di poter trovare un posto nel cuore di lei.

(Il lettore si è già
avveduto che, per adesso, prefe-riamo mantenere calato un pietoso velo sul
pas-sato di Ramla; e non ci riferiamo al mezzo chilo di eroina che ella
trasportò in Italia per poter lasciare la Somalia).

Quando Ramla fece ritorno
dopo essersi sciac-quato il viso, i suoi occhi mostravano ancora i segni del
pianto, ma sorrideva dolcemente. Tom-mie cercò di evitare il suo sguardo e si
alzò per sistemarle la sedia ma lei aveva sorpreso sia lui che il dottor Abdi
Hassen dicendo:

– No, non mi siedo! – e
continuò affabile. – Non conosco Roma. Ti va di fare due passi con me?!

– Volentieri! – Esclamò
Tommie, poi, rivolgendo-si a suo padre: – Daddy, see you later!

Passeggiarono giocosi come
due bimbi in un giardino fiorito mentre Tommie si cimentava nel suo ruolo di guida
provocando le risate di Ramla che conosceva meglio di lui la storia dell’arte e
della civiltà romana. Poi, lei si fermò davanti alla vetrina di un negozio in
via Veneto, incantata dalla bellezza di un abito da sera e Tommie si abbandonò
a un romantico sogno ad occhi aperti, dilatando il tempo ed immaginando
quell’abito addosso alla bella Ramla che aveva invitato a cena a luce di
candela al centro di una sala ristorante solo per loro due, o a ballare guancia
a guancia sulla superficie di un lago in mezzo a cigni e gigli d’acqua.

– A cosa pensi, Tommie?! –
domandò Ramla, riportandolo di fronte alla vetrina.

– Vuoi saperlo davvero,
Ramla?!

– Sì! – affermò, curiosa, e
Tommie, senza battere ciglio raccontò il suo breve sogno ad occhi aperti, poi
rimasero entrambi a guardarsi a lungo senza pronunciare parola.

Verso sera, Tommie si
congedò dal padre ed ac-compagnò in macchina Ramla a San Vito Roma-no, dove
trovava ospitalità in casa di mamma Fatma, una anziana signora somala.

Ramla trascorse una notte
insonne affacciata alla finestra a guardare la luna, pensando a Tommie, alla
sua calda voce che aveva il potere di av-volgerla in un velo di solleticanti
vibrazioni e cercò, con un po’ di fantasia, di ripescare alla memoria tutte le
sue osservazioni che intendevano essere affettuose o potevano venire
interpretate come tali:  “Ti dà fastidio
il sole? Vuoi che ci spostiamo all’ombra? … Si è fatta calda quest’ac-qua! Te
ne porto un altro bicchiere?!”

A circa duecento chilometri
di distanza, Tommie era sveglio a pensare a Ramla ma, soprattutto, aveva preso
coscienza che sentiva più affinità con le cinciallegre che con tutti i suoi
commilitoni. Indossò il suo giaccone e andò sulla spiaggia che veniva subito
dopo il giardinetto della sua villa a Pinetamare dove si era trasferito di
recente, e si sedette vicino al bagnasciuga ad ascoltare il gorgoglio delle
onde spiato dalla luna.

L’indomani, Ramla ricevette
uno splendido mazzo di orchidee con un bigliettino: “A colei che ha portato
luce nel mio buio”. Rimase a guardarlo finché una lacrima cadde sulla firma di
Tommie tingendosi d’azzurro, e si disse: “Non andrò in Canada”.

Cominciarono a frequentarsi,
e, prima che Ramla si trasferisse a Pinetamare a vivere con Tommie, venne a
conoscerci rimanendo sbalordita dallo splendore del nostro ghetto. Nel
frattempo, i due si erano raccontato tutto; così, quando, sciagurata-mente,
arrestarono Tommie all’aero-porto milane-se con cinque chili di eroina fiutata
da un cane antidroga perché confezionata male, ella non ebbe alcuna sorpresa ma
provò un immane dolore.

Essendo soldato statunitense
delle forze Nato dislocate in Italia, in base ai trattati bilaterali, Tommie fu
trasferito negli Stati Uniti per essere giudicato da un tribunale militare.
Aveva rifiutato di collaborare e si assunse tutte le sue responsabilità.

Durante la detenzione,
avevamo cercato di rendere minimi i rischi legati all’attività di Ramla, che
aveva bisogno, mensilmente, di un milione e mezzo che pagava a una famiglia
napoletana che certificava la sua assunzione come collaboratrice domestica,
consentendole di avere un regolare permesso di soggiorno. Versava per sé i
contributi previdenziali, l’Irpef ecc., per avere sempre la sua copertura in
ordine. Pagava l’affitto e la bolletta del telefono perché riceveva a suo
carico le telefonate di Tommie, e, ogni due mesi partiva per gli Stati Uniti a
trovarlo in carcere facendo rientro in Italia dopo una decina di giorni.

Avevamo appreso che il
nostro fratello passava il suo tempo studiando la lingua swahili e quella araba
e che aveva sempre il morale alto. Ramla, invece, ingannava la tristezza e la
mancanza di Tommie prodigandosi nel ghetto. Era sempre in compagnia di
Florence; raccoglievano indumenti usati dai soldati statunitensi e li davano ai
brac-cianti agricoli che popolavano il ghetto e, prima dell’arrivo
dell’inverno, avevano suggerito di scavare canali di scolo lungo le principali
arterie del ghetto sistemando la terra ricavata al centro della strada per
evitare la formazione di poz-zanghere e fango dopo la pioggia; e aveva acquistato
dei vasi e piantato fiori per abbellire il ghetto.

Quando si ammalava qualcuno,
Ramla era sempre la prima ad assisterlo.

Passarono circa quattro anni
prima del ritorno di Tommie che si congedò dall’esercito.

4. L’estraneità

Il sette gennaio, un funesto
giorno che nessun fratello dimenticherà mai, Kipingo si alzò molto presto
contagiando il ghetto di una allegria sfrenata ed entusiasta della vita, e
rinnovò l’invito alla sua festa serale di compleanno nella discoteca Meteco, un
lungo di trastullo sorto grazie alla cooperazione di tutti noi.

Era stata Ramla a spiegarci
che nell’antico diritto greco, meteco significava “straniero libero, resi-dente
stabilmente nel territorio di una città, con limitato godimento di diritti
politici, civili e mili-tari”. Perciò Meteco.

Quando verso sera entrammo
assieme a Ramla e Tommie in discoteca, Mpishi, che oltre a essere “cuoco” di
crack era un fantastico disc-jockey, stava già alla console. Mentre il suono
dell’Africa  che si desta macinava
vibrazioni e convergenze parallele, Kipingo ci accompagnò al nostro tavolo
ignaro dell’immane tragedia che stava per consu-marsi. Nessuno aveva notato che
l’astuccio del talismano che portava al collo si era scucito perdendo la
pastiglia della misteriosa miscela micorize/funghi che finì proprio sotto il
nostro tavolo.

– Tommie! – disse Kipingo
con aria ammonitrice – Oggi è il mio compleanno – e gli diede una pastiglia di
ecstasy.

Tommie guardò Ramla cercando
il suo consenso e lei strizzò l’occhio in segno di intesa perché le sembrava
scortese contrariare Kipingo il giorno del suo compleanno. Innavertitamente, la
pastiglia di ecstasy che Tommie teneva fra i polpastrelli delle dita cadde per
terra, sotto il tavolo. Si affret-tò a cercarla e, nella penombra, aveva
raccolto la pastiglia del talismano. Soffiò sopra e la deglutì con un sorso
d’acqua.

Kipingo, accontentato,
abbracciò Tommie. Fu per l’ultima volta. Poi, mentre, agitava una bottiglia di
spumante, disse scherzosamente indicando il tappo di sughero:

– Andrà a ficcarsi nell’ombelico
di Naomi Cambpell, che esclamerà: “Martini. There’s a party!” e verrà a ballare
con me. Largooo…

Uno schizzo transoceanico
spumeggiante fece sbattere il tappo contro una parete, rimbalzò e ricadde a
terra. Applaudimmo fragorosamente e cantammo: “Happy birthday, Kipingo!”

All’improvviso Tommie ci
fece zittire invitandoci a conoscere una sua idea pubblicitaria; e non sappiamo
se fu per una associazione di idee, giacché Kipingo aveva appena scimmiottato
uno spot, oppure a causa di ciò che aveva ingerito.

– Immaginate – disse serio –
un serpente scuro co-me la notte. Ritto. Che balla a ritmo di break dance,
sondando l’aria con la sua lingua biforcuta. Poi, la sua pelle si apre come se
fosse stata un semplice involucro, dal quale comincia a emer-gere, ballando, un
uomo: è Michael Jackson! Chiaro come Biancaneve, capelli lisci e nasino
all’insù. Fa una mossa pelvica toccantosi i genitali con il dito medio ed
esclama: “Waow! Join us in MacWorld Country”.

Poi chiuse gli occhi e
tacque.

Quando Tommie riaprì gli
occhi, guardando il soffitto, capì che giaceva sul suo letto a due piazze.
Aveva in testa tanta korogocho e un senso di ripugnanza simile a una nausea.
Guardò con la coda dell’occhio e non trovò Ramla accanto a sé. Invece, notò
biondeggiare un ciuffetto di capelli sulla sua fronte e, incuriosito, lo tirò
con le dita: era il suo. Allora, passò le mani nei capelli che, al tatto, gli
si presentavano lisci e privi delle treccine; e un sorriso giocò sul suo volto
e pensò: “È un altro scherzo di Kipingo e Ramla. Quella pastiglia non era
metamfetamina! Mi hanno fatto addormentare per beffarsi di me lisciando e
tingendo di biondo i miei capelli. Monellacci!”, ma subito dopo si accorse che
la pelle delle sue mani era chiara. Sentì il cuore tamburellare e si sollevò
per lasciare il letto, ma ebbe un capogiro e ricadde subito indietro poi, si
alzò cautamente  e andò in bagno.

Guardandosi nello specchio,
vide una faccia che non era la sua. L’immagine riflessa era di un giovane che
aveva, più o meno, la sua stessa età e corporatura, biondo di capelli, gli
occhi azzurri e la carnagione eburnea, quindi, si toccò il volto e con la vaga
speranza di staccare una maschera tirò la sua pelle, ma un forte dolore lo fece
piombare nel panico. Il suo cuore cominciò a battere come un uccellino in
gabbia, e il suo respiro si fece af-fannoso. Cercò, invano, di sbottonarsi la
camicia che sembrava incollata al suo corpo poi tentò di liberarsi di quel
giubbotto in pelle nera che era attaccato alla sua schiena. Quando tutto fu
inutile, si disse: “Calma, Tommie! Calma. Deve essere un incubo. Ora chiudo gli
occhi e mi risveglio”. E con un movimento quasi inconsapevole si stirac-chiò;
dischiuse gli occhi e rivide nello specchio quella stessa faccia che non era la
sua.

Controllandosi, constatò che
era vestito completa-mente in pelle nera, la camicia era invece in tessuto
grigiastro e calzava stivaletti neri militar-chic. Quando notò, cucite sul suo
giubbotto, all’altezza del petto, una svastica nazista e una croce celtica,
sapendo che gli era impossibile scollare di dosso il giubbotto, corse verso un
cassetto, s’impossessò delle forbici e infilò una punta sotto la svastica per
scucirla. Immedi-atamente, sentì una fitta e allontanò istintivamente la punta.
Vide uscire sangue e guardò sotto il giubbotto, ma la camicia era intatta e non
aveva alcuna ferita al petto. Esaminando la svastica, il giubbotto, i pantaloni
e gli stivaletti, scoprì, con somma meraviglia, che tutto ciò che lo vestiva
era vivente, anzi, parte integrante del suo corpo. Un unico organismo.

Allora, passò
carezzevolmente la sua mano sulla pelle del giubbotto e, per la prima volta dal
risveglio, provò un senso di piacere non disgiunto da un leggero senso di
vergogna.

Mentre stava disinfettando
con estrema cura la sua svastica sanguinante, Tommie, alzando gli occhi, vide
riflessa nello specchio l’immagine di Ramla si voltò con un senso di
venerazione come se si attendesse da lei un intervento miracoloso. Ma Ramla,
trovando in casa uno sconosciuto, fuggì verso l’uscita sbattendo la porta
dietro di sé. Tommie, sconsolato, aveva tentato di dirle “Ramla, cara, sono
io!”, ma un forte dolore alle corde vocali lo fece desistere e cominciò a
rincorrerla.

Aveva aperto la porta
frettolosamente facendola sbattere contro il muro e chiudere dietro le sue
spalle, mentre una luce solare insopportabilmente intensa lo obbligava a
chiudersi gli occhi.

Rimase per un attimo come
stordito, poi, formando un’ombra con la mano, riuscì a guardare davanti a sé e
constatare la partenza in macchina dell’amata Ramla.

Dopo aver cercato
inutilmente le chiavi nelle sue tasche vuote, Tommie si diresse a piedi verso
il ghetto, unico luogo dove Ramla poteva cercare aiuto; e, mentre camminava
meditabondo e con gli stivaletti indolenziti, realizzò che era inopportuno presentarsi
al ghetto e decise di rivolgersi a suo padre.

Per raggiungere Roma, Tommie
si arrangiò con l’autostop. Gli aveva offerto un passaggio un vecchietto che
per tutto il tragitto aveva continuato a parlare di Mussolini e di treni che
arrivavano senza ritardo, mentre Tommie, con tutti i pensieri che gli ronzavano
nel capo si era limitato a pronunciare qualche parola con una voce flebile che
non era la sua.

Quando, finalmente, era
arrivato davanti al “Bar Mogadiscio”, sentì un peso cadergli dall’anima e un
senso di salvezza avvolgerlo.

Appena ebbe varcato la
soglia, il dottor Abdi Hassen, che era seduto dietro il suo tavolo a
sorseggiare birra schiumante, sollevò gli occhi scorgendo sul petto di Tommie
la svastica e la croce celtica e, immediatamente, lo fulminò con uno sguardo
torvo. Allora Tommie decise di tentare un approccio molto cauto e si sedette a
un altro tavolo sforzandosi di assumere un’espres-sione soave; ma suo padre,
senza nemmeno nascondere il suo fastidio, andò verso Gianni il titolare, e si
sbottonò:

– Non andiamo bene, caro
Gianni! – e lanciò nuovamente una occhiataccia verso Tommie.

Il barista, non volendo
perdere un cliente come il dottor Abdi Hassen capace di spostare un sciame di
somali, guardò Tommie severo e gli chiese.

– Desidera?

Il povero Tommie si alzò e
si diresse verso suo padre con la ferma e sciocca intenzione di abbracciarlo
dicendo: “Daddy sono io, Tommie! Come fai a non riconoscermi?!”

Ahimè, prima di
raggiungerlo, Tommie aveva appoggiato uno stivaletto su un mozzicone di
sigaretta accesa, si bruciò, e sollevò bruscamente lo stivaletto; un gesto che
il dottor Abdi Hassen scambiò per l’inizio di una aggressione ed indie-treggiò
intimorito finendo sul tavolo e facendo cadere il boccale di birra. Il povero
Tommie seguì la scena con uno sguardo ebete poi, per evitare guai, uscì
frettolosamente zoppicando.

Mentre camminava randagio
per le strade di Roma, affranto e il capo chino, udì una melodia venire da un
negozio e si sentì come inchiodato al suolo di fronte al suo riflesso in
vetrina ad ascol-tare Lionel Richie cantare “Hello”, la canzone che aveva
accompagnato i suoi anni abbracciato dalla solitudine nel carcere militare.

And be alone with you inside
my mind

And in my dreams I kiss your
lips a thousand time

I some times see you pay
some sight my door

Hello

Is it me you’re looking for

I can see in your eyes I can
see in your smile.

L’azzurro degli occhi di
Tommie bagnò di copiose lacrime le sue gote bianche mentre il ricordo di Ramla
gli stringeva il cuore e la giornata volgeva già al tramonto.

Passò la sera seduto sulla
scalinata di Piazza di Spagna, con la testa fra le mani, mentre si sentiva
estraneo, ai confini dell’afasia e quasi prigioniero di una realtà parallela,
separata dagli altri e tuttavia costretto a cercare un contatto impossibile.

Quando la stanchezza
sopraggiunse assieme alla notte, Tommie si alzò e si diresse al parco di Villa
Borghese dove trascorse, su una panchina, una notte inquieta, in un dormiveglia
da cui il freddo e un sogno ricorrente tornavano a destarlo.

Anche quella notte, come
avveniva da circa due anni, Tommie aveva sognato Ramla piangente e si era
svegliato di soprassalto afflitto e con groppi alla gola. Poi, quando il sole
intiepidì la capitale, Tommie cadde in un breve sonno di piombo simile a uno
svenimento, per destarsi subito dopo a causa delle radiazioni che gli avevano
scottato il viso.

Fece scorrere la piastrina
della cerniera lampo del giubbotto sentendo un gradevole solletico, e si
stiracchiò. Notò che la ferita sulla svastica aveva fatto una crosta color
ruggine e vi passò sopra leggermente un dito. Poi, andò a una fontana per darsi
una sciacquatina e distrarsi; infine, si sedette sovrappensiero su una  panchina ombreggiata.

Poco dopo, tre giovani,
richiamati dai simboli che decoravano il petto di Tommie, e vestiti quasi alla
sua maniera, si fermarono a parlare con lui.

– Buongiorno! – esclamò il
più massiccio, ostentando la sicurezza di un condottiero.

– Buongiorno! – ricambiò,
Tommie, alzandosi, mentre gli nasceva nello spirito una certa contentezza.

– Ti abbiamo notato ieri
sera e sembra che tu abbia passato la notte all’addiaccio – continuò il
condottiero.

– Sì, mi trovo in difficoltà
– confermò, generico, Tommie.

– Ora non più – sentenziò il
condottiero, lasciando Tommie aggrappato a un misero filo di paglia, prima di
stringergli la mano e presentarsi: – Mi chiamo Giuseppe Flavio, Giufà, per gli
amici.

– Tommie!

Poi, Giufà presentò uno dei
suoi accompagnatori:

– Massimo, detto Er creativo
– Tommie gli strinse la mano con un leggero inchino e Giufà proseguì: – E
questo è Renato, Er pecora!

Appena Er pecora ebbe
pronunciato la parola “piacere”, Tommie indovinò l’origine del suo soprannome.
E quando il trio aveva proposto a Tommie di unirsi a loro, egli accettò senza
esitazione e la comitiva si diresse al quartiere romano dell’Esquilino.

Appena Giufà aprì la porta
d’ingresso di un appartamento al terzo piano, Tommie vide, appeso al muro, in
fondo al corridoio, un mazzo di verghe con la scure – un fascio – simbolo del
potere esecutivo nella Roma antica e del movimento fascista poi.

Entrarono in una sala le cui
pareti erano tappez-zate di gigantografie di Hitler e di Mussolini nonché
bandiere con svastiche e croci celtiche.

Giufà, per divertire Tommie
che appariva ombro-so, si collegò al sito degli Hammerskin su Internet. Nella
pagina di copertura, dove si di-chiarava vietato l’ingresso a non bianchi,
omoses-suali ed ebrei, era disegnato un cane pitbull, a fare la guardia su due
zampe, coperto di croci e svastiche naziste. Scorrendo in basso il cursore,
Giufà fece apparire un ritratto di Adolf Hitler, poi iniziò a sfogliare il sito
arrivando alle “Funny pages”, dove vengono elencate “divertenti” cronache
razziste; e sullo schermo apparve un bambino nero nato con sei dita alla mano
che dice “Dammi il sei”. Le risate di Er pecora, Er creativo e Giufà fecero a
Tommie l’effetto di un gramo tumulto che rimbombò insopportabilmente nella sua
testa. Poi, scoprendo che il sito degli Ham-merskin, una delle organizzazioni
di collegamento internazionale dei gruppi neo-nazisti, era ospitato da un
colosso statunitense di telecomunicazioni, provò una profonda amarezza e
vergogna pensan-do ai novemila soldati americani morti nella campagna in
Normandia a partire dal sei giugno ’44 convinti di andare a liberare l’Europa
dai nazisti.

Prima del pranzo, Tommie si
fece la doccia trovando divertente il fatto di non doversi spogliare, e si
trastullò asciugandosi con l’asciu-gacapelli. Quando si presentò a tavola, i
suoi vestiti neri ricchi di melanina, luccicavano e sapevano di pulito, mentre
i suoi capelli biondi erano pettinati, divisi e lisciati con irreprensibile
meticolosità.

Passò, poi, il pomeriggio a
leggere, come face-vano i suoi ospiti. Sfogliò alcuni numeri del set-timanale
“National Hebdo”, pubblicato dal Front national, il partito francese di estrema
destra, revisionista e xenofobo, che definisce l’immi-grazione “una macchina
ammazzapopoli”; lesse quasi interamente l’intero numero del mensile
“Reconquête” diretto da Bernard Antony, che guida l’ala cattolica
“tradizionalista” del Front national. E, diede un’occhiata ad alcune
pubblica-zioni dell’International Third Position, un movi-mento con base a
Londra che riunisce skinheads e neonazisti, a cui appartengono gruppuscoli
dell’estrema destra europea.

Dopo cena, Tommie e gli
altri si coricarono presto perché avevano in programma la partecipazione a una
esercitazione “militare” la mattina seguente. Come al solito, il sonno di
Tommie fu turbato dal suo incubo ricorrente ma riuscì a riaddormentarsi subito,
e, all’alba, quando si era presentato per la prima colazione, si sentiva già
riposato ed aveva infilato una tuta mimetica sopra il giubbotto e i pantaloni,
mentre fu giocoforza tenersi i suoi stivaletti militar-chic che,
fortunatamente, aveva-no formato un callo resistente lungo la superficie delle
suole.

Avevano raggiunto, a bordo
di un fuoristrada, la campagna viterbese per unirsi ad altri giovani, tutti
vestiti militarmente. E si formarono due gruppi (Alfa e Beta) poi, ciascun
gruppo scelse una zona per installarvi il proprio campo base, con tanto di
tende, ricetrasmettitori, amache e zaini carichi di cianfrusaglie. Infine,
iniziarono le manovre con armi che sparavano proiettili di vernice.

Tommie aveva trascorso la
mattinata e parte del pomeriggio in una felice smemoratezza, sempre in
compagnia di Giufà, Er pecora e Er creativo, che poterono apprezzare le
capacità tattiche del loro nuovo acquisto. E quando le manovre terminarono con
l’occupazione del campo base “Beta”, il gruppo che lasciò sul campo di battaglia
il maggior numero di “eliminati”, Tommie e i suoi ospiti ritornarono
all’appartamento dell’Esquilino.

La sera, Giufà aveva riunito
tutti nella sala delle gigantografie e cominciò a discorrere:

– Cari Camerati, come è
noto, la storia è stata manipolata in funzione giudeo-centrica dalla lob-by
ebraica internazionale, che ha inventato l’esi-stenza dei campi di sterminio e
dell’olocausto.

Noi riteniamo che questa
macchinazione miri a promuovere un rigetto pavloviano delle masse e delle
élites a spese delle destre nazionali. Pertanto, propongo di attuare due azioni
punitive nei con-fronti degli ebrei e dei sostenitori della mani-polazione.
Abbiamo selezionato due obiettivi da colpire: un cimitero ebraico e un centro
sociale occupato, il Maajabu.

Poi, cominciò ad esporre i
dettagli delle due operazioni aiutandosi con recenti fotografie. Ma a Tommie,
l’idea di profanare un cimitero di notte, imbrattando le tombe di svastiche,
croci celtiche e scritte antisemite non piaceva. Peraltro, il primo ebreo che
gli era venuto alla mente mentre Giufà continuava a infierire contro i semiti
era stato Steven Spielberg, il regista di E.T. che fece ricordare a Tommie il
suo recente passato di ex marine che aveva scelto di vivere nel ghetto con gli
E.C.; e si rammaricò pensando che gli ebrei non avessero sviluppato abbastanza
sensibilità rispetto al proprio passato che permettesse loro di stabilire un
dialogo con l’altro: il palestinese.

Infine, si domandò quale
scherzo del destino aveva riunito lui “il figlio della Pantera Nera” con loro
“i figli della lupa”. Raccolse il suo coraggio a due mani e chiese la parola:

– Mi sia consentito di
osservare che la profana-zione di un cimitero può essere utilizzata dalla lobby
ebraica per presentarsi alle masse come vittima e continuare la promozione del
loro rigetto a nostre spese. Ritengo sia più opportuno, in questa fase storica,
assumere un comportamento strategico elusivo, promuovendo gesti simbolici non
contestabili. Per esempio, perché non piantia-mo croci cristiane a Auschwitz e
in tutti quei luo-ghi della memoria di cui i giudei si sono ap-propriati per
manipolare la storia?

Poi tacque, sorpreso, a
valutare la pericolosità del suo ragionamento.

Dopo una breve discussione
alla quale non partecipò, il gruppetto decise di congelare l’ope-razione
profanazione del cimitero ebraico e si concentrò sulla preparazione
dell’incursione nel centro sociale occupato Maajabu; operazione denominata da
Er creativo “Emolisi”, la distru-zione dei globuli rossi, l’apoteosi dell’uomo
vivo contro l’uomo morente.

Giufà volle chiudere la
serata con un tocco di classe e, citando Clausewitz disse:

– La guerra è la
continuazione della politica con altri mezzi.

Tommie rischiò di esplodere
in una fragorosa risata pensando agli amorazzi di Clinton e stava per esclamare:
“La guerra è la continuazione del Kamasutra con altri mezzi”, ma rimase a
guardare il condottiero con un sorriso sagace che Giufà scambiò per una
manifestazione di ammirazione e si gonfiò il petto.

5. I fantasmi

Saìd, un giovano marocchino,
campava alla gio-rnata senza avere un lavoro continuativo e siste-matico. Ogni
sera, contattava un imbianchino, un muratore ed un elettricista per sapere se
doveva presentarsi l’indomani mattina a lavorare. Tutti e tre lo consideravano
un “bravo ragazzo” e gli volevano bene come a un figlio; infatti, Saìd lavorava
in nero, era flessibile come un giunco e un “magnifico cavallo da corsa”.

Il suo nome arabo significa
“Felice”, ma lui era sempre triste ed amava la solitudine come i poeti. Isolato
nella gran galera del mondo tra il vomito dei respinti, Saìd cominciò a
manifestare i sintomi tipici della paranoia; e, ogni qualvolta vedeva una
persona che gli veniva incontro con una mano in tasca, egli cambiava
marciapiede perché convinto che chiunque poteva avere un improvviso raptus di
follia ed accoltellarlo senza alcun motivo.

Pertanto, nelle giornate
fredde, Saìd era costretto a spostarsi da un marciapiede all’altro, zigzagando
pericolosamente in mezzo al traffico, e, anche se non aveva mai subito una
aggressione, egli non riusciva a togliersi dalla mente quelle strane
convinzioni.

Un giorno, altrettanto
perfido e fetente di quello precedente, Saìd aveva letto su un muro la scritta
“Ai forni i marocchini”, un graffito che nessuno pensò di cancellare e al quale
tutti si erano as-suefatti, diventando parte integrante del paesaggio urbano
come la merda degli storni. Allora, si affrettò ad acquistare  una decina di accendini con i quali si
riempì le sue tasche che controllava senza sosta “per non rimanere privo di
fiamma al momento del bisogno”. Poi, si procurò una bottiglia di plastica,
praticò un piccolo foro nel suo tappo e la riempì di benzina. Così, quando
andava a dormire in una fabbrica dismessa, un luogo che si adattava
perfettamente alla sua immensa solitudine e dove il sole del buon Dio non dava
i suoi raggi, teneva sempre a portata di mano il suo rudimentale lanciafiamme.

Una mattina, mentre Said
dormiva ancora, sapen-do che non doveva lavorare, entrarono nella ex fabbrica
tre giovani per occuparla e farne un centro sociale. Sentendo i rumori, egli si
destò, prese con una mano la bottiglia e con un’altra un accendino e rimase in
piedi a tremare come un pulcino, col cuore che gli batteva all’impazzata e la
bocca secca come un baccalà, mentre si ripete-va ossessivamente: “Li brucio
prima che mi brucino. Li brucio prima che mi brucin…”

Edoardo Beccaria, un giovane
musicista, avendo intuito il dramma di Saìd, cerco di calmarlo:

– Stai calmo, stai calmo!
Nessuno ti vuole fare del male. Anzi, ti chiediamo scusa perché non sapeva-mo
che dormivi qui. Volevamo occupare questa ex fabbrica per farne un centro
sociale. Non vogliamo nuocere a nessuno.

Udendo ciò, Saìd, per sua
fortuna, posò il lancia-fiamme che poteva esplodergli in faccia, e crollò sul
suo misero giaciglio a piangere.

Andò subito a rincuorarlo
Soledad Cienfuegos, una performer cilena, seguita da Edoardo e Ales-sandra
Basaglia, un’artista teatrale. Continuarono a dargli affettuose pacche sulle
spalle e a parlargli finché Saìd cominciò a raccontare frammenti della sua
esistenza scarnificata fino all’osso.

Edo gli offrì di abitare nel
suo appartamento, avuto in eredità, e al quale non intendeva ritornare perché
voleva vivere nel centro sociale, e anda-rono insieme a vederlo mentre Ale e
Sole inizia-rono a studiare e a pensare il nuovo spazio. Poi, Edo ritornò con
Saìd che contribuì alla ristrut-turazione e pulizia della vecchia fabbrica.

Quando i lavori furono
ultimati ed altri giovani si aggregarono, tutti si misero d’accordo per
scrivere su una parete interna alcune parole che Ernesto Guevara aveva lasciato
ai suoi figli prima di morire:

Soprattutto, siate sempre
capaci di sentire nel più profondo qualunque ingiustizia commessa contro
chiunque in qualunque parte del mondo. È la qualità più bella di un
rivoluzionario.

Anche Saìd, dopo il lavoro,
frequentava il centro, e, grazie alla socialità intensa e alla convivialità, a
poco a poco i sintomi della paranoia scomparirono e la sua esistenza acquistò
una gioiosa e suprema ragion d’essere. Tuttavia, ci furono molte diver-genze
per la scelta del nome da dare al nuovo cen-tro sociale. C’era chi proponeva
“Tania”,1 chi “Sherwood”, “Calimero”,
“Verde-olivo” o “Gara-bombo l’invisibile”. Addirittura, Saìd, per conse-gnare
una goccia di splendore alla sua vita, aveva proposto “Zidane”!

Alla fine, furono scelti, in
ordine casuale, sette persone e ciascuno fornì una lettera; così, si formò un
nome dadaista Maajabu.

Un pomeriggio, pochi giorni
prima della Befana, mentre Edo stava camminando tra le bancarelle di Piazza
Navona, cercando di vendere pupazzetti, lavorati da indios messicani, che aveva
portato con sé dal Chiapas dove era stato per offrire un contributo finanziario
agli zapatisti, frutto di una colletta organizzata dai giovani del Maajabu, il
suo fine udito di musicista captò incantevoli vibrazioni provenienti da bongos
percossi da abilissime mani. E si fermò di fronte a Rashidi Kawawa, un
simpatico artista di strada tanzaniano:

– Suoni come un dio! –
esclamò Edo.

– Grazie fratello! – replicò
sorridendo il giovane africano, poi si presentò: – Mi chiamo Kawawa, e tu?

– Edoardo!

Edo scoprì cha Kawawa
suonava anche il sas-sofono, che aveva frequentato il Conservatorio di Dar
Es-Salaam e che nutriva grande interesse per l’afro-funk, l’afro-rock e
l’afro-jazz. Inoltre, Edo aveva un altro punto d’incontro con Kawawa: una
comune passione per l’artista nigeriano Fela Anikulap Kuti, autore dell’album
Teacher don’t teach me nonsense, e, propose con insistenza al musicista
africano di partecipare al suo “Multi-culti Contamination Project” un
esperimento musicale in corso al Maajabu.

– Edo, sono così entusiasta
e commosso che preferisco prendermi tre giorni per pensarci bene! – fu la
risposta di Kawawa, prima di aggiungere sorridendo: – Ma se sei un musicista,
perché vendi pupazzetti con la sembianza del subcomandante Marcos?!

– Nessuno è perfetto,
Kawawa! – esclamò Edo prima di congedarsi.

Dopo tre giorni, Edo si
presentò all’appuntamento e fu felice nel vedere Kawawa con la custodia del
sassofono in un mano, i bongos in un’altra e uno zaino sulle spalle ad
aspettarlo.

Arrivando davanti
all’ingresso del centro sociale, qualcosa si stampò nel subconscio di Kawawa e
affiorò alla sua coscienza soltanto dopo il rituale della presentazione; allora
interrogò, incuriosito, Edo.

– Perché avete scelto un
nome swahili per il centro?

Edo gli spiegò la genesi
dadaista del nome poi chiese a Kawawa il suo significato.

– Significa “fantasma”! –
rispose Kawawa.

Tutti si guardarono
sorridendo poi, Ale, para-frasando l’incipit de “Il manifesto” di Marx e
Engels, proclamò:

– Ma certo, siamo i nuovi
fantasmi che si aggirano per l’Europa dopo il suicidio di massa della
confraternita internazionale!

Per quanto possa sembrare
strano, il fatto di essere diventato un fantasma che si aggirava per l’Europa
in mezzo ai fantasmi, fece sentire Kawa-wa, per la prima volta dal suo arrivo
in Italia, di essere davvero incluso nel cerchio degli umani; e stette a
guardare i suoi simili speranzoso e con gli occhi lacrimanti, facendo
intenerire tutti. Infine, il suo sguardo bambinesco incontrò quello di Ale e
rimase inebriato dal profumo di madreselva e gelsomino che diffondeva il
giardino del suo cuore. E, quando la dolce Ale fece un passo avanti
abbracciandolo e dicendo “Benvenuto fra noi!”, Kawawa corse un serio pericolo di
morire di felicità. Da quel giorno, cominciò a vivere con bramante intensità
tutti i minuti, tutti gli attimi della sua vita.

6. La coscienza politica

Era stato Kawawa a condurre
Edo, Ale e Sole al nostro ghetto per discutere con noi della costru-zione di un
movimento europeo per la difesa e l’ampliamento dei diritti di immigrati,
rifugiati e clandestini; ed invitarci a partecipare a una manifestazione. Ci
eravamo seduti sotto un sole primaverile che intiepidiva l’aria, per aprirci
gli uni agli altri.

– Questo ghetto è forse la
materializzazione della vostra chiusura nella nostalgia delle tradizioni? –
domandò Ale.

– No! Noi consideriamo sia
il ghetto che i centri sociali un fenomeno connaturato alla società
dell’esclusione. Questo è un ghetto multietnico, dove fabbrichiamo rapporti
umani e resistenza all’etnicizzazione. È
la nostra “little Italy” nel cuore dell’Italia, che esprime il nostro
desiderio dissidente e dove l’altro non viene mai cancellato, con tutto il suo
bagaglio d’identità, storia e pas-sato; perché conserviamo sufficiente
consapevo-lezza e distanza in modo che la cultura dell’altro dia senso a quella
di cascuno di noi.

– Fino a quando credete di
poter resistere da soli? – domandò, provocatorio, Edo.

– Desideriamo mutare il
nostro pensiero dis-sidente in una pratica; aspettavamo da tempo il vostro
appoggio. Anche noi riteniamo il conflitto una necessità e una risorsa per la
trasformazione sociale.

– E la droga? – domandò
Soledad.

– Sole! Un partigiano
italiano cantava: “Fischia il vento, urla la bufera / Scarpe rotte e pur
bisogna andar / A conquistare la rossa primavera / Dove sorge il sole
dell’avvenir”. Noi, non avevamo nemmeno le scarpe rotte, Sole! Eravamo scalzi e
le pallottole fischiavano da tutte le parti. Il nostro futuro sembrava determinato
e chiuso, senza speranza, dominato dalla miseria che ci aveva scacciato. La
corrente ha portato a riva, fino al ghetto, i nostri corpi. Abbiamo smesso di
credere che “la borghesia produce anzitutto i suoi seppellitori” e che “il suo
tramonto e la vittoria del proletariato sono del pari inevitabili” come
asseriva Marx. Noi constatiamo che non solo il proletariato non ha seppellito
il capitale, ma non pare più potersi costituire come soggetto. Le nostre
sorelle praticano la prostituzione con l’illusione di sfuggire allo
sfruttamento del lavoro salariato, e, all’alba, i nostri fratelli lasciano il
ghetto per sostare in piazza in attesa di essere caricati per fare i braccianti
agricoli in nero e sottopagati. Una pensione non l’avranno mai. Hanno trasformato
il casertano in un polo italiano di produzione delle fragole, e, quando
possono, mandano quattro soldi a “casa”. Soffrono e perdo-no, Soledad, come
molti cittadini della democra-zia, come i nostri fratelli che fumano il crack e
che popolano i suburbi del ghetto. Sì, Sole! Vendiamo droga, in contraddizione
violenta con le regole del vivere che impone la morale; ma una generazione deve
sacrificarsi; perché molti abitanti del ghetto sono una marea che non si
ritirerà mai. Non faremo crescere i nostri figli nel fango. Li manderemo
all’università e saranno capaci di sentirsi cittadini ovunque, perché
insegneremo loro che la costruzione di una forte identità etnica porta
all’isolamento ed innesca un processo di stranierizzazione. Qui, voi come noi,
crediamo che ha senso spendersi fino in fondo solo insieme agli altri. Per
questo, oggi, dal fango di questo ghetto, il nostro canto di gioia si leva al
disopra delle miserie umane e vola alto come un aquilone coi colori
dell’arcobaleno. Noi, alla manifestazione, c’andremo e daremo il nostro
contributo per la costruzione del movimento. Kipingo, preparaci uno spinello!

Il giorno della
manifestazione, il ghetto era rimasto deserto. La nostra rete aveva pagato ad
alcuni braccianti la giornata e le spese del viaggio fino a Roma, mentre le
prostitute e tutti gli altri si erano uniti a noi volentieri. I nostri fratelli
dei centri sociali avevano organizzato un servizio d’ordine e, in testa al
corteo, c’erano Ale e Kawawa che innalzavano uno striscione con l’articolo 1. della
Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (1948):

Tutti gli esseri umani
nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e
coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.

Su altri striscioni si
leggeva “Schutzhaft:2 no ai lager”, “Nessun essere umano è illegale”, “Il di-ritto alla
libera circolazione è prerogativa inco-ercibile della persona umana”.

Eravamo gioiosi, eccitati,
ballavamo e cantavamo “Imagine” di John Lennon poi, al segnale convenuto – un
lugubre urlo di sirena – il corteo si era fermato per osservare un minuto di
silenzio, inalberando cartelli con la scritta “Semira Ada-mu”, il nome della
giovane nigeriana che doveva essere espulsa dal Belgio e che la polizia aveva
ucciso soffocandola con un cuscino sulla faccia.

Ma alcuni giovani di destra
avevano inscenato saluti fascisti e avevano fatto sfoggio di magliette e
indumenti “neri”, nacquero insulti e si scate-narono scontri, e le forze
dell’ordine distribuirono manganellate a tutti, mentre noi, l’umanità migrante
del ghetto, avevamo vissuto i momenti più belli della nostra vita perché
marciare per chiedere diritti e protestare è una esperienza liberatrice che
testimonia, soprattutto, la nostra disponibilità al mutamento di stili cognitivi
e al superamento delle categorie etnocentriche che negano legittimità
all’altro.

Dopo qualche giorno, con un
rinnovato desiderio di decidere, contare, esserci, avevamo partecipato a
un’altra manifestazione organizzata a Bologna dall’Arcigay e Arcilesbica,
sfilando in corteo assieme ai “colpevoli” di essere normalmente omosessuali.
Quattordici persone avevano indos-sato magliette bianche, su ciascuna c’era
stampata un lettera dell’alfabeto che insieme formavano la scritta Matthew
Shepard, il nome di un ragazzo di ventun anni, assassinato negli Stati Uniti
dall’odio verso di omosessuali.

Gli striscioni reclamavano
il riconoscimento civile delle coppie di fatto, il diritto all’adozione e a una
identità sessuale diversa. Noi, dal ghetto, avevamo portato uno striscione con
la scritta “Diversi di tutto il mondo unitevi!”, e avevamo deciso di
partecipare anche alla manifestazione organizzata da tutte le streghe del basso
secondo millennio.

7. Il mutamento antropologico

Qualche secondo prima
dell’incursione di Tom-mie, Er pecora, Er creativo ed altri, capeggiati da
Giufà, nel centro sociale; Soledad, chiusa nel suo silenzio di ali
addormentate, era seduta sulla branda di una cella carceraria ricostruita sul
mo-dello di una reale servita per una serie di performances rendendola teatro
delle sue metafore per la libertà.

Sole nacque orfanella nel
’74 perché un condor pinochettista aveva sorvolato il Cile facendo sparire suo
padre accusato di essere “hijo de puta” e “comunista maricòn”.3

Pertanto, ella aveva intitolato
le sue performances, filmate e fotografate, “Tremenda impotencia de un corazòn
dolido”, e aveva spedito la sua opera artistica a tutti i centri sociali per
promuovere una iniziativa a favore dei Prigionieri Politici in Italia.

Gli altri giovani del
Maajabu erano fuori e dovevano rientrare da lì a poco accompagnati da ospiti
provenienti ad altri centri sociali. Kawawa, invece, stava suonando il
sassofono immerso in una nuvola di pentagrammi bastardi alla ricerca
dell’ottava nota della dissidenza. Accanto a sé, sedeva la sua adorata Ale a
leggere un’intervista che José Saramago aveva rilasciato  al termine del suo discorso ufficiale in
occasione del ricevimento del premio Nobel per la letteratura ’98.

… e ripeto adesso ciò che
dissi in Messico agli indigeni chiapaneki un mese fa: se la voce di uno
scrittore può servire a qualcosa, la mia è la vostra voce. Continuerò fino alla
fine della mia esistenza con la coscienza che la mia voce non è soltanto mia,
perché credo che con la bocca di ognuno di noi stia parlando l’umanità intera,
e non possiamo toglierci le responsabilità che abbiamo. Il mondo si potrebbe
chiamare Chiapas e tutto sarebbe più chiaro: sofferenza, miseria, fame,
ingiustizia. Tutto questo è lì. Se qualcuno possiede la bocca, il pensiero e la
capacità di esprimersi e non parla di questo, allora credo che quel qualcuno
sia più o meno morto.

Alzando gli occhi, Ale vide
due gruppi di persone armate di spranghe di ferro e mazze da baseball entrare
dalla porta principale e da quella sul retro. Tutti ostentavano sicurezza,
sapendo che gli altri giovani del Maajabu erano fuori, ed agivano come se Ale,
Sole e Kawawa non esistessero.

Er creativo si fermò di
fronte al ritratto di Ernesto Guevara, appeso a una parete divisoria in
compen-sato riciclato, e, dopo aver letto la scritta: “Bisog-na essere duri
senza perdere la tenerezza”, conficcò una spranga di ferro nella fronte del
Che, facendole trapassare il compensato come se fosse stato burro.

Poi, si piazzò difronte a
una gigantografia del subcomandante Marcos, tese la mano per recupe-rare la
spranga dalla fronte del Che ma ebbe una illuminazione e preferì accendere la
pipa a Mar-cos. La fiamma si propagò al passamontagna poi avvolse il
subcomandante riducendolo in cenere assieme a gran parte della gigantografia.
Si salvò solo un lembo dove un uccellino rimase a volteg-giare inorridito,
mentre Ale, Sole e Kawawa rimasero silenziosi e si scambiarono quasi
incon-sciamente uno sguardo d’intesa e pensarono che presto sarebbero rientrati
i compagni. Poi Er crea-tivo s’impossessò di un aerosol e andò verso un poster
di Silvia Baraldini4 fotografata su una sedia nel braccio speciale “Trauma Unit” del
carcere di Danbury, negli Stati Uniti. Disegnò con la vernice tanti elettrodi
trasformando la sedia sulla quale sedeva Silvia in una sedia elettrica poi
andò, soddisfatto, per altri sentieri di nuove creazioni, mentre Er pecora
diceva minaccioso a Kawawa:

– Sporco negro, scopi con
questa puttana? – e indicò Ale, poi gli sferrò un pugno in faccia e continuò: –
Vuoi imbastardire la nostra razza, negro di merda?

Kawawa preferì non reagire
ed Ale lo abbracciò facendo scudo col suo corpo, mentre Sole, indig-nata si
scagliò addosso al fascistello più vicino. Fu malmenata, imbavagliata e buttata
sulla branda con i piedi e le mani legati dietro la schiena, nel contempo, Ale
e Kawawa, che avevano accennato una reazione per soccorrere Soledad, furono
immobilizzati. E Kawawa si trovò in mezzo a tre giovani che lo tenevano fermo
di fronte a Tommie, rimasto impalato a seguire la scena. Poi qualcuno lo
eccitò:

– Picchia, Tommie! Picchia
questa scimmia!

Tommie, dopo una breve
esitazione, serrò il suo pugno e colpì Kawawa al petto ma, a sua volta, sentì
un fitta al petto. Colpì Kawawa alla spalla e, con sua propria meraviglia,
sentì una fitta alla spalla e si fermò.

Ma gli altri continuarono ad
incitare:

– Picchia questo negro di
merda, Tommie, picchialo!

E Tommie colpì, emise un
gemito e gridò:

– Sporco negro.

Poi cominciò a sudare e
mentre colpiva, gemendo, le sue lacrime si mescolavano al sudore che copriva il
suo viso trasformato in una maschera di dolore.

Poi, qualcuno pronunciò la
parola “comunista” facendo affiorare alla coscienza di Tommie resi-dui del suo
passato di marine indottrinato nell’e-sercito degli Stati Uniti. Gli Stati
Uniti del mac-cartismo; la potenza che inventò “l’impero del male” piazzandosi
dalla parte del bene per diven-tare paladino delle “cause giuste”, per
sollevare “tempeste nel deserto” e seppellire sotto le sue sabbie la giungla
del Vietnam, assicurandosi sedimentazioni lungo il tempo geologico. Allora,
Tommie colpì nuovamente gridando:

– Comunista – e sentendo un
immediato sollievo.

Continuò a menare pugni
“intelligenti” mentre la povera Ale piangeva e si dibatteva rimanendo,
tuttavia, impigliata in una ragnatela di feroci mani; e, mentre i colpi,
sommandosi sotto lo sterno di Kawawa, producevano in Tommie una sottrazione di
valori, egli vide la sua preda boccheggiare come un pesce fuor d’acqua e provò
una sensazione simile a un orgasmo, poi, con una precisione “chirurgica”,
sferrò un tremendo pugno alla gola di Kawawa che crollò portandosi le mani
attorno al collo cercando di allentare un cappio invisibile e spalancando la
bocca con l’aria di non volerla chiudere mai. Mentre il suo corpo senza
ossigeno si contorceva e sussultava per gli spa-simi. Infine, inspirò
profondamente come se fosse riaffiorato alla superficie della vita dopo un
inter-minabile tuffo negli abissi. Si alzò subito per soccorrere Ale ma una
mazza da baseball piombò sulla sua nuca e lo stramazzò.

– Crepa negro di merda! –
esclamò Er pecora, sorridendo, mentre Er creativo apriva la chiusura lampo dei
suoi pantaloni per alzare poi una gamba e orinare sul corpo di Kawawa mimando
un cane e facendo ridere l’intero branco.

– Sei forte, Er creativo,
sei troppo forte! – esclamò, Giufà.

Poi, Er pecora, eccitato
all’inverosimile, fece scorrere la piastrina della cerniera lampo dei suoi
pantaloni dicendo a Ale:

– Te lo do io il cazzo,
puttana – e cominciò a sfilarle i blue-jeans mentre lei continuava a dime-narsi
invano, incapace di gridare a causa di una mano infame che tappava la sua
bocca. Poi, Er pecora strappò le mutandine di Ale che lo guardava implorante
attraverso una cortina di lacrime.

– Ma siete pazzi?! Questa
puttana scopa con una scimmia africana. Vi rendete conto? – e aggiunse una
serie di parole che potevano risultare al branco terrifiche: Ebola, H.I. Virus,
bufala pazza, Mandela. Poi guardò Ale e gli parve di cogliere al volo il suo
sguardo riconoscente; ma Er pecora, brandendo una spranga replicò:

– No problem!

Allora, Tommie, impotente,
chiuse gli occhi per allontanare da sé l’orribile scena della violenza carnale
ma vide, come nel suo peggiore incubo, Ramla piangente. Però, questa volta, lo
sfondo, che prima gli si presentava buio, era occupato dagli arredi della sua
casa di Pinetamare, e realizzò che era capace di immergersi in quella visione.

Abbassò lo sguardo della
memoria e vide sul tavolo, tra le mani di Ramla la rivista “Panorama” e, in un
attimo, tutte le sequenze mnemoniche cominciarono a scorrere davanti a sé come
in un film.

Rivide Ramla piangente
davanti alla foto di una donna somala che veniva violentata con un razzo
illuminante da un manipolo di paracadutisti della “Folgore”, ai tempi della
“missione umanitaria” “Restore Hope”.5

Ramla aveva perso il padre,
la madre e il fratellino Omar, in un solo giorno, falciati dal fuoco di una
mitragliatrice che sparava da un elicottero statunitense per aprire una via di
fuga a una jeep rimasta intrappolata durante una manifestazione di protesta
della popolazione di Mogadiscio contro i soprusi dei militari. Fu dopo quella
tragedia che Ramla accettò di trasportare droga pur di lasciare la Somalia dove
la “speranza” era stragista.

Tommie sapeva tutto ciò, e,
quel giorno, mentre Ramla piangeva, cercò di confortarla e tese una timida mano
per asciugarle le lacrime, ma ella allontanò la sua testa affiggendo in lui il
suo sguardo e lasciandolo crocifisso al suo senso di colpa.

Ramla aveva bisogno di
rimanere sola col suo orgoglio ma Tommie stette a interrogarsi come poteva lei
innamorasi di lui mentre era ancora un marine dell’esercito che aveva
massacrato, poche settimane prima, la sua intera famiglia. Rimase in una
completa confusione di tutti i suoi sentimenti a guardare le lacrime di Ramla
attaccarsi alle sue lunghe ciglia nere mentre gemeva per soffocare il suo
dolore e le sue labbra tremavano come petali di rosa al vento.

Ella piangeva, singhiozzava
ma rimaneva altera, e Tommie finì per rimuovere dalla sua coscienza quella
scena infelice che si trasformò in un incubo ricorrente e che dopo la censura
onirica, riaf-fiorava ogni notte carico di ignoti dolori, facendo-lo destare
con groppi alla gola. Ma ora, quella visione, fece a Tommie l’effetto di un
senso di salvezza che lo avvolgeva da ogni parte, come a un naufrago che trova
improvvisamente una boa cui aggrapparsi per riscuotersi dall’oblio. Tutto durò
un attimo. Tommie riaprì gli occhi e gridò:

– No-o-o!

Tutti si voltarono per
rabbrividire alla sua vista: egli, sotto i loro occhi, si stava trasformando,
per-dendo a poco a poco, il colore eburneo e i capelli biondi per diventare un
uomo nero con le treccine rasta che gli scendevano sulla fronte.

La tenera Ale si riscosse
gioiosa e credette di aver assistito all’evento del hombre nuevo, un muta-mento
antropologico profetizzato dai rivoluziona-ri… Si sbagliava di grosso.

Er creativo, invece, si
aggrappò alla prima spiega-zione razionale elaborata dalla sua mente e
bisbigliò in romanesco con l’aria di chi si biasima per non essersene accorto
prima:

– Terminator 2? Li mortacci
sua!

Tommie, stupito dall’effetto
che aveva provocato il suo “no” gridato con la forza della disperazione, non
ebbe il tempo di accorgersi della sua meta-morfosi inversa. Infatti, i giovani
del Maajabu erano appena rientrati in compagnia di altri incaz-zati che videro
Soledad, l’orfanella dell’utopia, imbavagliata e buttata  in uno spazio cubicolare coatto e sentirono
il fetore di un genocidio che dura dai tempi dei conquistadores mentre i
simboli dell’odio e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo imbrattavano i muri
urbi et orbi e i nazistelli scorazzavano nel centro. Il Che, invece, trafitto a
morte continuava a sorridere ai giovani che lo avevano adottato perché la
storia non aveva offerto loro l’occasione di fare la propria rivoluzione.

Lo scontro divenne
inevitabile e si scatenò una zuffa campale.

Er creativo, una persona di
rara intelligenza, trovandosi vicino alla uscita secondaria cercò di
svignarsela, ignorando che i compagni del Maajabu, avendo udito un grido di Ale
subito soffocato, si erano divisi in due gruppi. Aveva aperto la porta
continuando a guardare dietro di sé per assicurarsi che non aveva nessuno alle
calcagna, e, appena si voltò, una testata lo baciò violentemente accasciandolo.

Soledad, appena sciolta andò
a soccorrere il pove-ro Kawawa. Invece Er pecora, trovandosi caprino su quattro
arti in mezzo a due compagni del centro sociale cominciò a belare facili
stereotipi:

– A squatter / barboniii. A
spinellatori / drogatiii. A froci / sieropositiviii. A comunisti /
invisibiliii. A Giufà, aiutami.

Il laboratorio teatrale di
Ale affrontava la costru-zione del personaggio tramite tecniche di teatro
corporeo associate alla tecnica psicoterapeutica dello psicodramma. Ella
attribuiva ai suoi testi drammaturgici la capacità di esteriorizzare schemi
comportamentali interiorizzati dalle donne, vit-time di un dominio maschile
perpetrato nei secoli di assoggettamento sessuale per la conservazione del
potere. E aveva coniato lo slogan: “La capa-cità di piangere al potere”.
Pertanto, appena si era infilata i suoi blue-jeans si lanciò a difendere colui
che stava per infilare una spranga di ferro nella sua vagina:

– Basta con la violenza –
gridò, in lacrime, ai compagni che stavano malmenando Er pecora. – Basta, vi
prego compagni! Mettere fuori questo balordo e basta.

Giufà, trovandosi in
difficoltà, impugnò una pisto-la e cominciò a sparare, mentre Tommie, rimasto
per tutto questo tempo a guardare, udendo i primi due spari, si buttò come un
felino sotto una pan-china coprendosi la testa con le mani e tenendo gli occhi
chiusi. Quasi per istinto, come gli avevano insegnato a fare nell’esercito,
essendo disarmato si mise a contare i colpi in mezzo a tutto quel trambusto del
fuggi-fuggi generale. Contò quat-tordici detonazioni ed infine, si fece un
silenzio di morte, interrotto dalla voce di Ramla che lo scuoteva:

– Tommie, alzati! Dobbiamo
andare via, stanno arrivando gli sbirri.

Quando Tommie riaprì gli
occhi dopo il suo lungo viaggio allucinante nel McWorld Country, pre-sentava
tutti i sintomi del jetlag.

Aveva di nuovo tanto
korogocho in testa e un senso di ripugnanza simile a una nausa. Notò una
treccina dei suoi capelli neri scendergli su un occhio e si guardò subito le
mani. Poi ebbe una brusca contrazione del diaframma e spalancò la bocca senza
riuscire a vomitare. Rimase genu-flesso e afferrò Ramla per la sottile vita
spro-fondando il capo nel suo grembo come un bimbo impaurito.

– Tommie, alzati, ti prego!
Dobbiamo andare via – gli disse Ramla con voce rotta di singhiozzi, poi
aggiunse: – Hanno sparato a Kipingo, Tommie! Amore, Kipingo è morto, hanno
ucciso il nostro Kipingo.

La funerea frase rimbombò
nella mente di Tommie come un’eco interminabile senza deci-dersi, inorridita, a
fermarsi alla soglia della sua coscienza. Poi, egli si alzò come un automa e
fece due passi: un fluttuare di tavoli e sedie rovesciati della discoteca
Meteco dovuto alla vertigine che lo travolse facendolo barcollare e cadere per
terra. Ramla, presa da un tremito, vide Yoshua in piedi accanto al corpo di
Kipingo disteso, esanime, al centro della pista da ballo, mentre Florence, non
dovendo obbedire a un ordine militare, rimase, come al solito, a testimoniare
la sua presenza presso la sofferenza.

– Buffalo Bill – chiamò
Ramla – Florence! Aiutatemi, Tommie sta male. Oddio, sta ma-a-le. Aiutatemi vi
pregooo.

Yoshua e la sua compagna
corsero verso Ramla. Aiutarono Tommie a rialzarsi ed appoggiarsi alle loro
spalle mentre Ramla usciva a prendere la macchina.

Tommie si fermò davanti al
cadavere del suo amico che gli sembrava galleggiare in una pozzanghera di
sangue e disse:

– Morto? – guardando gli
occhi chiusi spalancati di Kipingo con aria interrogativa, benché la cosa fosse
evidente; e, le sue gambe gli si piegarono sotto.

Appena raggiunsero l’uscita,
l’aria fresca gli pro-vocò una forte contrazione all’addome e vomitò. Buffalo
Bill l’aiutò a sistemarsi sul sedile della Fiat Bravo, accanto a Ramla che
partì sgommando verso casa poi, Florence lasciò per ultima la discoteca insieme
al suo compagno a bordo della sua Ford.

Ramla, non riuscendo a
vedere bene davanti a sé, confusa azionò il tergicristallo, e, non ottenendo
alcun miglioramento realizzò che erano le sue lacrime ad annebbiarle la vista.
Voltò il capo verso Tommie per chiedergli un fazzoletto ma vide che stava
vomitando, allora si asciugò gli occhi con la mano e cercò di concentrarsi
sulla strada. Poi, Tommie la interrogò piangendo:

– Chi ha ucciso Kipingo?

– È stato Gennaro o pazz’ –
rispose Ramla.

La mattina del sette
gennaio, Kipingo andò all’ap-puntamento settimanale con Gennaro per vender-gli
un etto di eroina. Ahimè, era così eccitato per il suo compleanno che aveva
preso un involucro contenente lattosio al posto di quello giusto. Gli accordi
non consentivano all’acquirente di con-trollare il contenuto e, quando Gennaro
o pazz’ scoprì che aveva pagato cinquemilioni un etto di lattosio pensò che
Kipingo voleva punirlo per un suo precedente tentativo di pagarlo con soldi
falsi. Ma Kipingo, appena si era accorto dello scambio, essendo occupato nei
preparativi della sua festa, si era limitato a mandare a dire a Gennaro che lo
voleva al Meteco la sera, e aveva l’intenzione di dargli un etto e mezzo di
roba e scusarsi. Ma o pazz’ interpretò l’appuntamento come una sfida, essendo
il Meteco un nostro feudo.

Così, si presentò armato di
pistola semiautomatica calibro 9×21 nella mano destra inguantata e una
mitraglietta in quella sinistra e si limitò a coprirsi parzialmente il volto
con un fazzoletto.

Entrò in discoteca e, senza
dire una parola, scaricò l’intero caricatore, quattordici colpi, addosso a
Kipingo. Buttò la pistola per terra e sputò sul cor-po di nostro fratello
dicendo in dialetto campano: “Omm’ e spacimme”.

8. Epilogo

Odio e amo / Come sia non so
dire

Ma tu mi vedi qui crocifisso
/ Al mio odio ed amore.

(Caio Valerio Catullo)

Ramla e Tommie scesero dalla
macchina ed entrarono in casa.

Andarono direttamente sotto
la doccia vestiti poi si spogliarono continuando a piangere. Rimasero sotto
l’acqua abbracciati sussurrandosi parole di consolazione e spargendo lacrime
cocenti che si mescolavano all’acqua. Poi, Tommie prese la testa di Ramla fra
le mani guardandola negli occhi, e, singhiozzando per il dolore, la pregò di
smettere:

– Usilie, honey! Usilie, ti
prego.6

Soltanto quando l’acqua
dello scaldabagno elet-trico si fece insopportabilmente fredda, lasciarono la
doccia tremuli e rimasero abbracciati ad asciugarsi. Poi si infilarono nel
letto e Ramla appoggiò la sua testa sulla spalla di Tommie abbracciandolo;
quando il loro respiro spastico si fece regolare, Tommie domandò dolcemente:

– Dormiamo, amore?!

– Sì! Usiku mwema! –
rispose, Ramla con voce flebile, dandogli la buona notte in swahili, la lingua
che amava.

– Sweet dreams! – ricambiò,
Tommie, allungando la mano per spegnere l’abat-jour. Ma ebbe un brivido vedendo
sul comodino un racconto che aveva letto il giorno prima: era “La metamorfosi”
di Franz Kafka. Emise un profondo sospiro di sollievo e strinse forte a sé
Ramla dicendo col pensiero parole d’amore “Nakupenda, Ramla, Nakupenda”7. Lei, che aveva abbattuto
tutte le barriere, aveva udito il suo pensiero e sollevò il capo mentre la sua
folta chioma nera copriva il suo dolce viso per posare le sue labbra sul seno
di Tommie, poi, appoggiò di nuovo la sua testa sulla spalla del suo amato e
s’addormentò.

L’indomani mattina, siamo
andati a cercare Gennaro o pazz’ che sapeva già del suo sbaglio e, quando ci
aveva visto scendere dalla macchina infilò subito la sua mano nella tasca del
giaccone. Gli consegnammo un etto e mezzo di eroina senza pronunciare una
parola e, mentre lui, cercava di dirci qualcosa, gli voltammo le spalle
digrignando i denti col desiderio avvelenato di farlo a pezzi e darlo in pasto
ai gatti del ghetto.

Avevamo avvisato il
Consolato della Tanzania della morte di Masudi Abdalla; Kipingo era soltanto un
soprannome che avevamo dato al nostro fratello ed era il nome di un albero che
cresce in Africa, noto per la sua resistenza all’ascia.

Avevamo organizzato nel
ghetto una veglia senza morto, mettendo al centro di un tavolo un paniere per
raccogliere denaro. Tutti eravamo in lutto ed anche i fumatori di crack
osservarono qualche ora di astinenza.

Qualche giorno dopo, Tommie
e Ramla volarono a Dar Es-Salaam insieme al feretro portando in dono alla
famiglia di Kipingo un po’ di soldi.

Avevamo scavato inutilmente
alla ricerca dei risparmi di Kipingo anche sotto gli alberi dove egli andava a
fare piangere il suo flauto quando lo abbracciava la saudade8. Quel diavolo, buon-anima,
non era mai stato beccato con la droga addosso! L’unica volta che lo
arrestarono, la roba era degli sbirri che lo vollero incastrare. Il suo
difensore lo consigliò di confessare che la droga era sua e di non accusare gli
sbirri perché avrebbe subito una condanna più pesante e sarebbe stato
incriminato per il reato di diffamazione.

Kipingo chiese il giudizio
abbreviato e affermò che i cinquanta grammi di eroina erano i suoi. Fu
condannato a nove anni ridotto di un terzo grazie alla formula del rito; e il
suo difensore gli diede una speranza in appello: “Vedrai, Abdalla, in appello
ti otterrò una riduzione di pena”, promise l’avvocato Pasquale Campitiello. Ma,
nemmeno due mesi dopo, notificarono a Kipingo un ordine di esecuzione di
condanna definitiva, perché il suo difensore si era dimenticato di presentare i
motivi di appello. E Kipingo si trovò buttato nel camerone degli stranieri con
addosso una condan-na a sei anni.

Scelse di occupare il terzo
piano di un letto a castello dove si addensava il fumo delle sigarette formando
una nebbia felliniana che lo avvolgeva facendolo tuffare nel suo Amarcord, ad
innalzare altri castelli o a sfogliare pornografici per venire senza andare
mai.

Poi, lasciò perdere e
cominciò ad amare la lettura.

Ci capitava di vederlo
lacrimante chiudere un libro, baciarlo poi si metteva sotto le coperte
ab-bracciandolo, come se fosse stato un pupazzetto in peluche, e si
addormentava in una valle di lacrime.

Uscì dopo circa cinque anni
con la liberazione an-ticipata per regolare condotta, senza mai ottenere un
permesso di qualche giorno da trascorrere gioioso al ghetto durante le feste
natalizie; e ritornò con noi a fare la medesima vita del passato.

Quando un pentito della
camorra raccontò agli inquirenti della DIA che il suo clan aveva fornito armi e
droga alla polizia per costruire prove e fare arrestare esponenti di un clan
rivale e molti stranieri, provocando l’arresto di dirigenti della squadra
mobile e poliziotti collusi; l’avvocato Pasquale Campitiello, noto appartenente
al cartello dell’imbroglio, entrò nel ghetto a bordo della sua Mercedes nuova a
cercare Kipingo.

– Oh, Abdalla! – esordì. –
Ti trovo in gran forma! – e cominciò a rassicurarlo, inquadrarlo, con-sigliarlo
motteggiando in latino, guidarlo, in poche parole a inghiottirlo in una
sollecitudine che lo assorbiva a poco a poco all’incapacità di in-tendere e
volere; poi, sputò il rospo: – Ti presento una richiesta di risarcimento del
danno morale e materiale. Non devi neanche pagarmi adesso! Più tardi facciamo
fifty-fifty. OK, Abdalla?!

Kipingo, colpito da un
decreto di espulsione, guardò l’avvocato Capitiello, un uomo che sapeva di
latino, e gli disse, un po’ fifone e un po’ burlone:

– Exoriar aliquis nostris ex
ossibus ultor! Sta richiesta non s’ha da fare!

“Sorga qualcuno dalle nostre
ossa come vendi-catore” voleva dire Kipingo al suo “difensore” in un latino
zoppo.

Già! E quante volte avevamo
ritrovato un nostro fratello, scomparso dal ghetto, sepolto sotto la sabbia
della pineta, con la bocca spalancata in un urlo silenzioso; e mentre un
brivido percorreva le nostre schiene, calavamo un angosciato velo di sabbia su
ciò che il nostro errante cammino ci aveva svelato e lasciavamo il posto alla
cheti-chella come se fossimo stati soltanto noi gli assassini?

Note

1 Tania:
Haydée Tamara Bunke Bider, la donna guerrigliera che accompagnò il Che Guevara
e i suoi comapgni nella sfortunata spedizione in Bolivia del ’67. Nata in
Argentina da genitori tedeschi e trasferitasi a Cuba nel ’61.

2 Schutzhaft: custodia protettiva. L’istituto che regolava i lager nazisti.

3 “Condor
pinochettista”: riferimento alla “Operazione Condor” il cui principale
obiettivo era la parziale eliminazione di un gruppo nazionale in Cile,
costituito da quelli che si opponevano ideologicamente al regime militare di
Pinochet. “Comunista maricòn”: comunista frocio.

4 Silvia
Baraldini: compagna italiana condannata a 43 anni di carcere per reati
associativi commessi negli Stati Uniti. È entrata nel suo diciottesimo anno di
carcere.

5 “Restore
hope”: ridare speranza!

6 “Usilie,
honey! Usilie, ti prego”: frase in swahili, inglese e italiano: Non piangere,
dolcezza! Non piangere, ti prego.

7 Nakupenda: in swahili significa “ti amo”.

8 Saudade:
sentimento comune a tutti gli immigrati; immensa solitudine accompagnata da
malinconia nostalgica.


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