Lo zaino
della saudade
La parola saudade (dal latino “solitas,
solitatis”) si potrebbe tradurre come “nostalgia”. Ma saudade è uno stato
d’animo più complesso: suppone anche la malinconia che accompagna la solitudine
e la rimembranza. La saudade è un sentimento comune a tutti gli immigrati.
Anche se non sono stata costretta a venire a vivere in Italia per ragioni di
povertà o per il bisogno di un lavoro, mi sento lo stesso un’immigrata. Per me
gli immigrati sono quelli che abbandonano le loro tradizioni, le loro
abitudini, la propria lingua, il modo di vivere e di pensare, per immergersi in
un nuovo paese con tutto il fascino e il rischio che tale situazione comporta.
Quando Hans e Gretel rimangono soli nella foresta,
mentre camminano, lasciano cadere dei sassolini per poter ritornare al posto di
partenza, per ritrovare il sentiero giusto.
I costanti spostamenti dovuti al lavoro di mio marito, mi hanno
sballottato in paesi diversi, con lingue diverse. La mia energia era usata per
imparare nuove lingue, per adattarmi, per fare nuove conoscenze. I bambini
piccoli, le loro esigenze, la casa, lo studio (perché rientrata a Roma mi ero
iscritta a Psicologia)
nonostante tutto trovavo il tempo per utilizzare la
macchina da scrivere e buttavo giù, sempre in portoghese, impressioni,
osservazioni, qualche racconto. Spargevo, appunto, i miei sassolini
Che
significa per noi, del terzo mondo, vincere un premio letterario o vedere un
proprio testo selezionato da una giuria per la pubblicazione in Italia?
Significa che gli italiani ci apprezzano per i nostri pensieri e sentimenti,
per il modo in cui riusciamo ad esprimere questi sentimenti e pensieri.
Un individuo esiste, in quanto individuo in un gruppo,
solo quando è visto. Se una persona non è vista, non esiste.
Il mattino dopo la premiazione del I concorso
Eks&Tra, ho fatto una passeggiata sulla spiaggia della famosa Rimini
accanto al vincitore del primo premio di poesia Vincent DePaul, della Costa
d’Avorio.
Ecco alcuni versi della sua poesia vincitrice:
Mi
vergogno di questi lavori in nero
tutto doloroso dentro;
perché passiamo dei giorni perduti della nostra vita in nero!
Quando mai l’allegria dei nostri giorni azzurri?
Voglio urlare, ma ho paura!
Vincent è riuscito a urlare. Ma a nulla sarebbero
servite le sue urla se non fossero state sentite da nessuno. Mentre entravamo
sul selciato che conduceva al mare, Vincent rifletteva sulla diversa condizione
in cui in quel momento camminava sulla spiaggia di Rimini: appena arrivato in
Italia aveva percorso quelle sabbie come venditore ambulante di cianfrusaglie.
Quel mattino entrava in spiaggia come poeta: la stessa spiaggia, ma non più lo
stesso uomo.
Quel giovane poeta, che prima andava in spiaggia carico
di roba da vendere, quella mattina era carico di gioia e non doveva vendere
nulla; i suoi versi erano appena stati pubblicati nel volume Le voci
dell’arcobaleno. Sicuramente quello era per lui, come lo era per me, un
“giorno azzurro”.
Una società matura, come una persona matura, è
tollerante. È sempre facile accettare le persone simili a noi. Difficile è
entrare in contatto con chi presenta delle diversità, perché accettare il
diverso significa dare spazio interno a nuovi modi di essere. E questo vale sia
per chi riceve gli immigrati, sia per gli immigrati stessi.
Ogni persona che va a vivere in una nuova terra deve
ribatezzarsi. Se rimanesse assolutamente fedele alle sue tradizioni, alla sua
lingua, all’educazione ricevuta, se mantenesse le sue usanze di origine, se
continuasse a mangiare solo quello che ha sempre mangiato, a parlare come ha
sempre parlato, se rispettasse pedissequamente le sue abitudini di prima, cosa
le succederebbe? Questa persona si troverebbe in una condizione simile alla
pazzia. Chi è il pazzo? È il non adattato, è quello che non comunica, che è
chiuso in un mondo idiosincratico le cui regole non sono le regole delle altre
persone.
All’inizio della sua permanenza in un nuovo paese,
io credo che un immigrato viva una condizione simile alla schizofrenia: non
avendo ancora avuto il tempo necessario per adattarsi a delle nuove abitudini,
non avendo ancora avuto l’occasione di apprezzare quello che la sua nuova terra
gli offre, il dolore nostalgico dell’immigrato, la sua saudade, gli impedisce
di aprire gli occhi alla nuova realtà che lo circonda: il vissuto delle perdite
è talmente grande che occupa tutto il suo spazio interno. Un paziente del
Centro Psichiatrico Pedro II di Rio de Janeiro scrive:
La schizofrenia consiste in una malattia in cui il
cuore soffre più degli altri organi, allora diventa più grosso ed esplode. La
persona quando soffre di schizofrenia si agita molto, ma bisogna che vada fino
alla fine perché solo così potrà sentire l’amore per le cose.
Nella mia lingua esiste un termine che risale al
periodo in cui i colonizzatori portoghesi “importavano” in Brasile esseri umani
dall’Angola e dal Mozambico per farli lavorare come schiavi. Il termine è banzo
e significa “nostalgia mortale dei negri africani”. Il banzo era per questi
schiavi la tristezza di ricordare la loro patria dove vivevano in libertà. Come
un albero trapiantato, l’immigrato, appena arrivato, ha le proprie radici
esposte. C’è rischio, perché le radici non sono ancora entrate nella nuova
terra. Quali sono le radici di un essere umano? I suoi affetti, i ricordi, la
lingua, le persone simili a lui, le abitudini, il clima dove è cresciuto, i
suoni che hanno popolato la sua immaginazione, i colori che ha sempre visto
intorno a sé, gli odori familiari Ci vuole un po’ di tempo perché il nostro
dolore possa passare da un dolore senza senso ad un dolore che ci aiuti a
crescere e che finisce per trasformarsi in saggezza. Anche una persona che non
è mai emigrata si trova davanti al problema di lasciare vecchi schemi, abbandonare
la abitudini che non servono più: un nuovo lavoro, un matrimonio, un bambino
che nasce, la morte di una persona cara, la vecchiaia
sono esempi di
circostanze che ci obbligano a cambiare. Questo processo di abbandono si può
chiamare “crescita”: è comune agli immigrati e a chi non ha mai lasciato la
propria città. Stiamo sempre cambiando, aggiungendo qualcosa alla nostra
vecchia identità: per questo ciascuno di noi può entrare in empatia con la
condizione dell’immigrato. Il codice basico per l’integrazione è affettivo:
riuscire a comunicare i sentimenti è fondamentale in ogni relazione umana. La
nostra percezione della realtà è psicologica e non logica: la stessa realtà può
essere vista in modi diversi da individui diversi e capire questo ci aiuta ad essere
più tolleranti con chi ha un altro punto di vista: gli occhi di un altro non mi
impediscono di vedere la realtà, anzi mi danno la possibilità di allargare la
mia visione permettendomi di vedere anche quello che lui vede. La tolleranza ci
estende, ci rende universali. E allora perché ci chiudiamo spesso nella nostra
paura del diverso? Perché il diverso essendo nuovo, non è noto, ci toglie dalla
strada che percorriamo abitualmente, ci toglie dalla nostra zona di sicurezza.
Esistono problemi nella nuova società multietnica, però
ogni volta che abbiamo un problema davanti a noi si apre la possibilità di
allargare la nostra coscienza. Spesso sentiamo persone che si lamentano
dicendo: “Non riesco mai a star bene: appena risolvo un problema, me ne sorge
un altro”. È giusto che sia così. Il segreto è star bene con i problemi, non
vederli come negativi, ma come segnali che ci indicano i punti in noi stessi su
cui abbiamo bisogno di lavorare per progredire. Questo vale anche per le
società.
* Estratto della conversazione tenutasi il 21 aprile 1997
presso l’ITC “R. Molari” di
Santarcangelo di R. nell’ambito del ciclo di incontri “Cittadini con la
valigia”. Nata a Rio de Janeiro, laureata in filosofia partecipa al gruppo teatro
della facoltà. Lavora come giornalista. Negli anni ’60 viene a Roma e si laurea
in psicologia. Dopo vari corsi di specializzazione inizia l’attività di
psicoterapeuta. Diversi suoi atti unici vengono rappresentati in teatri del
Lazio. Nel 1995 è vincitrice del
concorso Eks&Tra con il
racconto “Ana de Jesus” .