Io, dietro la bancarella, leggevo il giornale.
Lavevo comprato a uno dei ragazzi che dopo la
mezzanotte lo vendono per le strade del centro, e ne leggevo la sezione
dedicata allo sport. Lo leggevo appoggiato al muro, di lato, in modo da farmi
luce con la lampada a gas che illuminava la merce esposta sul banco.
Si avvicinarono due ragazzi bassi, dai cappelli
corti; uno di colore castano, laltro un po più scuri. A malincuore chiusi il
giornale. Non è carino quando arrivano i clienti continuare a leggere come se
niente fosse.
Subito il ragazzo dai capelli chiari spostò il suo
interesse in direzione della scatoletta dove cerano gli orecchini da piercing.
Guardò dentro e mi chiese a quanto facevo la barretta piccola, quella da
mettere nella parte superiore dellorecchio, sei millimetri di lunghezza per
uno virgola due di spessore.
«Quindicimila lire», risposi quasi meccanico.
«Quanto!?», alzò la voce a mo di protesta.
Ripetei il prezzo senza scompormi ma, al sentire
il perentorio tono della sua voce, mi pentii di non avere già spento la lampada
e chiuso, invece di perdermi in inutili fantasie.
Sapevo daltronde quale tipo di clienti potevo
aspettare a quellora, le due di notte, a Campo dei Fiori; ubriachi, sconvolti
senza una lira, quando va bene e non capita qualcuno a far confusione e tentare
di fregarti un anello o un bracciale. Ma mentre leggevo il giornale, tra le
righe, le notizie delle formazioni della domenica, gli anticipi, i posticipi,
gli squalificati e i lesionati mi veniva da pensare a come avrebbe potuto
essere diversa la vita.
In particolare quella sera mi dicevo che avrei
dovuto investire di più nel mio talento di calciatore. Così, non avrei dovuto,
mi ripetevo, accontentarmi di essere la stella dellUrquiza, squadra di
quartiere, ma come qualcuno aveva suggerito, far le prove in un club più
importante, di quelli che militano nella serie A. Non sarei mai diventato un
grande campione, questo no, ma con un po di fortuna un calciatore
professionista di secondo ordine magari sì.
La mia immaginazione prendeva spunto dalle vicende
del connazionale Jorge Garcìa, anni ventidue, sorto nel Ferrocarril Oeste.
Dal debutto nella massima categoria Garcìa ebbe la
fortuna di segnare in tutte le prime quattro partite di campionato. Si mossero
i procuratori, la stampa gridò alla nuova rivelazione del calcio argentino, le
videocassette con le quattro performance viaggiarono da un capo allaltro del
mondo e fu rapidamente ingaggiato dalla Roma. E vero che la sua carriera di
calciatore da quel momento in poi si sviluppò tra la panchina e la tribù (negli
allenamenti non si era confermato il lampo di velocità che tutti si
aspettavano) ma comunque questo non gli impediva di godersi la villa messa a
disposizione dalla società nella zona residenziale dellEur e di uno stipendio
per campare tranquillamente per un po di tempo.
E nel suo sguardo poteva entrare di tutto, dalla
preghiera alla sfida.
«Ti do cinquemila lire», disse un po barcollando.
«E meglio che me ne vada a casa», dissi.
Lui continuò a guardarmi.
«Sei calabrese?», domandò.
«No»,
risposi, «non sono calabrese».
«Sei
calabrese», affermò convinto. «Hai parlato nel dialetto della mia zona. Hai
detto
». E pronunciò una frase che nel suono rispecchiava vagamente la mia.
Lamico, quello un po più moro, lo corresse: «Ha
detto che se ne va a casa».
«E
perché mai? Mi deve vendere lorecchino. Dai amico, fai il bravo! Non cè lho
più di cinquemila lire!».
«O Dio, ma tu lo sai quanto costano i piercing?».
«Lo so. Ma a te quanto costa?».
«Cinquemila lire».
«Allora me lo puoi dare».
«Certo. E faccio un affarone».
«Ma senti», disse il ragazzo sforzandosi di essere
convincente, «tu non devi guadagnare con i locali. Devi fregare i turisti, gli
americani, i giapponesi».
«E laffitto di casa mia lo paghi te?».
«Ha ragione!», esclamò il suo amico mettendosi
dalla mia parte, «anche lui deve guadagnare!».
Senza dubbio, quella sera lavevo allungata fin
troppo. Come per recuperare il tempo perduto, cominciai a rimettere le collane
e i bracciali nelle rispettive bustine trasparenti. A questora, mi dicevo,
avrei già dovuto chiudere, essere in cammino verso casa.
«Cinquemila lire e una canna», offrì.
«Non fumo», dissi.
Il ragazzo mi guardò con diffidenza.
«Bè, allora fai finta che ti ho offerto la cena».
«Non ci
riuscirei. Non ho mangiato niente, sento proprio un buco nello stomaco e non
sarei in grado di immaginare che qualcuno mi abbia offerto una cena».
Il ragazzo sembrò arrendersi.
«Ma di
dove sei allora?».
«Sono un cittadino del mondo», dissi più che altro
per troncare la conversazione, senza neanche guardarlo, continuando a mettere
le cose al loro posto.
Forse
mi fraintese, o fece una strana associazione di idee.
«Abiti a Monaco?».
Spensi la luce.
Lamico fu costretto a intervenire: «Ha detto che
è cittadino del mondo».
«Ah!
cittadino del mondo
ma me lo dai questo orecchino?».
Per tutta risposta chiusi anche la scatola dei
piercing e cominciai a mettere le buste trasparenti in una busta di plastica
più grande, bianca. Ma il ragazzo, non capiva questo genere di messaggi?
No, il ragazzo non si rassegnava ad andarsene
così, a vuoto.
«Me lo dici almeno di dove sei».
«Indovina».
«Parla un po ».
Dissi qualche frase senza importanza mentre lui
contrasse i muscoli, fece uno sforzo di concentrazione socchiudendo gli occhi.
«Parli spagnolo
», disse lentamente, «sei
sudamericano».
«Bravo».
«Brasile!».
«Parlo spagnolo!».
«Argentina».
«Eh si. Finalmente!».
«Lo sapevo. Lo sapevo. Parli uguale a Batistuta».
«E vero», dissi con una certa rassegnazione. Ormai
era la quarta volta che mi riconoscevano grazie al trasferimento del bomber
della Fiorentina nella capitale.
Il ragazzo rimase a guardare mentre finivo di
mettere tutto nello zaino.
«Comunque hai della bella roba», mi disse con tono
affezionato, «complimenti».
«Grazie», risposi.
Poi allontanandosi con il suo amico mi salutò con
la mano alzata: «Ciao secco!».
«Ciao», risposi, mentre caricavo lo zaino sulla
spalla e guardando lorologio mi apprestavo a raggiungere lautobus che da lì a
poco mi avrebbe portato, come un meteorite nella notte, o un centravanti
spedito con la palla al piede, ma verso
la porta sbagliata, in direzione quartieri del sud, a Primavalle.
Da: Anime in Viaggio
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