La via delle stelleTC "La via delle stelle"

 

1. Il fiume del piacere

 

In un tempo dell’esistenza,
Dio appariva spesso nel cielo azzurro del Sahara occidentale. Poiché, da queste
parti, non entrava nelle consuetudini della gente che si facessero delle
domande, il fenomeno passava quasi inosservato. Tuttavia, a scanso di
indiscreti equivoci, ci si limitava a fare pensieri lunghi, mostrandosi
superiori al destino. A volte, certi tuoni che facevano vibrare la notte precedevano
la luce divina. In tal caso, per scongiurare la sorte, ci si mettevano a
contemplare con sguardi incupiti la periferia dell’immenso paesaggio in attesa
della torcia ardente che portava il fuoco per le pentole. In quel giorno, la
videro scagliarsi sulle pendici delle maestose montagne dell’Atlas.
Nell’oscurità di una grotta, a poca distanza dal luogo colpito dal fulmine, era
nato il principe d’ebano.

– La teoria dei giochi e
delle probabilità – disse Samira, zingara di adozione – non poteva seguire che
un piano di completa evoluzione: è un toro per eccellenza, segno solido e
terrigno, sarà fedele solamente alla donna che l’amerà. 

La nonna secolare,
immaginando il suo viso tinto di un sorriso smagliante, si mise dietro al
telaio e incominciò a tessere dai peli di capra la stoffa necessaria per
cucirgli un mantello. La spada e lo scudo glieli avrebbe procurati dai
commercianti che, di solito, facevano delle soste occasionali nell’oasi.
“Tanto, sarebbero dovuti passare degli anni prima che potesse montare il suo
puledro bianco” pensò contenta.

Dopo un’interminabile
segnalazione di lune, che non si potevano calcolare neanche con il
pallottoliere, il capo tribù annunciò, durante un discorso svoltosi per la
spartizione dei pascoli, che Dyab era ormai diventato adulto, perciò gli si
potevano affidare i grandi segreti ed essere certi che non li avrebbe
divulgati. Perché, a parte gli anni che si potevano verificare nella forma
solida e nella sembianza di un guerriero Tuareg, sapeva a memoria versi interi
del Corano e non si perdeva più durante le razzie notturne, come succedeva
quando era ragazzino imberbe. Col passare del tempo, aveva acquistato una
capacità straordinaria nell’orientarsi con l’ausilio delle stelle. Gli uomini
delle tribù, ogni tanto, chiamavano Dyab per assicurarsi che gli astri si
trovassero nei loro rispettivi posti e, soprattutto, che non ci sarebbero stati
dei cambiamenti che avrebbero compromesso la loro stessa vita. Egli, fiero del
suo compito, alzava la testa verso il cielo che, in quella zona, sembrava una
nera coltre di velluto e indicava con somma facilità Vega, Altair, Fomalhut,
Algol e, come di consueto, anche il corno di Ariete e Almanach, perché, a detta
di Samira, queste ultime esercitavano un’azione modificatrice sul suo carattere
e le sue tendenze.

All’inizio del mese di
Muharram, durante il quale non si accoppiano nemmeno gli animali, i saggi gli
affidarono il primo segreto per consentirgli di contattare un’entità superiore.
La scelta era ampia: da Raduan, il custode delle chiavi del Paradiso, ai
Quattro Califfi,1
l’Aûlia2 e, in caso eccezionale,
Ezraîl, l’angelo della morte.

Sotto il caldo afoso della
pioggia quinquennale, le donne che erano sopravvissute agli affanni di almeno
tre stagioni consecutive di siccità e carestia lo condussero alle colline
gemelle, dove gli avrebbero rivelato il secondo segreto. Sulla cima della prima
collina, Dyab vide strisce colorate legate ad un palo di legno issato accanto
alla lapide di una tomba lunga sei metri con il tumulo avvolto di doni e fiori,
mentre l’altra tomba, sita su una collina opposta, era spoglia e, come se non
bastasse, la sua testa non era rivolta verso la Kàba.3

– Questa è la tomba di Abele
– disse la donna che faceva capo al corteo senza nascondere la sua angoscia, e
aggiunse con un cenno di disprezzo – e quella là è la tomba di Caino. Un
giorno, anche tu avrai l’occasione di sentire la voce di Dio, che nonostante il
tempo trascorso da quel delitto orribile, l’Onnipotente non ha smesso mai di
richiamarlo in giudizio. Un richiamo tremendo, come se una frana cascasse,
dall’alto del cielo, sulla terra: “Caino, hai notizie di tuo fratello Abele?
Caiinoo… Caiinoo…”

I segreti della scienza, di
come maneggiare un astrolabio, lanciare fuoco greco con la catapulta, usare
trapani ad archetto, costruire ponti sui fiumi che brulicavano di coccodrilli,
capire il linguaggio dei delfini che avevano salvato Arione il suonatore di
cetra. Questi e altri misteri gli furono insegnati da un eremita andaluso che
dimorava nei pressi delle Colonne d’Ercole.

L’ultimo segreto era una
visione terribile. Samira, prima di svelare il suo contenuto raccapricciante,
dovette digiunare tre giorni ed evitare gli sguardi degli asini per una
settimana. Al termine di lunghi rituali che avevano scosso le ossa dei morti
nelle catacombe, costringendoli a chiedere pietà, narrò l’amore e la sfortuna
di Dyab, imitando le voci di cinque animali diversi:

 

Snella, chioma di castagno
sul volto grazioso avrà
Celesti gli occhi, topazio il colore che rifletterà
Frutto di due mondi, d’amore e passione nascerà
Primavera, Marzo prospetta magia, allora si vedrà
Urano, in dissonanza, potenti vulcani susciterà
Venere, anima inquieta, sulle tue braccia dormirà
Le forze degli elementi, la luna in Vergine, ti guiderà.

 

I capi carovane che da
secoli usavano gridare  “Oasi in vista!”
in quel giorno rimasero esterrefatti davanti ad una muraglia scalpitante di
bagliori violacei che, oltre al vento e alla luna acre, inghiottiva, in un
attimo di giravolte, tutto ciò che incontrava, perfino i lamenti rinchiusi nei
luoghi più nascosti dell’anima. Col cessare del vento, videro un vascello
insabbiato tra le dune  beccheggiare e
rollare, poi, con una manovra prodigiosa riprendere la rotta verso il mare.
Ancora oggi, esploratori e passeggeri che attraversano il Sahara si fermano
allibiti sulle sue tracce e seguono con stupore la sua scia spumeggiante che
svanisce nel miraggio inaridito sul ciglio dell’orizzonte.

Dyab, per pagarsi il
viaggio, dovette pelare patate durante l’intera settimana di navigazione.
Quando la nave postale approdò in un porto nel Mar Baltico, saltò fuori come
una fulgida stella, direttamente nel cuore della città. Una ragazza di cuoio
con i pattini a rotelle sfoderò un sorriso invitante e, roteando su se stessa,
gli disse con una voce che ispirava fiducia: – Per quanto tu sia introverso, mi
sembra che celi dentro di te un fermento di sentimenti che non conoscono
cedimenti e compromessi. Seguimi.

L’incitò a sfogarsi, scosse
le sue emozioni che fino a quel momento parevano inerti, ma una volta giunti al
bosco per ascoltare i canti della luna piena l’esuberanza e lo slancio gli
permisero di esprimere con creatività e fantasia la passione amorosa. Al
crepuscolo, senza rendersi conto, scoppiarono di gioia, facendo svegliare la
primavera.

– Lo sai che chi è privo di
nome non può sopravvivere nell’oltretomba?

– Sì, lo so.

– Allora, cosa aspetti a
dirmi il tuo nome?

– Perché? Dobbiamo morire
subito?

Sogni nudi apparvero
ovunque. Fu il cullare ad avvertire la convulsione che assaliva il corpo cosparso
di rugiada. Maddalena rimase immobile sul letto di foglie per parecchie ore:
ascoltava con entusiasmo il frinire delle cicale e il gracidare delle rane, e
si rifiutava di rispondere alle invocazioni persistenti di Dyab, ma quando il
vento riportò sulla terra l’ululare delle tenebre, si morse le labbra tremanti
e gemette: – Dyab, ho paura.

– Israfil,4 aiutami.

– L’eco rimbalzò lentamente
tra gli alberi, poi prese la forma di sussurri incomprensibili e salì al cielo.

– Due esseri umani immersi
nell’intrico del bosco vanno avanti così, finché morte ne segua.– La voce
divina echeggiò nelle centrali di polizia su tutto il territorio del Bundestag.
Per fortuna, il fatto era accaduto nella stagione in cui iniziava la caccia
alla volpe. I poliziotti che fecero irruzione nella selva nera spacciandosi per
bracconieri non avevano resistito all’impatto dell’estasi dato dalla fusione
con lo struggente piacere del bosco. Più tardi, il commissario capo, vedendo i
suoi uomini che rientravano alla base sconfitti dalla fatica, dichiarò il
fallimento del piano di ricerca che aveva elaborato con i veggenti del suo
tempio preferito. In pochi minuti, la notizia clamorosa si era fatta il solito
giro del mondo ed era giunta anche a Dyab, il quale decise di approfittare subito
della situazione favorevole. Si accovacciò per terra a gambe incrociate,
tenendo le braccia attorno ad esse, mise la testa fra le ginocchia e chiuse gli
occhi:

Lâ ilâh5 – invocò quasi aspirando le
sillabe dall’ombelico. Poi si avvicinò la bocca al livello del cuore e
pronunciò: – Illâ Allâh.

Man mano, il suo ritmo
costante prese il tono debole e ansimante di Maddalena che recitava il Mantra6 germinale per risvegliare
l’energia interna del Chakra:7

Ba, bha, ma, ya, ra. Lâ
ilâh illâ Allâh… tat savitur va. Renyam, bharco devasya daîmahi, dahiyo yo nah
pracodayat
8… lâ ilâh… ba bha, ma…

Un brivido di percezione
fulminea scosse i due corpi, Dyab sentì un lieve rumore di un remoto scroscio
di acque possenti, consultò la sua mappa geografica e rimase stupefatto dalla
sorpresa inaspettata: stavano per attraversare il Geon9. Senza perdere tempo,
abbracciò Maddalena e si tuffarono nell’acqua. Nel silenzio, ora, si sentiva
solo il ronzio di un elicottero scandito con la voce di Lucia che strillava a
squarciagola:

Maranà tha10… maranà tha… mara…th…a…

Nel caos, nessuno si
dimostrò insensibile ai lamenti di una madre dilaniata dalla scomparsa di sua
figlia. Un cronista dall’aria di chi è abituato a occuparsi con disinvoltura
dei fattacci della criminalità che dilagava in città, immortalò il suo delirio
con un mini-registratore. In redazione scelse un titolo attraente: “Bella,
capelli lunghi, un neo accanto alla bocca”. In seguito, aggiunse altri
particolari da manuale: “Figlia di immigrati, probabilmente fa la prostituta
nel quartiere cinese.”

 

La sveglia suonò presto,
riluttante più che mai.

– Un altro giorno – disse
Ismet interrompendo il sonno di malavoglia.

– Ho sognato Maddalena –
mormorò Lucia strofinando gli occhi. Il rituale quotidiano, che ormai proseguiva
da un anno, sarebbe continuato in cucina.

Lei, con movimenti
frettolosi, caricava la macchina del caffè. Lui, con la testa chinata sulla
stufa del gas, preparava il caffè alla turca. Ismet l’aveva detto dall’inizio:
“Non è questione di cuore, bensì di gusto, a ciascuno il suo caffè.” 

Prima di mettersi attorno al
tavolo avevano controllato la scatola della posta (era vuota), i fiori nei
vasetti allineati sulla veranda, gli ortaggi nella piccola aiuola tra due
alberi di magnolie e, infine, la lavagna dove erano segnati gli articoli che
mancavano in cucina.

Tutto era in ordine.

Adesso, potevano pensare in
tranquillità: “È mai possibile avere una figlia del genere? Se fosse nata e
cresciuta in Turchia non sarebbero successi questi problemi. È chiaro, la colpa
è di sua madre, l’avevo previsto dal primo giorno del matrimonio” disse Ismet
tra sé.

“È molto opprimente, una
ragazza libera d’anima non avrebbe potuto mai sopportare un padre simile, i
detti popolari non sbagliano: mamma li turchi! Ma quello che non capisco, come
ho potuto sposarlo?” replicò Lucia dentro di sé.

– Se la paura è il movente
delle nostre azioni, le conseguenze sono tremende – disse Ismet dopo una lunga
sorsata di caffè. – Direi che faremmo meglio a stare cauti, specialmente quando
è d’obbligo attraversare una curva inesorabilmente discendente.

– Io non ho paura di
perderla – rispose Lucia senza distogliere lo sguardo dalla clessidra.

– Se è per questo, nemmeno
io ho la sensazione di averla persa, la mia vera paura consiste nella fase successiva:
sarà la stessa? Dolce, vitale e allegra. Personalmente non ci credo. Nei
territori del dolore, uno non sa se contano più le ferite o l’esistenza.

– Allora, anche oggi non hai
voglia di uscire per informarti su di lei?

– Informarmi dove? Da mesi non
facciamo altro che sognarla e cercarla dappertutto, ma fuori nessuno vuole
comprendere la nostra logica che, stranamente, definiscono una pura ossessione.
Del resto, ti ricordi cosa ci ha risposto l’ispettore della polizia nell’ultimo
incontro con lui: “Ognuno deve cavarsela da solo”. Se questa è la loro logica,
anche noi ne abbiamo una: aspettare.

L’attesa può prendere più di
un aspetto. Talvolta suggerisce pure echi di frugalità al limite del grottesco.
La scena era talmente rapida che Ismet si toccò la fronte per assicurarsi di
non avere la febbre rossa. Dapprima in maniera inavvertibile, poi con segnali
che andavano dai rintocchi di campane alle suppliche ingannevoli di una donna
che aveva lasciato trapelare la sua sagoma dalla finestra come un lampo di luce
nera. Ismet, catturato dall’incredulità, puntò il dito su Gingöz,11 il quale, da quando aveva
mangiato un talismano di pelle di lucertola preparato apposta per curare un
pazzo, non smetteva di chiamare tutti gli spiriti cattivi che esistono nell’aldilà;
ma il gatto arrotolato sul davanzale lo guardò con assoluta noncuranza, alzando
la coda come un segno inequivocabile di contrattacco in caso di un eventuale
assalto con lanci di tegami, saliere, portaceneri, eccetera, cosa che indusse
Ismet a prendere la forma di un’insana euforia: si voltò di soppiatto per
chiedere a Lucia di accendere le candele e esorcizzare il maligno, ma la trovò
ancora più turbata di lui. Era lì, nella penombra, stupita dal calpestio
convulso sul tetto, mentre con la voce di una preda ferita cercava di
sprigionare ciò che le era rimasto in memoria del nettare dell’immortalità.

A notte fonda, dopo che ogni
tentativo di comunicare con loro si era dimostrato vano, i pompieri aprirono la
porta a colpi di ariete, rischiando di abbattere il muro della facciata.

 

– Mamma… Papà… Siamo noi –
esclamò Maddalena muovendosi a fatica tra le macerie.

Ismet e Lucia erano in
salotto, andavano avanti e indietro stropicciandosi le mani, non dal freddo o
dalla paura, ma dall’angoscia davanti al nuovo look della loro figlia: il naso
forato da un anello d’oro, capigliatura acconciata come una dama di corte con
una spiovente sfumata di verde tropicale e rosso ciclamino. E poi, chi era quel
ragazzo dal fisico asciutto che pareva immerso in una voragine di timidezza?!

– Eccovi un uomo che non
corre dietro le sottane che gli passano davanti.

– Figlia mia, abbiamo già un
turco a casa! – Lucia la rimproverò a bassa voce e aggiunse con l’aria di chi è
rassegnato davanti al fatto compiuto: – Di che segno è?

– Toro – rispose Maddalena –
però c’è una cosa importante: è sensitivo.

– Ah… Finalmente! –
intervenne Ismet. – Adesso possiamo vantare di avere tra noi una persona con il
cervello non annebbiato dall’occulto!

Per ritrovare i difetti
riconducibili al segno zodiacale di Dyab, Lucia ritenne necessario esporre la
domanda essenziale che faceva agli sconosciuti: – Che cosa provoca Marte in un
uomo, quando è dissonante al sole?–

– Mamma… tu lo odi – strillò
Maddalena. Aveva lo sguardo allucinato.

– Ve lo dico io! –
insistette Lucia. – Insicurezza, che può sfociare in prepotenza, maschilismo,
ostinazione, insomma, tale e quale a tuo padre.

– E tu hai il sole in Pesci
al trigono di Marte e di Urano, perciò potrei definirti una sentimentale
violenta – Maddalena si vendicò subito dell’offesa inflitta a Dyab.

Era tremendamente depressa,
si avvicinò alla finestra che si affacciava al campo di girasoli e si lasciò
trasportare tra terra e cielo, come faceva di solito quando la rabbia si
rifiutava di trasformarsi in singhiozzi. Vide il suo spirito minuzioso svanire
sotto il pulsare di luci e puntini bianchi e rossi di paesi lontani.

– Vorrei ritornare a
qualcosa che suscita interrogativi – disse fra sé inspirando profondamente come
per annusare il sentore fragrante che viene da un cespuglio di rose. Nello
stesso tempo, sentì qualcosa che si avvicinava verso di lei, un moto di
fastidio, uno sguardo che si faceva penetrante e che si allargava con la
macchia grigia dell’alba: – Dio mio – sospirò – non voglio morire.

La sera del giorno seguente,
dopo che l’ultimo cliente aveva lasciato la casa sgocciolando di speranza, la
terrazza si intonò di meraviglia. Tra le piante, ora, riunite come
erano, sembravano delle api che vanno in giro per impollinare i fiori.

Maddalena, con gli occhi
pieni di vivace civetteria e di morbido languore, accompagnava la madre ne “La
notte mi fa impazzire”, mentre Ismet e Dyab gustavano da grossi calici ciò che
potevano immaginare di un incontro infausto.

– Maddalena – disse Dyab –
chi la vede è condannato a morire di nostalgia.

Ed ecco, una volta si erano
raccolti, strabilianti, attorno al corpo che degradava sotto il fardello di
un’aggressione titanica; capirono che, da qui a poco, avrebbero perso per
sempre l’animo allegro.

La loro prima reazione era stata
quella di aumentare gli orari di lavoro. Più talismani e più fatture contro il
malocchio per coprire le spese delle medicine. Infine, saltò fuori la verità
crudele: il nemico ha un nome e aveva scelto come nido il corpo di Maddalena.

– Se avessi usato i
preservativi non sarebbe successo nulla – la rimproverò Lucia colando sul suo
viso due lacrime tiepide.

– Pagavano meglio senza
quelli – rispose Maddalena, pensando che quello che voleva veramente fare era
di dare alla luce se stessa, la ragazza che avrebbe potuto essere, come negli
anni in cui sognava di trascinare tavola e vela da un emisfero all’altro per
planare sull’acqua, dormire sotto un cielo che ha il sapore di mare.

– Forse non ho saputo
interpretare il sogno?

Sentì la sua voce dal
nascondiglio invisibile dove si era rifugiata dopo che Dyab le aveva raccontato
la strana e vulcanica tragedia del pagliaccio che, sdegnato dalla nequizia
degli uomini, si abbandonò alla sofferenza e al pianto torrenziale, finché non
ebbe una fitta al cuore. Allora, in mancanza di alternative, scelse di vagare
in terra, ma, anziché trovare le radici del suo malessere spaventoso in un
luogo che non apparteneva al tempo, aveva incontrato il suo destino!

– La fiamma non si spegne
con un pugno di terra, ora ti sarà più facile concepire sia il dolore, sia la
gioia che confinano il tuo mondo. Se hai dato una forma al peccato, ciò non ti
impedirà di udire la voce della tua anima – le disse Dyab.

– Quanto durerà? – chiese
Maddalena impaziente.

– Fino a quando non
troveremo la formula giusta per fermarci.

– Ma io devo tornare, te lo
avevo promesso.

– Sei già tra noi.

 

La sera dopo ebbero il
momento tanto desiderato per gestire meglio la vita affettuosa, ma Lucia e
Ismet, colti dalla tristezza, non riuscirono a resistere alla tentazione di
seguire gli stormi delle cicogne che migravano verso sud. Per loro era
impossibile morire all’età dell’amore. Questo pensiero, col passare del tempo,
li aveva resi ancora più incapaci di comunicare in maniera spontanea le proprie
emozioni.

 

 

2. Il fiume del dolore

 

Aveva chiamato in causa i
quattro cavalieri dell’apocalisse e disegnò su un foglio di sughero impregnato
di acqua santa la visione imminente del suo futuro:  sull’estremità di un burrone sorgeva un castello avvolto in una
massa di nuvole brune che traballavano sopra le lingue perenni del
fuoco. La principessa era lì dentro, si potevano sentire, nonostante il ruggito
del vento, anche le sue grida impietose.

La fragilità della memoria
dovette arrendersi all’eco straziante di un giorno implacabile. Domani avrebbe
fatto un elenco dei ricordi che lo avrebbero accompagnato durante questo
maledetto tragitto. “La mia è solo una rassegnazione senza lampi né rabbia”
pensò con un’ombra di stupore nello sguardo e si chiese:  “Non sono lo stesso: perché? Sogni
impregnati di incubi o un mondo infantile che devo scoprire al più presto
possibile?”

La pioggia, dopo una lunga
attesa, adesso prendeva l’aspetto di un disastro annunciato; con il sorgere del
sole sull’asfalto bagnato, accese dei bastoncini di incenso e disse alla folla:

– Io posso attirare
l’attenzione delle stelle, io posso indovinare il futuro, resuscitare il
passato, ritrovare le anime perdute, mangiare fuoco e camminare sul filo del
rasoio: io sono il mago di Berlino.

L’espressione latente si
poneva a masticare ogni parola, montarla e smontarla affinché prendesse
l’aspetto bizzarro degli spettatori ipnotizzati.

 Alle nove in punto le porte si spalancarono e il teatro
improvvisato nella fabbrica dove Ismet si era fatto le ossa quando era giovane
fu risucchiato da una fiumana di gente, seminando il caos nella platea. C’erano
perfino cani randagi che, terrorizzati dal baccano, cercavano di intrufolarsi
tra le panchine scassate. Dyab, con la morte nel cuore, dovette alzare il
sipario prima del tempo previsto. Sul podio c’era Maddalena che, dopo aver
attraversato il cerchio magico saltellando come una cerbiatta, prese il suo
posto accanto al santone, il quale con un gesto solenne, diede il via alla
festa di Min12. La parata ebbe inizio con
la sfilata dell’esercito polare, seguito dal popolo atomico, i robot parlanti
con i loro domatori, ex faccendieri e gaglioffi incappucciati, piloti di
navicelle e carri volanti e, infine, venne il turno di Dyab l’africano che, una
volta, quando esisteva ancora la savana, faceva piangere gli elefanti e si
accattivava i felini con il suo flauto ricavato da un ramo di baobab.

– Chi.sei.tu? – gli chiese
la voce computerizzata di una ragazza del Kazachestan.

– Sono un mago ambulante.

La tribuna scoppiò in risate
dirompenti: non avevano mai sentito una specie simile, ma il santone, andando a
ritroso nei secoli, si rammentò d’aver sentito parlare – molto tempo prima che
abbattessero la porta di Brandeburgo – di un popolo che proveniva dalla
pattumiera del pianeta post-industriale e che, come mestiere, faceva ballare i
galli su delle piastre scottanti e vendeva statuette di falso avorio e
fermacarte di pietre vulcaniche.

– Ragazzo, io non ti conosco
– esclamò il santone osservando la sua faccia impressa su un tratto di nuvole
che colavano lacrime velenose sulla terra. – Non sei spuntato dall’alba, perché
essa non esiste. Non potresti essere caduto dal cielo, perché la nebbia
contaminata ti avrebbe divorato. Allora, vuoi raccontarci chi sei tu in realtà?

Al termine dell’ultima
frase, una ragnatela di fulmini si schiantò contro le pareti del palazzo
attiguo dove vagavano immagini di cavalieri annoiati.

– Sono l’arabo pazzo13 – rispose Dyab. – Mi sono
perso durante il percorso della storia. Ero convinto di avere un fantasma dentro
di me che mi logorava e, peggio ancora, non riuscivo a correlare le parole alla
passione; in seguito ho perso la partita, dannazione… mi mancava solo l’auto e
un cane per completare il nucleo familiare. Del resto, ero perfettamente in
regola: facevo il volontario, pagavo l’I.N.P.S., scommettevo sul Totocalcio e
la domenica, mentre lavavo i piatti del pranzo, riempivo la casa di allegria
cantando: “Avevo una casetta piccolina in Canadà”. Tutti approvavano la mia
nostalgia.

La folla, tra esplosioni di
piacere intenso fino al delirio, dimostrò una complicità insolita, forse perché
qualcuno, in un momento di follia, aveva dichiarato che avrebbe svelato la
parte nera e inconfessabile della sua anima. Tuttavia, Dyab era così
sprofondato nella sua disperazione che notò a malapena il mutamento attorno
agli acri di terra incolta e il calesse trainato da quattro morelli che
calpestavano rumorosamente le piante folte e intricate.

– Signore, anche questo si è
avverato, ecco l’estensore della lettera – disse il soldato indicando Dyab con
il dito. I suoi bicipiti possenti e la sua mascella quadrata davano la
sensazione di chi è pronto ad uccidere.

– Mandatela in onda – ordinò
il santone ansioso. Dopo un attimo, il testo della lettera apparve sullo
schermo gigante:

 

Cara Maddalena,

in un tempo remoto si
aprirono le cataratte del cielo. Dall’alto spiccò il volo un angelo. La gente
aveva pensato che la terra stesse per essere affondata come un vecchio galeone,
perché all’epoca non sapevano nemmeno cosa fossero le risonanze flebili di un
lamento, ma, come d’incanto, una fonte d’amore aveva messo nei loro sentimenti
le più eccitanti prove a qualunque ragione contraria che avessero avuto verso
il mondo. Dopo quel giorno, si seppe che un re può commettere peccati come una
prostituta, e l’uomo non sarà più come prima, scoprendo che le sue inquietudini
non hanno radici né in terra né in cielo, bensì dentro di sé.

 

– Sono frasi curiose, ma nel
loro contesto non sono altro che infatuazione – commentò un robot parlante
senza dare retta ai tentativi del suo domatore per azzittirlo.

Intanto, un vecchio il cui
viso appariva gonfio sotto i riflettori abbaglianti provò a voce alta una
beffarda soddisfazione, dando al santone lo spunto per un giudizio appropriato:
– È un indicibile abbandono alla sofferenza.

Nella platea regnò un attimo
di silenzio. Il santone, cogliendo l’occasione 
per riordinare le idee, pensò di liquidare Dyab come un trascurabile
seccatore, ma era evidente che avrebbe perso una mossa tattica. Perciò decise
di scegliere un metodo che, a detta di esperti in materia, aveva funzionato
benissimo ai tempi dei grandi conquistatori, cioè incastrarlo con le sue stesse
parole.

– Dyab, che mi dici su
questo: inacidire tutto il latte del mondo, o camminare sbronzo su sacchetti
consumati e contorti?

Il santone l’aveva colto
alla sprovvista, ma egli, gettando un’occhiata all’orda cosmopolita brulicante
e in attesa, perché da anni non assisteva in arena a scene di leoni che
sbranavano “delinquenti”, capì il trucco e quindi non si dette per vinto, anzi,
riacquistò più fiducia in sé.

– Sono certo – rispose Dyab
con un tono esplicitamente sarcastico – che se non esiste il fatto non ci può
essere neppure l’indizio. D’altronde, vorrei chiarire subito che non ho
l’abitudine di sentirmi reo per soddisfare l’esigenza degli altri. Se il mondo
vi rimarrà per sempre indecifrabile e se non riuscirete mai a percepire la
realtà che vi circonda, allora sappiate che la mano della verità è molto lunga
e che spesso si piega verso la giustizia. Signori, viste le vostre norme
precedenti, in particolar modo quella che impone di non mettere il carro
davanti ai buoi, scelgo la seconda alternativa e dichiaro che già mi sentivo a
mio agio al trivio della strada, mentre sorseggiavo l’ultima birra che mi era
rimasta in casa.

Non ci fu bisogno di
proiettare il disagio per capire ciò che turbinava nella testa del santone
guarnita di fiocchi colorati. L’attacco ormai era diventato frontale.

– E che mi dici di una rosa
appannata di polvere? Di una donna inerpicata sul tetto di una casa: suppongo
che non avesse l’intenzione di offrire una superba prestazione?!

Davanti a queste analogie
trasversali e parallele, Dyab avvertì l’odore di barbecue che pervadeva l’aria:
era una bella giornata di primavera. Maddalena, scalza e con il vestito
bagnato, innaffiava i fiori del giardinetto e si lasciava accarezzare dai
ramoscelli degli alberi mentre lui, immobile, stentava a ricostruire almeno un
desiderio realizzabile. In quel momento avrebbe dato l’anima per sentire i
sussurri della sua ombra. Era certo che, all’imbrunire, avrebbe intrapreso il
viaggio nel mare delle stelle e si sarebbe fermato lassù in alto, accanto
all’immensa Balena, la splendente Orsa Maggiore e il glorioso Leone. Ma la
scena fu travolgente: ad un tratto Dyab crollò sull’erba con gli occhi pieni di
rimpianto e saudade. Allora Maddalena, malgrado le proteste tempestive degli
spettatori, corse a sorreggerlo e, come se non bastasse, sedette per terra e
posò la sua testa sul suo petto, offrendogli il suo seno che sapeva del gusto
di melograno.

– Quando ci siamo incontrati
– disse Dyab – l’avevo detto che ero qui per conseguire un obiettivo
importante, cioè affrontare la vita senza scompormi, ma scelsi un luogo in cui
il tempo sembrava essersi fermato. Ripensandoci adesso, vorrei avere una
memoria selettiva per cancellare i momenti che detestavo e riaffermare gli
eventi che avevano segnato la nostra vita con attimi di intensa felicità. A
dire il vero, non si può contrastare sempre il nomadismo del tempo, né
tantomeno raggiungere tutto ciò che ci si prefigge. Questo che vi circonda non
è altro che l’ambiguità della vostra fantasia viscida e ripugnante. È inutile
negarlo, una volta anche lei vendeva forti emozioni offrendo il suo corpo
flagellato dalla malattia, tutto nell’ambito di uno squallido groviglio di
disprezzo e ripudio che avete creato attorno a lei. Ecco perché quel tentativo
di suicidio non ha avuto luogo. Vi sentite delusi, lo so, appunto, ed è
proprio per questo che provo pietà verso di voi.

– Sì, è veramente così –
intervenne uno spettatore ostentatamente. – Tu, che ci stai predicando la
musica delle stelle, puoi spiegarci perché mai dovresti essere il prescelto per
dominare il cuore di una fanciulla estranea ai tuoi valori?

“Intuire il domani?! È già
doloroso assistere alla nascita e alla morte di un solo giorno.”

Dyab, spigliato nei modi, fu
come l’eco condannato a non poter più parlare per primo. Ascoltando la sua
voce, ebbe il desiderio di innalzare preghiere ai venti frementi come faceva in
passato nel deserto.

– Voglio sorpassare tutte le
epoche che ho conosciuto, leggere i misteri degli anni precedenti. Non capisco
perché il naufrago si trova ancora in mezzo alla tempesta: forse non avrei
dovuto estirparlo con la forza dal suo oceano inquieto, dovevo concedergli
almeno un’occasione perché provasse a salvarsi da solo. Devo ammetterlo, ho
infranto la sacra legge della natura.

– Sappiamo cosa stai
pensando – disse il santone. – Ciò che conta non è né il passato né il futuro
e, in un certo senso, nemmeno il presente, ma piuttosto tutto quello che si può
accogliere nell’“io” interiore. Solo in questo modo potremo ottenere
l’illuminazione.

Lucia, che piangeva a
comando, era circondata da donne avvolte da un velo nero, giunte appositamente
dalla Sicilia per rianimare il lutto; all’improvviso, volle che il dolore fosse
più trasparente e, sfidando l’intuizione della folla, indicò col dito i volti
che le passavano in mente: il primo fu Martin il meccanico. Poi, la delusione
totale con quel mascalzone di Fredrick il figlio del contabile e, infine, disse
sì ad Ismet il turco. In quell’occasione, tra un tripudio di canti e un
miscuglio di balli che andavano dalla tarantella al ciftatelli,14 da halay15 alle villanelle, aveva dato
il suo consenso in tre lingue “sì, evet, ja” davanti ad un simulacro di altare
fatto con assi di muratura.

– Raccontagli della gita al
mulino di pietra – disse Lucia – ti ricordi? In quella domenica quando abbiamo
comprato damigiane per conservare il grano.

Esortato da lei, Dyab fece
una rapida escursione nella memoria per ripescare i frammenti di un ricordo
importuno. Con gli occhi chiusi, incominciò a costruire il ritratto di quel
giorno:

– Pic nic sull’erba… il
friggizanzare portatile… il televisorino a batteria… il coniglio in umido… sì…
perbacco… sì… la lasagna tiepida che mi dava la forza della convinzione.

– È la separazione
innaturale tra spirito e corpo – commentò il santone. – Una volta, il rimedio
di questo disagio s’importava dal Madagascar.

– Signore, quest’isola non
esiste più – gli sussurrò il suo consigliere.

– Già, in tal caso dobbiamo
invocare l’ingenuità dello stato selvaggio del paziente. Dyab, hai detto d’aver
sognato una ragazza che avanzava sulla riva del Nilo appoggiando un’anfora
sull’anca, non è vero?

– Sissignore, a Gotham City16. Era allegra e sembrava una
falena impazzita nel buio.

Il santone, fermandosi
sull’estremità di un altro possibile filo di sconvenienza, fissò a lungo la
figura magra ed allungata e gli chiese:

– Si può supporre che si
trattasse di Maddalena?

Dyab ebbe la sensazione
quasi certa che non tutti vedono così scuro e se si aspetta così tanto per
sfornare i sogni, allora si può anche trattenerli freschi, trovando, chissà
dove, la formula magica. Intanto la folla, stando alle logiche che le passavano
in testa, avrebbe scommesso che la risposta sarebbe stata immancabilmente: “Sì,
si trattava proprio di lei”.  Lui,
invece, volontariamente mandò all’aria la loro previsione.

– No – rispose – Maddalena,
in un’occasione simile, aveva indosso un abito vittoriano e teneva una
bacinella sulla testa.

Sbarazzatosi di questo peso,
si sentì sollevato, ma il suo entusiasmo durò pochi secondi. Un soldato sorto
dal nulla annunciò con fragore di aver trovato nella sporta di Dyab il disegno
della sua visione. Un sorriso vago gli sfiorò le labbra: – È finita – disse con
un nodo alla gola.

Guardò Maddalena per
l’ultima volta, poi spostò gli occhi sul santone che leggeva il verdetto a voce
alta: – È colpevole, perché aveva visto in anticipo la morte di Maddalena.

Una trombetta suonò nella
valle seminando il ghiaccio nel suo cuore. “Così all’andata” pensò “come sarà
al ritorno?”

Era finito tra gli agenti
speciali, i quali, per proteggerlo dalla gente, lo spinsero in un campo vicino.
A Maddalena, mentre batteva le sue ali posticce a ridosso delle nuvole, sfuggì
uno sguardo. Lo vide giù, teneva la testa riparata contro una trave, e i colori
del paesaggio coprivano il fondo del giorno. Ad un tratto le sembrò di sentire
la sua voce nei canti che scorrevano lungo il fiume.

 

 

3. Il viaggio

 

Mi chiamo Dyab, Dibo per gli
amici, “Maroch” per Maddalena nei giorni in cui se la prendeva con me. Il
nostro ritratto è comune; da tempo cercano di convincerci che la miseria è un
vizio e che prima di profferire desideri dobbiamo stare attenti, perché certe
invocazioni mistiche sono considerate come giochi assurdi inventati per
impiegare l’ozio delle persone solitarie. A proposito, ci definiscono solitarie
anche quando ci troviamo in gruppo. Credo che abbiano ragione, visto che non
troviamo mai né il modo né la voglia di mascherare la faccia con un bel
sorriso. Perfino quando beviamo per renderci più allegri ci mettiamo a
litigare; poi, per esorcizzare la rabbia degli anni, lasciamo un mucchio di
lacrime sui marciapiedi. Non saprei dire il motivo di questo smarrimento:
qualcuno sostiene che il nostro è un richiamo eterno per salvaguardarci
dall’effetto devastante del luogo in cui siamo. Può essere vero ma, secondo me,
almeno di questo sono certo, per capire l’amore e la morte bisogna essere puri.
Io, purtroppo, quando la morte è avvenuta ero già più scaltro di un ermellino e
di una volpe messi insieme. Poi, a causa dei mille problemi che dovevo
affrontare tutti i santi giorni, avevo imparato pure a fare il cattivo ma,
ciononostante, non avevo mai smesso di ricercare sentimenti che sanno
dell’odore di pioggia, passioni folgoranti o qualsiasi cosa capace di alleviare
il vuoto di una vita priva di sogni.

Spesso, quando mi trovo a
casa oppure al lavoro, vedo il suo volto passare come un convoglio stanco che si
trascina ansimante sulle rotaie, la sento mentre mi si aggrappa al collo e si
stringe a me. La contemplo nel silenzio lento del bagliore ferito, stesa sul
letto umido delle foglie. Tra le dita era cresciuta l’erba, e il ruscello
ballante, da quando pronunciò il suo nome, aveva dimenticato per sempre la sua
sete segreta perché Maddalena, nel furore dell’esistenza, era una parentesi
rosea che non si può dimenticare facilmente. Quando eravamo insieme, mi
chiedeva spesso di non essere troppo rigido e di adattarmi meglio alla velocità
dei sentimenti.  “Altrimenti perderesti
il treno in cui viaggia il mio cuore!” diceva scherzosamente, ma a me, non
avendo praticato alcuna scienza per apprendere acutezza, sembrava impossibile
andare più in là, dove lei era arrivata. In seguito la nostra relazione si
tramutò in una performance allucinatoria in cui mi contorcevo mimando gli
spasmi entusiastici, sapendo anche che, prima o poi, avrei dovuto sguainare la
spada e gridare: “Se ci sei batti un colpo, non ce la faccio più!”

Come il volto incerto della
mia fortuna, vidi apparire un viso appiccicato al vetro. Per un attimo si
limitò a curiosare con occhiate sospette dentro al mio rifugio, ovviamente per
accertarsi che non mi stavo bucando o, nel peggiore dei casi, che non fossi un
killer spietato che aspettava lì per intrappolare la sua prossima vittima; poi,
seccata dall’attesa, le sfuggì un grido acuto che accompagnò con dei colpi
violenti sulle pareti della cabina telefonica. Infine, disperata per la mia
ostinazione, allungò il collo tra i battenti, lasciando filtrare uno spiffero
di aria gelida, e disse: “Scusi se la interrompo, ma se lei vuole pregare le
posso assicurare che Dio l’ascolterà anche fuori! Adesso, gentilmente, vuole
sgomberare il posto? Devo fare una telefonata urgente, ha capito?” Avevo
capito, ma non avevo la minima intenzione di uscire. Rimanemmo con gli sguardi
incrociati per un po’ di tempo, poi lei lo abbassò e sbirciò la mia camicia
estiva e, allo stesso modo, la strada offuscata dove il freddo faceva sentire
le sue minacce con soffiate pungenti di vento polare. Davanti a questa
situazione insolita, si rassegnò all’idea di cacciarmi via, anzi, esibì un
sorriso subdolo e un po’ maligno come se inviasse confidenze e certi amplessi
telepatici. Intanto, con massima cautela, infilò il corpo nell’angolo opposto
della cabina. Il suo calore tiepido, mischiato ad un profumo che stuzzicò il
mio istinto, avevano cambiato positivamente l’atmosfera. Mi rispose con un
accenno di gratitudine. Avevo bisogno di una presenza umana. Da due giorni non
parlavo con nessuno e il mio cervello segnalava un aumento incessante di crampi
che devastavano il mio stomaco. Notai, mentre alzava la cornetta, le sue mani
scarne e minute. Su un dito aveva un opale17 montato su un anello di platino, e al collo pendeva
un berillo18 incastonato in un ciondolo
di metallo. Questi indizi mi avevano tranquillizzato, perché in quel mare di
incertezza non avevo altra scelta che affidarmi alla guida delle gemme! La
conversazione al telefono era abbastanza animata. Ogni tanto smorzava le frasi
lanciando nell’aria smorfie di irritazione, assumendo espressioni tese, in
quanto suscettibili ed ansiose. Qualche mese dopo mi chiese che aspetto avevamo
allora, ed io le risposi che assomigliavamo, più o meno, ad una coppia di
cocorite. Il paragone la divertì talmente tanto che ogni volta che lo ripetevo,
scoppiava dalle risate.

Per ristabilire i ritmi e
ripristinare l’armonia, la proposta di Maddalena in merito prevalse su ogni
logica perversa. La vasca mobile piena di petali colorati immersi in acqua
pura, sotto i raggi della luna, era sistemata nella terrazza tra alberi di mele
ballerina e pesche bonanza. Il panorama botanico lasciava intravedere un quadro
corredato da simboli che rappresentavano i sette stadi attraverso i quali
dovevamo raggiungere la conoscenza dei sacri misteri. Alle nove in punto
Maddalena intonò la melodia mistica dando via libera ai nuovi tempi dove
avrebbero avuto luogo i nostri primi incontri con la gloria mancata e, quindi,
lo sconvolgimento totale nel freddo glaciale di una verità insostenibile.

– Il male suscita clamore –
disse all’improvviso mentre il suo sguardo limpido tramontava dietro un velo di
pensieri scuri.

– Il male? Stai tranquilla,
io lo posso dominare. Dammi un po’ di tempo, vedrai che sono capace di limare
le punte più spigolose di ogni forma di malvagità.

Il suo viso docile assunse
il tipico aspetto diffidente, come se volesse assicurarsi per l’ennesima volta
di non avere al posto del cervello un’orata lessa!

– E la mia vita lacerata? Il
vuoto che mi sta soffocando? Quale elisir potrebbe rimediare?

Io insistetti ancora: –
Ecco, qui dentro c’è una sostanza magica, la polvere di agata,19 credo possa aiutarti. Il
suo effetto è impareggiabile – le dissi mostrandole il sacchettino che tenevo
appeso al collo con un filo di cuoio, ma lei evitò di guardarmi, non voleva che
notassi le lacrime impietrite sulle gote, né tantomeno la repulsione che
l’assaliva in quel momento.

– Dobbiamo confrontarci con
gli altri – disse – anche quando non ne sentiamo la necessità, è d’obbligo per
chi nasce in una metropoli. E tu, che vieni da una terra in cui il silenzio è
un motto, vuoi competere in questa giungla?

– Sì, voglio provare una
vampata di calore e subito dopo la sensazione di un cubetto di ghiaccio lungo
la schiena.

– Come un agente di borsa? –
disse roteando gli occhi. – Un banchiere o magari un uomo d’affari dopo aver
firmato un contratto di sei cifre? Beh, l’ho provato anch’io parecchie volte…
quando mi gettavano dei soldi sul letto sporco e sgualcito o quando mi sentivo
persa fino alla follia dietro le auto che sfrecciavano a tutta velocità,
regalandomi un sorriso di jena.

Non seppi rispondere, ero
diventato un perfetto imbranato che non si sapeva reggere davanti al primo
incontro d’amore. Capii d’essere timido, me lo confermò lei più tardi in
presenza dei suoi genitori. Da quel momento persi definitivamente il carattere
passionale e impulsivo, il ché mi costrinse a limitare la mia area di difesa ad
una superficie arida dove imperversavano furiose tempeste di sabbia.

 

– È tornato al deserto –
disse Ismet. – Io la conosco bene questa gente. Il deserto se lo portano
dovunque vanno.

– Chiedigli se mangiano la
pasta all’amatriciana – chiese Lucia dalla cucina. A tavola, la pasta fu servita
in due recipienti: con e senza pancetta.

– Ha lavorato per cinque
anni un salumificio, guadagnava bene, ma figuriamoci se i suoi compaesani lo
avrebbero lasciato in pace. Pensa cosa hanno combinato quei farabutti:
l’avevano soprannominato Domuz Ismet,20 ti pare giusto? – si lamentò Lucia.

– Sus hanem21 – la rimproverò Ismet
sdegnato.

– Che c’è da vergognarsi?
Non è forse per questo che sei rimasto disoccupato?

Ismet, con il sospiro di chi
si sente assediato, allungò la mano e prese dalla mensola un piccolo barattolo,
si versò nel pugno una manciata di granelli olivastri e li gettò in bocca.

– Devo masticare semi di
anice per cacciare l’insonnia – disse avviandosi verso la camera da letto.
Purtroppo Lucia non gradì la sua insinuazione che la indicava come la causa del
suo malessere. Gli fece sentire la sua protesta prima che chiudesse la porta:

 – E io che devo dire? A forza di discutere con te ho perso la
voce. Adesso, per tonificare le corde vocali, sono costretta a sottopormi a
continui gargarismi con decotto di fiordalisi e di sambuco.

Nel buio polveroso della
notte, io e Maddalena, armati di pendolini, riuscimmo a indovinare i blocchi di
energia che oscuravano i cervelli dei suoi genitori. Peraltro, scoprimmo che
avevano Urano in casa, il che significava un’instabilità pesante per loro e per
chi gli stava accanto. E, ancora più pericolosa, una Venere in Pesci,
totalmente negativa. Successivamente la giornata fu tetra come gli eventi
accaduti in seguito.

– Le stelle vi invitano a
cambiare aspetto e annunciano un periodo tranquillo in cui vi sarà possibile
far emergere la vostra vera personalità – comunicò loro Maddalena sorridendo.

Si erano appena svegliati e
sognavano ancora ad occhi aperti davanti ai fornelli.

– Stavamo così bene – si
lamentò Ismet scuotendo la testa con aria incredula. – Se per sopravvivere
dovessi cambiare personalità, allora diventerei davvero spietato.

Non fu facile persuaderli
circa la serietà delle nostre parole, perché proprio in quel momento, prima
ancora di tirare un sospiro di sollievo, le stelle ci avevano tradito. Lucia,
mentre guardava per caso dalla finestra, notò la scomparsa dell’auto. Corremmo
tutti in strada, ma ci fu poco da fare: i ladri l’avevano rubata durante la
notte. Dopo meno di mezz’ora, Ismet cadde dalla scala mentre cambiava la
lampadina dello sgabuzzino. Per completare la scena, un incendio divorò
parzialmente il cartello eretto all’angolo del crocevia accanto ai mucchi di
spazzatura che camion e furgoni raccoglievano nella zona tra la strada che
conduce in città e la tangenziale est dove, appunto, spunta come una regina
triste la loro casa. Giungemmo sul posto immediatamente. Per fortuna la scritta
era ancora visibile:

 

Il destino non è
ineluttabilmente scritto, potete modificarlo. Richiami d’amore a qualsiasi
distanza, chiaroveggenza, eliminazione di fatture e malefici per sette
generazione. Amuleti contro malocchio.

 

– Hai visto?– disse Ismet a
cena. – Il nostro richiamo è sacro, il fuoco del demone non ha potuto
cancellarlo.

Purtroppo, l’ottimismo di
Ismet sembrava come quello di chi sta aggrappato alla stessa àncora insieme al
diavolo. Il giorno dopo, infatti, un esercito di vigili urbani e operai a capo
di una ruspa fecero del luogo piazza pulita.

– Costruiremo un complesso
residenziale – rispose un assessore del Comune alla domanda di Lucia. – Il
progetto si estenderà fino a quelle baracche. 

Con “baracche” intendeva
comprendere anche la loro abitazione. Ci vollero molte notti perché Ismet
accettasse la logica dell’espansione urbanistica. Le sue nenie lamentose, erano
come sospiri che venivano dalle viscere della terra e si sentivano fino ai più
alti gradini del trono.

– C’è sempre una ragione per
sperare.

Le parole di Maddalena
avevano seminato un barlume di gioia negli occhi, rafforzando la decisione che
si aggirava nell’aria già da molto tempo: al sud avremmo trovato maggiore
possibilità di migliorare il livello della nostra vita.

Tutti eravamo d’accordo su
questa conclusione, ma la miseria spesso ti trae in inganno. Ciò che ti si
svela alla notte, dai sogni magnifici, essa te lo sbatte in faccia alla luce
del giorno senza tanti complimenti.

– Ecco il piano – disse
Ismet – Ormai non abbiamo più scelta, è ora di decidere. Ci trasferiremo a sud.
Lì avremo più di un vantaggio. Innanzi tutto quella zona non è molto
contaminata dalla tecnologia, perciò, secondo i miei calcoli, vi è più spazio
per la scienza dell’occulto. D’altronde ho in mente un altro progetto, e cioè
mettere in piedi uno stabilimento per l’allevamento di struzzi. Una
combinazione strana, non è vero? D’accordo, ne sono al corrente, approvo in
pieno la vostra esclamazione, ma un legame ci dovrebbe essere e prima o poi lo
scopriremo, ve lo assicuro.

 

Si può sempre interpretare
il gesto della gazza che aveva rubato il talismano di rame luccicante come un
gesto piuttosto naturale. Non potevamo pretendere che le gazze cambiassero
abitudine da un giorno all’altro, ma come si può spiegare l’appassimento di un
fiore che fino a pochi minuti fa era così fresco e tenero da fare invidia alle
sirene? Ciò che è incredibile, una volta che prende il suo aspetto reale ti
lascerà perplesso per tutta la vita. Noi, senza esagerare, abbiamo sospirato
ogni limite prevedibile: siamo rimasti scioccati. Così la stagione della
solitudine incominciò presto e il nostro progetto fu rimandato. In pochi giorni
la malattia di Maddalena si aggravò, precipitandola nell’abisso di una
degradazione vertiginosa. Era sofferente, dolorante, ma non affranta. Emanava
una serenità d’animo eccezionale. Lì, dal suo letto, osservava amabilmente una
pianta selvatica con dei fiori gialli che spuntava dal torbido scenario tra le
cataste di assi marce. L’albero di Natale di plastica era coperto leggermente
da un cumulo di calcinacci e detriti e alcuni mattoni spezzati. Ad un certo
punto, i suoi occhi diventarono così limpidi da creare un netto contrasto con
il viso pallido. Le sfiorai con una carezza le mani. Dopo un fremito ansimante
mormorò con fatica, come se parlasse a se stessa: – Abbracciami!

Sentii il suo alito tiepido
avvolgermi il collo, poi scivolò la testa lentamente e la spinse contro il mio
petto. Non parlò più, ma dai suoi movimenti convulsi capii che quel corpo
ridotto ad una piaga di ossa e pelle cercava disperatamente il calore della
vita. Non mi ricordo per quanto tempo siamo rimasti stretti. Certamente, in
quegli attimi indimenticabili eravamo fuori da ogni schema di luogo e di tempo.
Tra lacrime salate che bagnavano le nostre labbra, ciascuno aveva esplorato
meticolosamente il corpo dell’altro, finché i gemiti del piacere non soffocarono
i singhiozzi della rabbia. Al levare del sole, sollevò un sospiro profondo e si
staccò da me.

 

E’zraîl, di solito, appare
solamente alle persone che deve accompagnare alla loro destinazione finale, ma
Ismet sosteneva che anche i cani possono intuire la sua presenza. Infatti il
nostro cane Miki, per dispetto o perché l’aveva visto veramente, si mise ad
abbaiare con intervalli di ululati malinconici.

– Sei presente tra noi? –
chiesi fissando il soffitto.

– Sì, sono qui – rispose
l’angelo della morte.

– Abbi cura di lei – gli
dissi e versai la polvere d’agata sull’abito bianco di Maddalena.

Non c’era proprio di che
esultare. La partenza all’alba, un’immagine che esprimeva la forza e la
bellezza della vita, si intrecciò con il rumore assordante dei cingoli di un
bulldozer e le colonne di polvere che salivano così in alto da sembrare che
trafiggessero le nuvole. Il camper stracolmo del nostro ciarpame, dopo giorni
di viaggio e itinerari sconosciuti, si dovette fermare dinanzi ad una scena che
faceva ricordare le città medievali dopo il passaggio dell’esercito nemico.

–Ma nooo…, vedrai che
abbiamo sbagliato strada– mi disse Ismet indicando le palle di fuoco disperse
nella pianura.

– Credo che siamo finiti in
Arabia! – gli risposi stordito.

– È vero, quelli là sono
giacimenti di petrolio – affermò Lucia senza nascondere la sua delusione e si
interrogò: – E adesso, che facciamo?

– Niente: senza volerlo ci
siamo ritrovati in mezzo alla ricchezza – concluse Ismet soddisfatto.

Giunti in zona, rimanemmo a
bocca aperta dalla sorpresa.

– Sono lucciole!! – esclamò
Lucia, anticipando un’identica definizione da parte nostra.

Sui due lati della strada
c’erano gruppi di due, tre donne, tutte con gli occhi puntati sul camper e sui
suoi ospiti, chiaramente poco desiderati. Ismet, dopo un rapido sopralluogo,
disse indicando un posto sotto il ponte ferroviario: – Ci accampiamo qui.

Poi, rivolgendo le parole al
cielo: – È la sua volontà, sia benedetto il suo nome, non a caso, ci  ha condotti in questo luogo.

Mi improvvisai cartomante.
La sera, prima che le ragazze incominciassero a lavorare, passavano da noi per
farsi leggere il futuro. Dal camper-laboratorio le voci di Ismet e Lucia mentre
consacravano croci Ankh e talismani Sator le divertiva moltissimo: – Osiride…  signore del sole…  in nome di Agiel…  io
chiedo allo spirito Zazel…

Sopra di me, nel buio che
galleggiava su uno strato sottile di nebbia, non si vedeva nemmeno una stella.

           

Note

 

1 Abu Bakr,
Omar, Othman, Alì.

2 I santi.

3 Edificio di
forma cubica costruito in pietra grigia, che si eleva all’incirca al centro
della Mecca. Nell’angolo orientale della Kàba è incastonata la Pietra Nera.
Secondo il Corano, le fondamenta della Kàba furono poste da Abramo.

4 Arcangelo
della Resurrezione nella religione islamica.

5 Le prime
parole della Shahâda, il “credo” islamico: “Non c’è altro Dio che Allah.”

6 Termine
sanscrito che significa letteralmente “strumento del pensiero” e quindi formula
sacra.

7 I centri
occulti della fisiologia umana.

8 “Noi
meditiamo sulla suprema luce del divino sole, possa essa illuminare le nostre
menti.”

9 Uno dei
quattro fiumi della tradizione biblica: il Fisone, il Tigri, l’Eufrate.

10 “Signore,
vieni”, invocazione dei primi cristiani che si riferiva alla speranza
dell’imminente “seconda venuta” del Cristo di parusia.

11 In turco
“occhio del demone”.

12 Divinità
egizia, protettore delle carovane.

13 Abdul al
Halzred, protagonista del romanzo Il Necronomicon di H.P. Lovecraft. Il
personaggio è ispirato ai racconti delle Mille e una notte. L’arabo
pazzo affermava di aver visto un’antica città di colonne chiamata Iren, fra le
cui rovine avrebbe trovato gli annali di una razza anteriore a quella
dell’attuale umanità.

14 e 15 Balli
folkloristici turchi.

16 La città di
Batman.

17 In Oriente
è un famoso emblema di fedeltà.

18 Secondo gli
astrologi, è la pietra dell’amore.

19 Gli antichi
arabi dicevano che l’agata ingerita in polvere dalle donne potesse ridar loro
l’innocenza perduta.

20 In turco
“Ismet il porco”.

21 In turco
“Zitta moglie”.

 

 

 


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