L’equilibrista

 

Solo ieri ho capito quanto sia sottile il passaggio dal rancore
alla speranza. Pensavo che fosse più complicato. Non è complicato né difficile.
È sottile.

Vorrei raccontarvi come l’ho scoperto.

Prima devo parlarvi del filo sul quale mi mantengo in bilico. Sì,
perché sono anche un equilibrista: allontano distrazioni, evito ricordi e non
cedo alla stanchezza. Ma spesso mi prende la paura di cadere. Sotto – lo so
bene – non c’è rete.

La mia vita? Ore e ore scandite dal verde-giallo-rosso, con un
secchio d’acqua e una spugna ad un incrocio. Tutto qui.

Rosso. Un minuto e mezzo. Senza l’aiuto di parole, il mio corpo si
piega sulle macchine e, da solo dice: “Posso lavare il suo vetro?”

Alcuni accettano.

Un passo avanti sul filo.

Ma subito dopo vengono quelli che con una sgommata partono in
fretta, come offesi. O quelli che guardano avanti e fanno finta di non
sentirmi. Girano la faccia dall’altra parte.

Rischio di perdere l’equilibrio.

A volte, mi sento inutile come un semaforo spento. Macchine si
fermano a distanza e, quando mi avvicino, accelerano investendo il mio sorriso.
Purtroppo non esistono leggi per proteggere i sorrisi e non esistono ospedali
per anime urtate. Rimango lì, fra un verde e l’altro, a pensare: neanche la
vita facile rende l’uomo migliore. Forse è difficile essere buoni in mezzo al
traffico. Mi domando come mi sarei trattato se mi fossi visto dall’interno di
una di queste macchine: del filo sul quale sono in bilico, me ne sarei accorto?

Come minimo, farei una grande confusione, se mi mettessi al
volante: i colori dei semafori hanno significati diversi per uno come me. Verde
vuol dire aspetta; giallo comincia a muoverti; rosso invece, avanti, di corsa.

Di notte, sul letto, chiudo gli occhi e vedo le luci del semaforo
che si accendono. Vorrei parlare con qualcuno, ma i miei compagni dormono. Mi
alzo per scrivere. Però le parole, sulla carta, sembrano macchine in un
ingorgo. Non vanno rapide come quando uno parla. Per me, il vero motore delle
parole è la voce. Se parlo, i miei pensieri prendono la marcia giusta.

E poi ci sono notti in cui il verde apre la strada agli incubi: un
ragno costruisce la sua ragnatela. Col filo spinato. Arrotola il filo intorno a
me. “Papà! Papà!” Mio padre accende una sigaretta e inizia a fumare. Non corre
a salvarmi. Fuma e basta. Io, imprigionato. Senza alternative. “Papà!” Mi
sveglio con un gran traffico nel petto.

Se piove, con le tasche vuote, non mi resta che la stazione
Termini, dai barboni. Mi spingono e gridano: “Ritorna a casa tua! Questa è roba
nostra!”

Perché mio padre mi ha insegnato che la sofferenza rende meno duro
il cuore?

Verde. Giallo. Rosso. Ore e ore.

Osservo le persone dentro alle macchine: alcune oltrepassano con
lo sguardo il mio corpo, come se io, per il mio lavoro, fossi diventato di
vetro.

La settimana scorsa insistevo con una signora: la sua Clio era
proprio sporca. Lei si è arrabbiata e mi ha gridato: “NO!” Ho pulito lo stesso
il vetro, con movimenti energici, premendo forte sulla spugna. Lasciavo apposta
l’acqua nera scorrere sulla carrozzeria. Pulivo da una parte e sporcavo
dall’altra.

La mia rabbia è servita per farmi capire che non sono di vetro. Ha
confermato che ho stoffa umana dentro.

Ma il filo rischia di spezzarsi, lo so.

Pieno di rancori, riflettevo: oltre alla rabbia, non ci sarà un
altro modo per essere un uomo reale?

Potrei forse preparare il manifesto dei lavavetri. Molto presto,
ancora all’alba, lo attaccherei a tutte le macchine di Roma. Il manifesto
direbbe: io esisto, tu esisti, noi, lavavetri, esistiamo. Non siamo di vetro.

O potrei tornare in patria. Ma sarebbe camminare all’indietro e
magari perdere l’equilibrio nel momento del cambio di rotta. Alcuni
equilibristi si sono fracassati le ossa. Altri, con il filo, hanno avuto la
tentazione di impiccarsi.

Verde. Giallo.

Continuo a lavare i vostri vetri, a lavare i vostri vetri.

Da bambino, avevo costruito un palazzo di cartone e fiammiferi. I
minuscoli pezzi di cellophane, incollati ai fiammiferi, erano i vetri. Non so
che fine abbia fatto questo mio goffo cilindro, il palazzo di vetro della mia
infanzia. Prima di venire in Italia, immaginavo che un giorno avrei costruito
palazzi veri. Gli alberi delle strade si sarebbero riflessi sulle loro finestre
di vetro. Ma questo è stato tanto tempo fa. Quando il verde, oltre che nei
semafori, esisteva nelle strade.

Rosso. “Posso lavare il suo vetro?”

La festa, gli amici, i canti. Sul tavolo, la tovaglia più bella.
Mia madre mi abbraccia: “Raccontaci cosa fai in Italia”. Sono tutti in ascolto.
“Ho un’impresa di pulizie, mamma, che lava i vetri dei più alti palazzi della
città.”

Mia madre ripete: “Avete sentito? La sua impresa pulisce i vetri
dei palazzi di tutta Roma.”

Papà mi guarda con interesse: “Quanti impiegati hai?” e accende la
sua sigaretta.

“Quaranta, papà. Duecento metri di filo di acciaio reggono le
nostre impalcature. Una vera ragnatela tecnologica.”

Rido. Ma dall’altro lato della strada arriva la voce del compagno
che divide l’incrocio con me: “Che fai, dormi?”

Uno scatto e mi metto davanti a un furgoncino. “Subito, ecco
fatto!”

Verde. In Italia dicono che la speranza sia di questo colore. Io,
con il verde, rifletto. Verde oggi, verde domani, il fatto è che a un angolo di
strada, davanti al mio semaforo, a forza di non essere visto, ho cominciato a
vedere.

È successo così: ieri, al rosso, la Fiat di un signore si è
fermata in prima fila. Mentre strofinavo la cacca dei piccioni attaccata al
vetro, lui mi ha chiesto: “Come ti chiami?”

Disabituato ad avere un nome, lì per lì sono rimasto come uno
stupido, a guardarlo. Stavo per inventarmi un nome più facile che non creasse
malintesi – il mio è difficile da capire – ma il verde è scoppiato improvviso e
lui se n’è andato.

È successo solo questo. Ma lui aveva chiesto il mio nome. Non ho
avuto il tempo per rispondergli, ma mentre continuava il verde ho pensato a
tutti quelli che capiscono il mio umile e onesto sforzo di perseverare sul
filo, quelli che danno alla mia attività la veste di un lavoro. E ho ripetuto a
voce alta il mio nome, parecchie volte. Come se lo potessero sentire.

Un semaforo rosso che ti fa lavorare, va bene. Ma è tutto diverso
se hai un nome.

Dal rancore alla speranza.

Il sottile passaggio.

Non era questo che dovevo raccontarvi?

 

 

 


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