La
danza della pioggia
Un caldo così, ad aprile, non c’era mai stato: il display
sull’edicola di fronte al mio cantiere segna 32° C. Vedo annebbiato, segno che
la cappa che protegge la terra si sta rarefacendo.
Non si riesce più a respirare
Oh Dio, sento, che morirò insieme a
tutti gli abitanti di questo mondo!
L’avevano già pronosticato – i guru della scienza – ma non ci
credevo: come fa l’aria a finire se ce n’è tanta? Forse è questo lavoro di
merda che faccio che mi toglie il respiro?
Tutto il giorno a riempire di cemento e di sabbia la betoniera
rombante; a mandare su i secchi con la carrucola manuale. Ho le mani spellate
dall’attrito della corda e piene di piaghe.
Mi sa che vado a casa e mi accendo il ventilatore sistemato, per
ogni evenienza, sul soffitto. Se il mondo deve finire, voglio godermi gli
ultimi momenti come piace a me.
Ah
come si sta bene qui, sdraiato sul mio bel divano arancione,
con le lingue d’aria fresca che mi percorrono il corpo. Vorrei stare così per
sempre, ma sono quasi le sette e se non mi sbrigo non riuscirò a trovare un
negozio aperto, dove comprarmi la cena.
Nella polleria si respira ancora, o forse è solo una sensazione
dovuta alla vista di tutta questa carne fresca e colorata?
L’odioso ragazzino quattordicenne – tutto rapato, tranne una
ciocca sulla fronte e sugli occhiali tondi – mi abbaia: – Dimmi!
Lo trapasso con uno sguardo sprezzante e mi rivolgo alla padrona
ignorandolo:
– Buona sera, vorrei tre polli di quelli in offerta.
La signora, con un cenno del capo, ordina al ragazzino di
servirmi, e questi, con improvviso rispetto, mi chiede:
– Desidera qualcos’altro?
– No, grazie, arrivederci.
Dietro me inizia per “Gandhi” la predica su come bisogna trattare
i clienti. Me la godo. La mia gioia dura un istante, però, giacché appena metto
piede fuori, sento delle grosse gocce bagnarmi la testa. Comincio a inveire
contro Dio e il creato, perché non riuscirò ad arrivare a casa in tempo per
ritirare i panni. Ma di colpo smette completamente di piovere, e allora
subentra il panico: se non piove non si rinfrescherà l’aria, non riusciremo a
respirare e moriremo. È in quel momento che affiorano le mie radici di indio
sudamericano e sentendo tutta la responsabilità sulle mie spalle, appoggio per
terra il sacchetto con i polli e mi esibisco in una danza frenetica per
richiamare la pioggia, urlando, e smorzando con una mano i suoni prodotti;
girando su me stesso come un topolino che vuole raggiungersi la coda. E così,
in mezzo alla gente ignara (il vicolo a quell’ora è affollato), continuo il mio
rito.
Mi evitano tutti, pensando che sia un drogato in preda a una dose
un po’ “carica”.
Ma la danza funziona: le prime gocce fanno persino male, da quanto
sono gonfie. Io continuo esaltato. Sono felice, sono riuscito a far piovere,
per me e per tutti! Ringrazio i miei antenati, e la gente, che prima mi aveva
evitato, ora capisce, e si prodiga in mille auguri alla mia persona.
A questo punto, per fare un po’ di scena, apro le braccia e fisso
il cielo. Mi guardano tutti in silenzio
Sono uno sciamano!
Però, proprio al culmine del raccoglimento, sento un dolore
lancinante nell’occhio destro: un pezzo di grandine massiccia come una biglia
mi ha centrato. Non devo lasciar intuire l’incidente, non posso sputtanarmi
così. Trattengo il dolore, ma non le lacrime, che spuntano copiose. I presenti
se ne accorgono e pensando che le mie lacrime siano dovute all’immane sforzo,
piangono anche loro, travolti dalla commozione.
Raccolgo il mio sacchetto e – senza farmi notare – prendo il pezzo
di grandine che mi ha colpito (e che comincia a sciogliersi) e lo infilo in
tasca. Mi avvio verso casa, salutando tutti con un braccio alzato. Non vedo
l’ora di arrivare; l’occhio mi pulsa, ma mi fa più male ancora
il cuore?
Trattenendo il dolore, infatti, si è creata dentro me una specie
di grumo angoscioso che spinge per uscire fuori.
Quando arrivo a casa prendo la mazza più grossa che ho – penso –
oppure il mortaio; no, prenderò l’ascia e ridurrò in mille pezzi quella
bastarda noce di ghiaccio che mi ha colpito.