È passato un

anno in questa stanza, in questo paese è passato un anno di incertezza
rilevante. Stando così le cose, egli si è convinto di non aver trovato la
destinazione che assomiglia all’America, un’America di serenità non di dollari.
D’altronde sarebbe stato difficile non fallire quella destinazione. Allora non
gli rimane che autoribattezzarsi Mussafer,
colui che non ha portato a termine il sacrosanto viaggio.

Seduto sul
letto, punta gli occhi al di là del parapetto, scruta la stazione della grande
città. L’imponente edificio ferroviario tende generosamente le sue braccia
verso di lui e occupa con insistenza l’intero riquadro della finestra.
Coinvolge in un viaggio mentale la sua vista e impegna Mussafer trattenere il
respiro. Egli si affaccia alla vetrata, e come un volatile fiabesco il suo
sguardo parte il più lontano possibile, a sorvolare dilettevoli terre prive di
ostilità, prima di andare a posarsi sulla gente che entra ed esce dalla
stazione. Vede il solito formicaio. A stento, riesce a distinguere la sagoma
della barbona tollerata nei paraggi della stazione, detta Madre Clara, avvolta
nei suoi logori panni e confusa nel suo fagotto.

Sono le nove
della mattina.

Prima di recarsi al lavoro, da Marco, trattoria specialità mare, medita un istante. Non
lo assale tanto il fastidio del pesce crudo e fetente di aspra salsedine con
cui avrebbe fatto i conti durante la pulitura in preparazione del pranzo,
quanto l’angoscia di sentirsi costretto a firmare un contratto o sottostare a
una qualsiasi regola. Sottoscrivere un documento per mettere radici in un solo
posto lo percepisce, nel suo intimo, come un immergersi con la propria firma in
un altro tipo di fetore: quello di essere reperibile. La fiducia nelle carte
che denunciano il proprio titolare, come quella tessera che attestava la sua
professione di insegnante e che egli aveva esibito fatalmente una volta, è
morta per sempre. L’arrivo di un treno sferragliante lo distrae un poco. La
gola asciugata dal sonno gli fa ricordare la colazione.

Si dà una scossa e prende ad uscire. Lo intralcia la valigia giacente dietro l’uscio. Mai
disfatta, come l’idea fissa nella sua testa che, pur essendo tanto pesante a
quell’ora, non esita a penetrare le nuvole.

Già, una volta scaricato dall’aeroplano lontano da casa, la casa si è allontanata
inesorabilmente, sotto la spinta di fatti drammatici che non cessano di
martoriare quelle terre, nel corso degli ultimi anni. E da allora avverte quell’energia
nelle gambe e una spinta di fuggire nel cuore tali da non permettergli una vita
sedentaria, né la terra smette di tremare sotto i suoi piedi. Del resto, per
salvarsi la pelle, soprattutto la pelle, aveva finito per acquisire, fino a
farlo diventare abitudine, questo modo di essere, nel dolore del suo paese e in
quello della sua gente. Benché ormai tagliato fuori da quella realtà, non ne
vuole sapere di liberarsene, né riesce a recuperare la gioia di vivere.

In strada, si addentra nel traffico ancora impazzito, anche dopo l’ora di punta. Prosegue
dritto e si ferma al semaforo. Evita volontariamente bar e pasticcerie,
dislocati a destra e a sinistra. Soltanto il semaforo lo ferma. Una fila di
autobus arancione gli taglia dispettosamente la vista. Il lungo minuto lo
impegna nell’attesa dell’accensione del verde. Passa in là, verso le grandi
scalinate che sale svelto. È già nello spazioso atrio della stazione, immerso
nel formicaio, a quattro passi dalla colazione. Respira l’aria contagiosa di
eterna partenza, l’aria che lo innalza al grande sogno. Quando appoggia il
gomito al banco del bar, nell’effimera euforia, non si ricorda come ha fatto
per avere fra le dita lo scontrino rotolato come una sigaretta. Fa un respiro,
poi l’ordinazione.

«Un cappuccino, bollente e con poca schiuma. Una brioche calda, per favore,
grazie!»

Sotto i neon accecanti, dà campo libero ai suoi sensi dentro il locale profumato di caffè
mattutino. Scruta la gente e si immedesima nelle emozioni dei viaggiatori,
coglie i suoni dei fischietti provenienti dai binari che congedano treni verso
ogni dove.

Arriva la tazza fumante insieme al pezzo dolce avvolto nel candido tovagliolo.

Morde la brioche nell’angoletto. Gli occhi vanno oltre l’alta vetrata del locale a
fissarsi sull’andirivieni dei veri mussafirini.
Spicca la sagoma di Madre Clara. Madre Clara trascina la sua roba avvolta nel
fagotto, le viene incontro la liscia pavimentazione.

Quando finisce di ripulire perfino il fondo dalla tazza sposta lo sguardo
sull’orologio appeso al muro che interroga. Appena passate le dieci.

Quasi incoscientemente si dirige verso i cartelloni degli orari. Consulta alcune
partenze, ne esamina le destinazioni nei minimi dettagli. Non reagisce
all’invasione di un gruppuscolo di scolari che lo soffocano con il loro fare
rumoroso e gli ingombranti zainetti che penzolano dalla spalla. A pochi minuti
dall’inizio della giornata lavorativa, corre, sapendo allora di farcela ad
essere sul posto in tempi di record. Sorpassa
Madre Clara, lenta e dondolante, all’altra uscita della stazione.

——

Marco, il suo datore di lavoro, è contento della sua
puntualità. E una mattina come questa, è ancora più contento che esclama:

– Sei sempre
stato bravo. Adesso devi metterti in regola, Mussafer. Sono disposto a darti
una mano.

Marco si
aspetta una reazione esultante, ma le gote di Mussafer lo deludono, non vi si
accende alcun lampo di gioia. Mussafer acconcia il muso, la sua presenza in
quel locale è legato meccanicamente al lavaggio dei piatti. L’interno cucina lo
ingoia insieme alla sua smorfia nello stesso istante. Marco lo segue, le spalle
cariche di stizza:

– Vuoi
ascoltare? È uscita una sanatoria sugli immigrati. Non sei contento di stare in
santa pace, finalmente con il permesso di soggiorno?

– Non mi sono
mai lamentato.– risponde Mussafer rispettoso.

Alle tre in
punto corre fuori come un cagnolino smarrito.

Un
meccanismo fuori della portata dell’uomo sano, alterato da atti orribili che
gli insediano la memoria, non suggerisce a Mussafer altro se non la persistenza
di una persecuzione. Quel tentativo di uccisione gli aveva cambiato totalmente
la visione sulle cose. Fino a ora non aveva trovato una collocazione a colpe
commesse dalla sua propria persona, sapeva soltanto di essere in vita per
miracolo.

La
convinzione di non aver raggiunto il nido sicuro, diventa ossessione. La sua
avversione al contratto che gli assicura il posto fisso da Marco, lo incalza
senza tregua. Pur credendo, in qualche momento raro, sotto lo stress della
quotidianità, di aver superato la prova, il vermiglio taglio nella gola gli fa
ricordare quella volta sciagurata, quando andava in compagnia dell’amata a
godersi una giornata balneare nelle vicinanze del paese.

Il tratto
boscoso che rivestiva la zona collinare era stato fatale. Lì, un gruppo che
faceva capo a coloro che conducevano una guerra allo stato e al popolo, da
qualche tempo, aveva fatto la sua apparizione finalizzata ad imporre la propria
legge agli abitanti, confondendo politica, religione e banditismo. Il giorno
che passava Mussafer, per sua sfortuna, alcuni membri del gruppo, mascherati in
divisa ufficiale fregata alla polizia, avevano allestito un blocco stradale,
uno dei tanti fasulli. Fiducioso nella sua integrità non sentendosi coinvolto
negli avvenimenti che travolgevano l’intero paese, il povero Mussafer aveva
percorso quella strada pericolosa con tranquillità. Al momento del blocco non
oppose nessuna resistenza, accostò la sua R4 ed esibì la patente agli uomini
che sembravano appartenere alle forze di sicurezza statali. Ma loro non si limitarono
a controllare la patente e il libretto, fecero un’indagine sommaria sugli altri
documenti, quelli di lui e della sua compagna, carta d’identità, carta
professionale, le armi puntate su di loro. Li fecero scendere dichiarandoli
colpevoli per una serie di motivi assurdi. Entrambi erano insegnanti, quindi
collaborazionisti dello stato empio, per di più non sposati ma stavano insieme
da soli. Il che è incompatibile con i precetti di cui avrebbero generalizzato
l’applicazione una volta instaurato il loro stato, inoltre la donna si vestiva
ignorando completamente questi precetti. Li sgozzarono prima di prendere la
fuga con la R4 della coppia. Sentenza ed esecuzione non durarono più di qualche
minuto.

A dispetto
del pugnale affilato, Mussafer si svegliò all’ospedale, dopo molti giorni.
Tuttavia il coma non aveva cancellato nulla di quanto aveva vissuto. Egli venne
a sapere che la donna era finita all’obitorio poi al cimitero durante la sua
assenza. Fu in quel momento che le sue convinzioni ebbero una svolta.

Ecco,
lasciare da qualche parte il proprio nome, l’indirizzo o la firma è come
violare il proprio recondito status interno, una clandestinità voluta per
scelta.

E così non
solo ignora la notizia che Marco gli aveva riferito, ma non ritorna nemmeno da
lui, abbandona lavoro e paga. Passa circa due mesi da disoccupato, e allora
perde anche il posto letto.

——

In libertà,
un giorno anche lui trascina la sua valigia sulla liscia pavimentazione. Si
volta a sinistra dei binari, la pavimentazione è sempre liscia, liscia anche
quella del binario che egli segue. E lo segue come un sentiero quieto. Il
fischietto dei ferrovieri e il cigolio dei treni lo accompagnano ovunque.
Attraversa la rete di rotaie stesa sui sassolini. Si incammina al lato di una
torre che sputa fumo verso l’azzurro del cielo, prima di giungere al parcheggio
dei vagoni. E lì si inventa il suo mondo, l’origine di tutte le partenze.

Si insedia
una carrozza, forse la sorte gliel’aveva riservata. E avrebbe voluto
trasformare il sogno che porta nel cranio in un motore di mille cavalli, per
mettere in moto quella carrozza. In tanto sistema la roba nel portabagagli, con
gesti da vero viaggiatore.

Dal
finestrino scorge sorpreso il palazzo dove alloggiava prima. Si abbandona al
profondo sollievo di averlo disertato.

Passa tre
notti tranquille, nessuno gli arreca il minimo fastidio. Si congratula con
tanta generosità mandatagli chissà da dove, e non sa a chi rivolgere la sua
gratitudine. Gli viene in mente la regola dell’ospitalità impressa ancora nel
suo patrimonio educativo: la richiesta del nome all’ospite, benché innocua, si
fa soltanto al terzo giorno.

Si sveglia,
si affaccia al finestrino, come una volta l’edificio ferroviario riempiva la
finestra della sua stanza, ora l’immobile che alloggiava a occupare il
finestrino dello scompartimento. Ogni mattina rispecchia il sole nella sua
nuova abitazione. Ogni giorno i suoni metallici assistono l’orchestra che
scuota la mania del sogno travolgente.

Ma nella
terza mattina, al suo risveglio, l’immobile che egli abitava sparisce e lascia
il posto alla felice sfumatura che avvolge vista e respiro, nelle fiorite
pianure e nelle città accese, lungo le dense foreste e le gallerie emotive. Un
immenso viaggio comincia.

Risuscitato
da sensazioni di vita ritrovata, Mussafer si lascia incantare fino alle
articolazioni delle ossa, dall’apparizione variegata quanto scorrevole. Rimane
con la guancia schiacciata al vetro per un indeterminato momento. Dopodiché
sistema la valigia mai disfatta nel porta bagagli e torna a sedersi. E quando
socchiude gli occhi in segno di appagamento, una piacevole ombra, con tratti di
fata, gli porge un foglio, un biglietto bianco, forse per destinazione scelta
dal destino, forse quella giusta. Si rilassa al dono della fata e alla
meraviglia che profferisce il finestrino. Dà la schiena alla portiera e scorda
l’eventuale arrivo di un controllore.

Ma ad un
certo punto la portiera si spalanca con fragore. Insieme ad un venticello,
entra l’uomo con il berrettino che avvicina la grossa mano sotto la vista
impacciata di Mussafer. Mussafer ne vede aprirsi la palma con il piccolo
cartoncino quadrato, che – – – POLFER, – dice, – le ordino di seguirmi!

La voce
dell’uomo rimbomba così intorno da scuotere i sensi. Mussafer, con il cuore
battente, vede il palazzo dove alloggiava insolente invadere l’intero
finestrino, adesso rimpicciolito.

Mussafer
segue l’uomo e scende in terra, rivivendo il chiasso dei passeggeri e i
fischietti di partenze. Passa al fianco di Madre Clara che, appoggiata al suo
fagotto, sonnecchia sul margine del binario. L’uomo lo conduce in un palazzo di
fronte alla stazione, sconosciuto a Mussafer. Questi, prima di entrare in uno
di tanti uffici, spinto dall’istinto, adesso parla: – Cosa vuole?

– Si
accomodi! La metto in regola.

Poi il gigante
lo fa sedere di fronte a sé, e a sua volta prende posto dietro la scrivania.
Nel silenzio assoluto, stende il foglio dalla superficie di una tovaglia.
Comincia a redigerlo per un tempo lungo quanto l’incubo della digestione di
mille rospi, e conclude con tre colpi secchi che lasciano nel fondo del testo
timbri tondi e quadrati. Infine esterna in un involucro di ghiaccio la
comunicazione chiara come la luce del giorno:

– Ha quindici
giorni a disposizione per lasciare il territorio nazionale.


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