Lo sguardo dell’altro

 

In una sua recente pubblicazione Remo Cesarani dedica un capitolo
alla definizione dello straniero come personaggio del mito, come oggetto di
stereotipi e come topos letterario. Egli sottolinea che:

 

prima ancora di diventare un tema letterario, quella dello
straniero è una condizione esistenziale, un ruolo che viene assunto in
particolari circostanze da chi si trova a visitare un paese e una comunità
umana diversa da quella cui appartiene, e si trova a intrecciare rapporti con i
membri di quella comunità e a confrontarsi con istituzioni sociali, strutture
politiche e giuridiche, costumi e abitudini culturali che sono diversi dai
suoi.

Lo straniero, insomma, prima ancora di essere un personaggio di
miti e di storie, è un’immagine o proiezione culturale (…)
1

 

Cesarani analizza l’interpretazione e la rappresentazione
letteraria dello straniero nella cultura occidentale, dalla greca alla
contemporanea, e sottolinea la visione dello straniero nella cultura dominante
che vede l’altro come un visitatore in un contesto diviso tra chi ne fa parte e
chi non ne fa parte. Lo straniero diventa una costruzione culturale separata
dall’identità fisica dell’altro e si carica ideologicamente di significati che
riflettono le tensioni all’interno della società ospitante.

 

Emergono dai quattro premi letterari Eks&Tra per scrittori
immigrati, dei punti di osservazione diversi da quelli espressi da Cesarani. Lo
straniero si trasforma da oggetto di osservazione in soggetto osservante che
analizza la società in cui inscrive la sua identità di altro. Questa enfasi
sull’acquisizione di un ruolo interpretativo attivo dichiara la necessità di
appropriasi da parte dell’altro del controllo sulle rappresentazioni
dell’alterità nella società in cui l’immigrato vive.

Questi sguardi a distanza che analizzano la condizione di
privilegio di chi non è ospite, ma “appartiene” ad un contesto culturale,
creano un nuovo testo e commentario all’Italia di oggi. Nel suo libro Occhiacci
di legno: Nove riflessioni sulla distanza, Carlo Ginzburg analizza il concetto
di distanza come una strategia che permette di guardare e narrare in quanto
osservatore, cioè con lo sguardo di chi dall’esterno può riscoprire quello che
viene considerato familiare, canonico, “normale” 2. Ginzburg si serve di quella letteratura in cui la narrazione
avviene attraverso gli occhi di bambini, o animali; una strategia che trasforma
il quotidiano in un’entità strana e inusuale.

Questa idea di “spaesamento” è importante nell’affrontare la
letteratura che gli immigrati stanno scrivendo in Italia. La narrazione della
loro vita diasporica fornisce narrazioni che destabilizzano aspetti e modelli
della cultura italiana che sono considerati certi, scontati. Gli occhiacci di
legno di Pinocchio che creano disagio (“Occhiacci di legno, perché mi
guardate?”), diventano, nella scrittura immigrata, lo strumento per guardare
criticamente e riscoprire sia il mondo lasciato alle spalle che la nuova
cultura con cui creare convivenza.

 

Le quattro antologie create in seguito ai corrispondenti premi
letterari sono il risultato di una raccolta ingenua e meditata, allo stesso
tempo, di osservazioni in fieri sull’Italia, sull’identità degli immigrati,
sullo sguardo che occhi stranieri hanno gettato sull’Italia contemporanea.
Questi testi hanno raccolto narrazioni autobiografiche, racconti di esperienze
di immigrazione che narrano una migrazione ma conducono ad altre. Tracciano
inoltre una sottile trama della storia di una recente immigrazione che sta
lentamente, ma inesorabilmente cambiando la cultura italiana. Nell’atto di
guardare e di raccontare, gli “occhiacci di legno” hanno fornito versioni
dell’Italia che non possono essere cancellate e che, raccolte l’una accanto all’altra,
offrono una coralità di testimonianze che sfida ogni stereotipo sulla
definizione dello straniero e dell’altro.

 

Quest’anno, 1998, la decisione di premiare e chi premiare è stata
difficile, perché è problematico scegliere e selezionare ed allo stesso tempo
ricercare una strategia di non esclusione nel rispetto di chi ha fatto sentire
la propria voce ed ha verbalizzato le sensazioni dell’estraneità.

Un premio speciale è stato assegnato a Xia Xujie che ha raccontato
attraverso i sui occhi di ragazzina la transizione tra un mondo familiare molto
amato in Cina e il ricongiungimento con la famiglia in Italia. In modo semplice
ed allo stesso tempo evocativo, Xia Xujie ci parla dell’impatto di questo nuovo
mondo segnato dalla presenza di un padre a lei ignoto e di un nucleo familiare,
una lingua, una nuova cultura a cui si deve gradualmente abituare. La sua è una
delle poche testimonianze  di immigrati
cinesi in Italia, si puo’ trovare un precedente in Inchiostro di Cina di Bamboo
Hirst che narra retrospettivamente e autobiograficamente la storia di una
donna, figlia di un italiano e di una cinese, che arriva sola in Italia e
costruisce con difficoltà la propria identità ibrida in una nuova cultura.3

Il distacco e la continuità con la cultura madre è il tema di
altri due racconti premiati, scritti da Natalia Soloviova ed intitolati
rispettivamente “Destinazione sconosciuta” e “La casa di Ivan Zubov”. Nel primo
racconto, Natalia Soloviova costruisce una trama matrilineare che congiunge una
figlia con la madre ammalata, portata dalla Russia in Italia per ricreare un
nuovo legame tra loro nella terra sconosciuta alla madre, ma ormai familiare
alla figlia che l’ha fatta propria.

È in uno spazio ibrido – la casa della figlia in un paese
straniero – che un rapporto antico e nuovo allo stesso tempo si può creare
prima del silenzio definitivo tra le due donne che la morte della madre malata
inevitabilmente porterà.

Natalia Soloviova continua il tema del primo racconto anche ne “La
casa di Ivan Zubov” in cui l’abitazione diviene un legame tangibile con il
passato. Come la casa rischia di essere distrutta, così anche i ricordi devono
essere attivamente mantenuti per evitare la corruzione del tempo. Il ritorno a
“casa” diviene così necessario per salvaguardare il significato, se non il
significante. Ciò che la protagonista scopre è una casa cadente che nasconde le
memorie della vita in altri tempi, ma contiene ancora segni del passato e
mementi che vengono preservati in angoli nascosti che il tempo, gli estranei,
la Storia non hanno potuto cancellare. La protagonista smuove il quarto mattone
del camino e ritrova il medaglione nascosto dalla nonna, la casa diventa la
storia, la sua architettura cadente si trasforma nella trama di questo racconto
che dichiara l’impossibilità di cancellare il passato e la possibilità di
costruire un ponte con un futuro in terra lontana.

Tra i brani in prosa emergono due testi segnati dalle osservazioni
filtrate da “occhiacci di legno” capaci di descrivere il paradosso, l’ironia e
la comicità presenti nella condizione di estraneità. Yousef Wakkas, che ha
partecipato sin dalla prima edizione del premio, narra in “NUTELland” (racconto
che verrà pubblicato a parte a cura dell’associazione Eks&Tra) il dramma
della prigione visto attraverso le esperienze tragicomiche di un appassionato
della nutella, prodotto italiano per eccellenza (che ha anche colonizzato il
mondo americano da cui scrivo). Spacciatore incapace che vuole essere
arrestato, il protagonista del racconto di Wakkas fa di tutto per finire in
prigione, dove si mette nei guai per la sua incapacità di capire le nuove
regole non scritte che caratterizzano i rapporti tra i carcerati. In prigione
il protagonista si “italianizza” secondo un processo ben poco ortodosso che
traduce in chiave comico-ironico-paradossale la retorica dell’assimilazione in
un contesto culturale estraneo/straniero:

 

se vi dovesse capitare di entrare in carcere, state attenti, le
regole sono tante. Però io (…) qualche consiglio ve lo posso suggerire. In
primo luogo, è assolutamente sconsiderato dare del “bastardo” alle guardie. In
secondo luogo, è molto, molto pericoloso, mangiare le razioni di pane ad un
ugandese. Infine, è rigorosamente irremissibile e imperdonabile fregare la
nutella a un italiano!!

 

In altri racconti, Wakkas ha sperimentato l’atto di
ventriloquizzare la voce di altri nella sua narrativa, e ripete in questa
antologia la stessa operazione concentrando il suo racconto “Shumadija Kvartet”
sulla vita di un gruppo di slavi in Italia, sopravvissuti alla tragedia della
ex-Jugoslavia. Questo racconto parla della costruzione di un senso di comunità
tra persone legate l’una all’altra da una economia di sopravvivenza intesa sia
da un punto di vista finanziario che umano, dato che il gruppo viene fatto
oggetto di minacce da parte di razzisti. In un ennesimo tentativo di guadagnare
soldi, il gruppo si costituisce in quartetto musicale che però si scontra con
le richieste locali del pubblico: canzoni in milanese che il quartetto
multiculturale non conosce. Nel momento in cui la loro estraneità dichiara
anche il loro fallimento in questa impresa semi-artistica, un membro del
quartetto comincia ad intonare le cadenze dell’unica canzone che conosce:
l’inno nazionale del Bangladesh. Si rovesciano quindi i ruoli, non è più il
quartetto ad essere estraneo, intrappolato nella propria mancanza di
acculturazione, ma sono gli spettatori che devono confrontarsi con suoni e
cadenze diverse che vengono dichiarate un successo dagli occhiacci/orecchie di
legno del pubblico di italiani ad una festa di compleanno.

Il tono ironico e scanzonato di alcuni racconti di Wakkas compare
rielaborato nel racconto di Carmelo Quijada intitolato “Vendette”. Quijada
collega tra loro le alienazioni della vita da immigrato e quelle create dalla
vita in città. Riesce in questo modo a ritrarre, con tono comico e tragico allo
stesso tempo, ambienti familiari ma anche estranei al lettore. “Vendette” parla
delle avventure di un immigrato in una città abbandonata da tutti per le
vacanze di agosto. In questo paesaggio disabitato che “significa” la città, ma
allo stesso tempo un deserto umano, il protagonista inizia una lotta alle
invasioni dei piccioni, i “topi con le ali”, impresa che ricorda il Marcovaldo
calviniano. Le sue azioni da agente di pulizia vengono però interrotte, il
protagonista si trova perseguitato da una banda di teppisti che riesce ad
aggirare sacrificando alla loro ira il contenuto del suo appartamento. Questo
eroe picaresco garantisce un lieto fine alla storia i cui toni sono riflessi in
altri due racconti di Quijada: “Vicoli” e “La danza della pioggia”.

Con tono diverso, Kossi Komla-Ebri, che nel ’97 vinse il primo
premio per la prosa, affronta questioni di genere, in particolare il tema delle
donne immigrate in Italia, nel suo racconto “Mal di…”. La protagonista del
racconto è anche la narratrice della sua storia di traslazione dall’Africa
all’Italia dove emigra sperando nell’aiuto del fratello ivi residente. Si trova
però ad essere sfruttata come domestica dallo stesso fratello che la tiene a distanza
per dimostrare la propria assimilazione nella cultura occidentale. Quando la
reclusione nello spazio domestico e l’emarginazione all’interno della famiglia
del fratello diventano insopportabili, la protagonista si appropria di uno
spazio suo grazie all’aiuto di un’altra immigrata, la filippina Conception.
L’amica diventa l’elemento di transizione tra passato e presente, tra cultura
africana e italiana, poiché le insegna la lingua, le abitudini che il fratello
avrebbe dovuto tradurre per lei. In questo processo di acculturazione che crea
inoltre una piccola comunità femminile, la protagonista comincia a verbalizzare
i propri diritti: una giornata di libertà, uscire, avere del denaro proprio. Le
sue rivendicazioni portano alla frattura tra lei e la famiglia del fratello, ad
un nuovo lavoro, ad una propria indipendenza. È proprio in questo suo nuovo
spazio che la protagonista fa sì che il legame con il fratello possa essere da
lei ricostruito. Il fratello, il dottore, ritorna agli usi e cibi africani quando
è con lei ed insieme creano uno spazio di complicità culturale, uno spazio
ibrido che può davvero riconciliare passato e presente.

Dopo il suo ritorno in Africa, la protagonista sente nostalgia per
l’Occidente che ha deciso di abbandonare, una nostalgia a rovescio, un “Mal di
…” come ci ricorda ambiguamente il titolo.

La lontananza ed i processi di mediazioni necessari a gestirla,
sono al centro della poesia di Sandra Clementina Ammendola che ha con successo
partecipato ad altre edizioni di questo premio. Si aggiunge alla problematica
riconciliazione delle distanze, il dolore per la perdita di un amico al di là
dall’oceano, lontano da quei riti dal conforto dei cari, dal dare e ricevere
consolazione che formano la necessaria transizione tra vita e morte per chi
rimane. Il dolore a distanza non ha confini, argini, mediazioni.

Il dolore è anche al centro della poesia “Marionette 2000” di
Abdelkader Daghmoumi che lo filtra attraverso la tradizione letteraria e
popolare delle maschere, delle marionette, finzione e realtà. Riflesse nelle
esperienze di migrazione, negli immigrati stessi, queste vecchie figure della
tradizione italiana riprendono nuova vita, costruiscono nuovi significati per
quelli che Daghmoumi chiama i “figli del niente”, gli immigrati. La sua poesia
esprime la ricerca di una transizione tra tradizioni: quella indigena, con cui
gli immigrati si devono confrontare e le tradizioni culturali portate dagli
immigrati stessi e inscritte, traslate in lingua italiana. Il gruppo Ravenna
Teatro in collaborazione con immigrati ha ricercato questo processo di
ibridizzazione letteraria nello spettacolo di Mor Arlecchino in cui la maschera
di tradizione veneta, diventa un senegalese alle prese con l’Italia e con le
disavventure di uno straniero povero.4

 

Nel suo romanzo minimalista Il polacco lavatore di vetri, Edoardo
Albinati ha scritto uno dei primi testi sull’esperienza degli immigrati in
Italia5. Christiana de Caldas Brito riprende in questa edizione del
premio letterario il tema trattato da Albinati e narra ne “L’equilibrista” la
vita in bilico tra sopravvivenza e completa povertà di uno dei tanti lavatori
di vetri che gli automobilisti si sono abituati a ignorare ai semafori delle
città: “(…)allontano distrazioni, evito ricordi e non cedo alla stanchezza. Ma
spesso mi prende la paura di cadere. Sotto – lo so bene – non c’è rete.”

Brito ha già partecipato ad un altro concorso letterario in cui
aveva presentato “Ana de Jesus” un racconto trasformato poi in opera teatrale,
rappresentata in molte città italiane. Il lavoro di Caldas Brito, le poesie di
Gezim Hajdari, Rosana Crispim da Costa, i racconti di Martha Elvira Patiño, di
Amor Dekhis, di Paul Bakolo Ngoi, segnalati in questo premio letterario e
pubblicati in questa antologia, rappresentano un corpus di lavori e di autori
che sono stati premiati in selezioni precedenti del concorso Eks&Tra. La
loro scrittura definisce questo premio leterario e lo rende ciò che è e vuole
essere: uno spazio in cui le testimonianze degli immigrati definiscono una nuova
cultura emergente che si esprime in poesia e prosa, ma allo stesso tempo creano
testi narrativi autobiografici che descrivono per i lettori la storia
dell’emigrazione in Italia. Questa storia dell’Italia contemporanea, vista a
distanza ravvicinata dagli “occhiacci di legno” degli immigrati, vuole essere
complementare ad una raccolta minima di storie orali. I racconti e poesie
raccolti attraverso gli anni dal concorso Eks&Tra sono storie in cui si
contiene e traduce il dolore e l’inevitabilità sia di ogni singola emigrazione
come anche dei processi di emigrazione. Non numeri o percentuali, ma persone in
equilibrio instabile, direbbe Brito, ci raccontano una storia, tante storie che
sono la Storia, quella che ci hanno insegnato a rispettare e che gli autori di questi
testi ci insegnano a “spaesare”, a narrare in piccoli frammenti culturalmente
ibridi.

 

* Docente di Letteratura
comparata al Dartmouth College, USA.

 

Note

1             Remo Cesarani, Lo straniero (Roma-Bari:

Laterza,
1998, p. 7).

2             Carlo Ginzburg, Occhiali di legno: Nove

riflessioni
sulla distanza (Milano: Feltrinelli,

1998).

3             Bamboo Hirst, Inchiostro di Cina  (Milano:

Mondadori,
1992).

4             Marco Martinelli, I ventidue infortuni di Mor

Arlecchino:
Tre atti impuri (Ravenna: Edizioni

Essegi, 1993).

5             Edoardo Albinati, Il Polacco lavatore di vetri

(Milano:
Longanesi, 1989).

 

 

 


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