La Stella del Nord
Per la prima volta, nelle
sue notti insonni, Sara riposa nella concavità di un luogo apparentemente
disabitato, tranquillo. Vive senza passato o ciò che potrebbe essere descritto
come una catena di eventi remoti, che già se ne era andata con l’immersione
fisica di quel corpo femminile nelle acque fugaci che bagnano i suoi occhi, il
polso, la pancia arrotondata, le labbra semiaperte. Da quando aveva iniziato a
preparare i pochi oggetti che si sarebbe portata in quel viaggio senza ritorno,
una cospicua schiera di amici, parenti o semplici animali domestici, si stava
avvicinando al suo corpo vagante, riposato,
fluttuante sopra sé stesso, e le stavano dando un ultimo breve addio.
Non è facile raccontare la
storia di Sara, e ciò che risulta ancora più difficile, è riuscierne a
imprimere in caratteri gotici o sulle foglie degli alberi la sintesi. Non si sa
da dove cominciare, quale splendido dettaglio potrebbe servire alla costruzione
di un ritratto di vita anonima che risultasse abbastanza vicino ai suoi sogni,
ai deliri successivi, senza pause, senza niente, a parte lei stessa, Sara.
Lasciamo che sia questa
donna a raccontare quello che può essere raccontato con un certo ordine
cronologico, forse magico, pian piano.
Guardando la Stella del
Nord, tutte le notti, sdraiata sul mio letto, con la finestra aperta, cominciai
a vedere o a pensare strane cose, particolarità che riguardavano me stessa,
Sara, quando ero giovane e inesperta.
Non potevo cadere in nessun
pozzo, non potevo perdermi e non avrei rincorso elucubrazioni mentali che da un
momento all’altro potevano trasformarsi in spaventose allucinazioni notturne,
no. La Stella del Nord mi difendeva da qualsiasi pericolo infame mi fosse
capitato attorno, e il sonno era il mio miglior rifugio, inestimabile compagno,
grande protettore. Già in quell’epoca che potrebbe appartenere ad un passato
prossimo, ma che continua a ripetersi, la mia esistenza fisica cessava di
esistere: mi sentivo morta, morta in vita, presa da un perfetto, ondeggiante
respiro che si attuava al di là di qualsiasi comando arbitrario, fisico o
divino che fosse. In quell’epoca, traboccante di sana gioventù, ancora non
avevo preso coscienza del dolore, del peso ambiguo del dolore che prima o poi
invade ognuno, ogni essere. I miei giorni trascorrevano sereni e non sarei mai
stata sorpresa da grandi tragedie che avrebbero potuto perturbarmi durante il
sonno; la terrestre paura del buio, la tristezza provocata dalla caduta della
notte mi erano familiari, non arrivavano mai a torturarmi oltre la presenza del
buio che si stava installando definitivamente nelle ombre che la fiamma di una
candela faceva brillare tra le bianche pareti della mia camera. Non stavo
nemmeno vivendo una esperienza sovrannaturale, un’estasi perpetua che mi
avrebbe potuto espellere dal di dentro del mio corpo: la linfa di una strana
sapienza non sarebbe mai fluita attraverso le mie vene, non così, credo.
La qualità, il gusto di una
luce impropria, certamente non mi avrebbe velato gli occhi per impedirmi di
distinguere il giorno dalla notte.
Sarei caduta in un’onda
globale che mi avrebbe impedito di dormire, o almeno mi consegnavo di buon
grado, per tutto il resto della notte, a una specie di trance propiziatoria,
apparentemente del tutto piacevole: era come se mi mettessero dentro una grande
sfera girevole e da lì potessi vedere immagini di altri mondi, o i confini di
terre lontane che avrei toccato per mezzo di una perpetua trasposizione. Non
chiedetemi in che modo: la mia famiglia, i miei amici avrebbero fatto uso di un
sistema matematico-lirico finché non risultasse scritto su un quaderno
essenzialmente mentale il risultato di questo mio conto forse emotivo: il
numero di notti insonni in cui cado senza imbarazzare i presenti – neanche gli
animali domestici che mi restano vicino – e comincio a fluttuare tra le pareti
bianche della mia camera e con l’ombra del mio corpo spengo le ombre
incandescenti della Stella del Nord, della candela che notte dopo notte mi
aiuta a dormire l’ultimo sonno, l’ultimo transitorio stato tramite il quale mi
perdo, fino a risultare estranea, una Sara anonima. Ho sempre udito sulla bocca
degli altri, delle frasi che non riuscivo a capire, frasi come “lo straniero è
quello strano essere che ci incute paura, che ci obbliga a proteggerci”, ma ora
capisco che è impossibile chiedere una qualche protezione. Nelle notti insonni,
notti che percorro ora in trance, ora come sonnambula o veggente, soltanto il
brillìo della Stella del Nord mi illumina: non possiamo difenderci da ciò che
ancora non conosciamo in noi. L’indefinizione è forse la nostra stella
maggiore, la spada d’argento lanciata sopra il nostro corpo indifeso, sottratto
a preghiere che si potrebbero udire aprendo scatole vuote, segrete: Sara, Sara,
dove stai andando?
Sara, un corpo frammentato
da un’antica spada lunare, rompe il vetro della tua finestra anche se tu hai
sentito o creduto che la totalità degli altri uomini dividesse dei segreti in
silenzio, e scoprisse il mondo attraverso le pagine più belle dei poeti
immortali che parlano per noi, o che con la pura immaginazione fosse possibile
superare spazi invalicabili, distanze geografiche segnate su mappe perdute sul
fondo di qualche oceano celestiale. Senti Sara, grido, sentimi, e lei mi sente;
la tua Torre di Babele ancora dev’essere costruita e forse avrebbe tutta
un’altra funzione; questa torre potrebbe essere sorretta da vegetali
sequestrati di nascosto, dall’interno della tua sfera che poco a poco va
creando l’immagine di una casa aristocratica, lapidaria. L’intero progetto
viene sostenuto da forze contrarie che annullano il potere della vana
centralità, per decadere in dettagli orientalisti, sulle biforcazioni di questa
grande medusa che sostiene la nostra ansia domestica, di anonimo rifugio, Sara.
Intanto, lei sparisce, non
mi sente più. Vaga, si perde. Dopo tante notti così, ricade in un sonno che si
potrebbe dire conciliatorio tra l’ansia
di ciò che non conosce, e ciò che non desidera che conoscere uno spazio
di tempo pressoché superficiale. Siamo il risultato di un incontro aleatorio,
avrebbe detto lei. Continua ancora: l’ambiente scelto per l’incontro è un mondo
miniaturizzato all’interno della sfera che mi fa dormire mentre vedo cose
nuove, nuovi ambienti per chi come me si trova all’improvviso sola in mezzo
alla moltitudine di esiliati nella loro terra.
Sara, dove stai andando?
Verso qualche luogo ancora lontano, senza che questa moltitudine possa
identificare il mio viso di errante sovrana che con pazienza graffia con i
denti il vetro di acquari traboccanti d’acqua glaciale, buona, che bagna le mie
labbra semiaperte, mentre nessun alfabeto potrebbe soffocare le mie grida
notturne, Sara, la visionaria. La vaghezza provocata dall’ambiente circostante
la incita all’eterno spostamento senza che per far ciò debba inserire nella
mente, un supposto processo di nomadismo fuori serie.
Il principio ispiratore di
tale provocazione logistica mantiene, senz’ombra di dubbio, qualcosa di
misterioso, come se una spada d’argento fosse stata conficcata nel profondo del
suo cuore, delle sue passioni. D’ora in avanti, la frontiera è il nostro
destino minore, il punto dove è possibile affogare qualunque malinconia, la
propria, terrestre solitudine.
Acque glaciali bagnano
ancora le sue labbra, quasi fanno dondolare la sfera sulla quale lei si trova e
dice essere una casa comune sotterrata tra vegetali che tra poco racconteranno
al vento la sua storia. Nel seno d’una mancanza di rifugio spaziale,
volontario, massiccio come pietra rotolante, l’ambiente a poco a poco lasciato
indietro, ritorna con una forza inconsueta e l’ansia scaturita nel ritrovare
ciò che fin dall’inizio era stato perso nelle tenebre della memoria spaventa
gli abitanti d’una civiltà atterrita, fondata sulla paura, sulla paura, Sara;
li spaventa e così ti escludono da un perimetro ideale formato soprattutto da
messaggi comportamentali estremamente fluidi, vulnerabili, forse.
Non rimane niente altro che
spostare la tua mirabolante sfera verso un punto dove sia lecito ricordare
passaggi d’una vita stabilita dal potere delle ceneri, dal potere delle ceneri,
Sara.
Dentro la tua camera, nella
bianchezza delle sue pareti ombreggiate, o nell’interno galattico dei tanti
microuniversi che alloggiano carovane di moltitudini omologate o anche
divergenti, potrebbe esistere una congrega di curiosi saudosistas, amanti
dell’incognito, che magari chiederebbero alla nostra Sara quale colore ricopra
le forme naturali del suo pianeta individuale, quale verità si nascondesse
dietro i discorsi riduttivi, quasi perversi, Sara.
Sentimi, e lei mi ascolta
con attenzione: gli ambienti visitati si deformano secondo il tuo desiderio, o
il tuo modo di sistemare forme e colori in mezzo ad un quadrato puramente
allusivo, il ritratto del tuo passato prossimo che consolida questo viaggio
senza ritorno, questo vacuo sperimentare lasciato da un tempo descritto sulle
foglie degli alberi, e una certa memoria affettiva ci allontana dagli esseri
comuni, da quelli che non possiedono nient’altro che una storia unilaterale,
sprovvista di substrati onirici.
E, da qui in poi, loro
avrebbero cominciato ad adorarci in un modo sproporzionato, animati da
feticismi che soppiantano un primitivo valore dedicato a lacrime o risi
talmente antichi quanto il tuo corpo che dentro questa sfera statuaria, li
allontana in silenzio per subito dopo avvicinarli con un genuino, ondeggiante
fischio. Sara inizia un pianto silenzioso.
Le pareti della sua camera
si oscurano, la Stella del Nord non emette sul vetro di quella finestra
l’antico brillìo di sempre. Piange soprattutto perché non ha nulla da perdere,
nulla da conquistare.
La penultima moltitudine
neovisitata da lei si allontana, sente paura di questa donna che sempre più
assomiglia ad una nuvola esile, un corpo ambulante che si radica negli incubi
d’una intera popolazione regnante nello spazio di un quarto di millimetro della
totalità sferica del territorio destinato a Sara, soltanto a lei, a nessun
altro.
Una doppia vita ci allontana
dai comuni mortali, Sara, e lei si ribella al sentire tale cruda, diretta
affermazione da parte di colui che la destina a viaggi inauditi, in completa
solitudine.
Fedele a sé stessa, si
allontana dalle moltitudini, al tempo stesso in cui le avvicina per ripartire
con loro questo inutile senso di disperazione, e queste stesse moltitudini
imprigionate nella sfera destinata a Sara, si commuovono con una certa
imparzialità impossibile per qualsiasi emotivo straniero che non sia lei
stessa, questa donna.
Ora, stampato sul suo volto,
rivela niente altro che un’aria materna, complice. Uno dei principi pitagorici,
ci dice: “Lasciando la terra natale, non voltarti a guardare indietro, le
gorgoni ti seguono.”
Le figlie della terra o
della notte ti girano più vicine di quello che potresti immaginare, Sara.
Torna, abbandona questo
desiderio di conoscere in fondo ogni componente delle moltitudini. Sostieni,
sì, dai capelli, la tua pietra rotolante che ancora segue il vortice delle
piene, bagnata da acque glaciali che poco a poco fossilizzano il disegno della
tua bocca impressa nella durezza della pietra stessa, questa semente consegnata al ritmo del tuo più limpido,
notturno fischio.
Dante è stato sepolto a
Ravenna, e si sentirà perennemente straniero, Sara. Tu vuoi conservare ancora
questa sfera traditrice?
Se è così, apri le scatole
vuote, segrete, dimentica il tuo nome e prosegui: niente di più anonimo che uno
stato di completo anonimato quasi ricreato in tubos de ensaio, o dentro acquari
vuoti che solo ora conservano delle acque glaciali, non pensi?
Se è così, l’esilio sarebbe
il tuo stato perfetto.
Distingui allora se bisogna
rimodellare la tua sfera in modo che tale traslucida concavità dilaghi tra
mondi miniaturizzati, fino a formare un abisso sotterraneo, descritto pian
piano, illuminato dalla Stella del Nord, dai tuoi capelli bianchi, Sara.