Miguel Angel Garcia
Miguel Angel Garcia
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2002-02-20T13:59:00Z
2003-01-16T10:43:00Z
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Studio Garcia Multimedia
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Il volo dei pappagalli

 

San Salvador cominciava a svegliarsi, i
lampioni pubblici a uno a uno si spegnevano. E a poco a poco la città si
preparava a ricevere i due milioni di persone che ogni giorno invadono la
piccola capitale. Francisco guardò quel noto spettacolo con altri occhi. Guardò
il traffico disordinato, le venditrici con i loro eterni canestri; guardò gli
scolari con le loro uniformi di tutti i colori. Ma non sentiva il rumore delle
macchine e della gente, quello presente. Era concentrato sui rumori suoi.
Sentiva e risentiva quegli spari, le parole di angoscia, le grida della gente
che lo aveva visto cadere. E poi, per un momento, il silenzio. Fu soltanto per
alcuni secondi che la sua mente rimase vuota, fino a quando fu toccato,
svegliato… E tornò a sentire tutto quel rumore. Si alzò in piedi, si guardò
intorno. La testa gli girava, gli occhi non riuscivano a fermarsi su un punto
fisso e le sue orecchie non distinguevano un suono dall’altro. A poco a poco
recuperò i sensi, e controllò il suo corpo. La camicia, che portava aperta
sulla maglietta, aveva tre buchi. Continuò a cercare, niente sangue. Respirò
profondamente e l’odore della polvere da sparo invase i suoi polmoni. Si
concentrò sul muro che aveva a fianco a sé. C’erano sette buchi, ancora caldi
ed ancora fumanti. Li toccò e sentì un formicolio per tutto il corpo, pensando
a cosa quelle pallottole avrebbero potuto fargli. Fin da piccolo, aveva sempre
avuto paura del dolore, del sangue.

Riprese il
suo cammino verso casa. Il giorno cominciava a morire, nel cielo un gruppo di
pappagalli che gridavano e volavano in fretta. Sapevano di aver fatto tardi.
Francisco sentì il piccolo pappagallo di casa sua che salutava i propri
fratelli. Entrò velocemente, se ne andò in bagno, si lavò la faccia, si tolse
la camicia – quella morta – la nascose nel suo zaino e si sedette a tavola. La
madre gli servì la cena: fagioli macinati e banane fritte, formaggio e una
bevanda di marañon. Lui mangiò
lentamente, senza parlare. La madre era abituata ai suoi lunghi silenzi, ma non
a vedere il suo viso pallido e agitato. Attese che terminasse la cena prima di
domandargli che cosa avesse. – Problemi sul lavoro–, furono le uniche parole
del figlio. Dopo, Francisco uscì in terrazza, prese il giornale, tentò
inutilmente di leggerlo. Le luci del suo quartiere si erano accese. Una brezza
fresca e odorosa, proveniente dalle vicine piantagioni di caffè, lo fece
rilassare per un momento. Poi tornò a sentire gli spari, le grida della gente e
quel terribile e lungo silenzio di pochi secondi. Guardò le sue mani,
tremavano. Entrò nella sua camera e si addormentò d’un sol colpo.

Alle sette
della mattina del giorno dopo, la madre lo svegliò dicendogli che stava facendo
tardi al lavoro. – Oggi non lavoro–, rispose lui, e si rimise a dormire. Quasi
a mezzogiorno si alzò e in bagno lasciò scorrere a lungo l’acqua fresca sul suo
corpo stanco. Nel frattempo, la madre gli aveva comprato il giornale e gli
aveva preparato la sua solita spremuta d’arancia. Francisco la bevve in fretta,
prese il giornale e uscì sulla terrazza. Questa volta riuscì a leggere
qualcosa. I sondaggi prevedevano un duro testa a testa fra i due maggiori
partiti politici, nelle prossime elezioni. Continuò a sfogliare. La violenza
aveva fatto quasi venti vittime quella settimana, due gli sembrò di conoscerle.
Diede un’occhiata alla pagina della cultura, García Marquez pubblicava il suo
nuovo libro, Del Amor y otros demonios.
Un escremento di uccello cadde sopra il volto dello scrittore stampato sul
giornale, Francisco guardò in su: era il pappagallo, che cercava da un bel po’
di richiamare la sua attenzione. Lesse, infine, dell’arrivo a San Salvador di
due cantanti messicani e uno spagnolo.

La madre lo
chiamò per il pranzo. – Pioverà tutto il pomeriggio–, disse. La madre annuì, e
lo informò che doveva andare con il parroco e altre donne a San Martín, a
distribuire viveri. – Quel prete guida come un folle… Le strade bagnate sono
pericolose–, si preoccupava lei. – Pregate–, consigliò Francisco. – E tu come
stai, oggi?–  fece la madre, ignorando
il consiglio del figlio. – Stanco,– 
rispose, – starò tutto il giorno a casa. Terminato il pranzo, la madre
andò a fare la sua breve siesta e Francisco si mise a fare ordine e lavare i
piatti. Mezz’ora dopo la madre era già pronta per uscire. In mano aveva la sua
solita borsa e l’ombrello. Lui la guardò negli occhi e le disse di stare
attenta. – Lo dirò al parroco–, rispose lei, e uscì di casa sorridendo. Il
pomeriggio trascorse rapido e piovve continuamente. Il telefono suonò più
volte, ma Francisco non rispose. Se ne stava sul divano, a giocare con il
pappagallo.

Era già notte
fonda, quando la madre tornò. Era stanca, ma allegra, e ripeteva le ultime
barzellette che le aveva raccontato il prete. – È matto, bisognerebbe
internarlo–, scherzava. Prese dalla borsa dei tamales ripieni di carne e verdura. Mentre li riscaldava e faceva
il caffè, raccontò al figlio che a volte era imbarazzante ricevere regali da
quella povera gente: – Danno più di quello che hanno, come la povera vedova del
Vangelo…–. E si misero a mangiare i tamales
in silenzio, poi ognuno si ritirò in camera sua. Francisco, nel buio della
stanza, si mise a pensare, a cercare di capire perché gli avessero sparato, chi
lo volesse morto… – La guerra è finita da un paio d’anni–, rifletteva. – Sarà
per le cose che scrivo, o qualche nemico che non conosco, di quelli che ci si
procura quando si partecipa ad una guerra… O forse era semplicemente un marito
geloso, o qualcuno che voleva derubarmi…–. E gli spari gli risuonavano in
testa, e l’odore della polvere andava e veniva continuamente. Così, per diverse
ore, le idee si affollavano nella sua mente. Poi, improvvisamente, si rese
conto che nel corso dell’anno questo era il terzo attentato che aveva subito.
Fino ad allora, non li aveva collegati tra loro. La volta che un furgone lo
aveva buttato fuori strada, all’aeroporto, se lo era spiegato semplicemente per
il modo selvaggio di guidare dei suoi compatrioti. Per la rapina e la violenza
subite quella notte di marzo, sulla spiaggia, si era detto allo stesso modo che
«è naturale, dopo una guerra come la nostra, che si formino gruppi armati di
ex-mercenari, che non conoscono altro che la violenza…–. Erano arrivati dopo
mezzanotte, lui era disteso sulla sabbia, ad ascoltare e osservare il
misterioso movimento notturno dell’oceano. Una luna piena illuminava lo
spettacolo. Al suo fianco era Lei, sempre bella, allegra, romantica e
seducente. A una cinquantina di metri c’era il gruppo di compagni del giornale,
che ballavano il merengue e bevevano
birra intorno ad un falò. Qualcuno gli disse con voce violenta di alzarsi, gli
premette sul collo una canna di pistola fredda. Dovevano essere sei, armati e
aggressivi. Riunirono tutti. Gli uomini da un lato e le donne dall’altro. Lui e
un altro compagno furono presi in disparte, picchiati e derubati degli oggetti
personali. Due delle ragazze vennero violentate, fu terribile. – E ora questi
spari… Pensando a tutto ciò lo vince il sogno.

 

Al mattino
seguente, quando la madre aprì la porta di casa, la strada era piena di
domenica. Il sole a poco a poco stava asciugando le piccole pozzanghere della
pioggia notturna. I bambini giocavano con le proprie biciclette; le ragazze si
erano fatte belle. Alcune per assistere ai vari riti cristiani, altre per
andare al cinema, ai parchi, al mare, e altre per aspettare il loro amato. Lo
stesso succedeva ai ragazzi. Nella piantagione di caffè, i passeri giocavano.
Il cielo era completamente limpido, di un azzurro tropicale che riempiva di
vita chiunque. Francisco non si azzardò a uscire in strada, osservava il tutto
dalla terrazza. Dentro casa, la madre dava da mangiare al gatto e al
pappagallo. L’uccello non mangiò, ma approfittò del momento di tranquillità del
felino – come sempre – per andare a infastidirlo. Gli mordeva la coda, le
orecchie e la pancia. Il gatto a volte faceva una piccola pausa e guardava il
suo «amico» con occhi strani ma poi, quando sentiva le carezze della madre,
lasciava che quello si divertisse a molestarlo, che si godesse la propria
immunità.

Dopo aver
nutrito gli animali, la madre spremette due arance e ne portò il succo, insieme
al giornale, al figlio. Lo trovò seduto in terrazza, aveva lo sguardo perso
sulla strada. Si sedette accanto a lui. – Dicono che venerdì notte hanno
sparato a un ragazzo, qui vicino. Ne sai niente?– gli chiese di colpo. Lui la
guardò, sorrise e disse: – Sono più di vent’anni che sparano alla gente, in
questo paese. Perché ti stupisci…? Comunque non so nulla–, rispose. Rimasero lì,
seduti. Lui prese la parte culturale del giornale e la madre il resto. Stettero
quasi due ore a leggere il dramma della gente… – Non sapete cosa inventarvi,
voi giornalisti,– interruppe la madre, – qui dice che in Porto Rico è
ricomparso il Chupa Cabras, uno
strano animale che arriva di notte nelle stalle e uccide le capre, i maiali e i
vitelli, e poi gli succhia il sangue. C’è anche una cartina che spiega che
passa da un paese all’altro con facilità. Prima in California, poi in Messico,
Guatemala e adesso Porto Rico. Se viene nel nostro paese, sicuramente lo
succhiano a lui–, concluse. Non attese risposta, si alzò e disse che andava al
mercato, a fare la spesa per il pranzo. Ricordò che era domenica e che
sicuramente sarebbe venuto qualche commensale in visita. Dalla terrazza,
Francisco la vide allontanarsi. Sempre piena di vita e di forze… Prima che i
suoi occhi la perdessero, la vide fermarsi un paio di volte a parlare con i
vicini che incontrava per via. – Se mi succede qualcosa,– pensò, – questa
vecchietta soffrirà tantissimo. Poi non poté più pensare. I vicini, da varie
case, cominciarono a gareggiare ognuno col proprio stereo. Alcuni ascoltavano
gli ultimi ritmi tropicali, altri rock forte nordamericano e altri ancora rancheras messicane. Era difficile concentrarsi
su un solo ritmo. I bambini per strada facevano ballare persino le biciclette e
la gente usciva tutta di casa, per prendere un po’ di fresco e raccontarsi la
settimana vissuta. Lui continuava a guardare ed ascoltare dalla terrazza.

La madre tornò
carica di frutta, verdura e pesce. Era rossa in viso per il sole, la fronte le
brillava di sudore. Si sedette, si tolse gli occhiali e con un fazzoletto si
asciugò il viso. Francisco le portò un po’ d’acqua fresca. – Oggi si mangia
pesce–, disse lei, e cominciò ad estrarre dalla borsa della spesa una dozzina
di pesci freschi, ancora vivi, alcuni ananas, alcuni profumati nances, molte verdure ed erbe. La cucina
cambiava odore ogni volta che tirava fuori qualcosa di nuovo. Il gatto,
all’odore del pesce, cominciò a miagolare e a farle delle carezze sui piedi. Il
pappagallo gridava e faceva capriole appeso al soffitto, chiedendo qualcosa
anche lui. La madre lavò la frutta, diede un nance al pappagallo, e il resto lo ripose in frigorifero. Poi
affilò i coltelli e cominciò ad uccidere i pesci. Man mano che toglieva loro le
interiora, le dava al gatto. Sapeva che il figlio non sopportava di vedere quel
massacro, così non lo chiamò finché i pesci non erano tutti morti, puliti e
pronti per essere cucinati. – Aiutami con gli ananas–, gli ordinò. Francisco
sbucciò i frutti, li tagliò a pezzi e li frullò. Alla vista di quel nettare
tropicale, con la schiuma giallognola che traboccava, gli venne voglia di berne
subito un poco. Poi pulì un po’ di riso e lo passò alla madre, perché lo
cucinasse.

Verso
mezzogiorno la piccola casa cominciò a riempirsi di gente. Prima arrivò la
sorella Natalia, con suo marito e i tre figli, poi la zia Pastora e due dei
suoi nipotini. Insieme a loro, arrivò un’altra sua sorella con il marito,
quattro bambini e tre compagni del giornale di Francisco. Le donne avevano
portato formaggio fresco, mais cotto e anche un polletto vivo. Qualcuno tirò
fuori una bottiglia di rum, birre e cola. Mentre gli adulti si salutavano e
chiacchieravano, i bambini si misero a «giocare» con gli animali. Uno di loro
cercava di tirar giù dal tetto a scopate il pappagallo. Un altro scoppiò a
piangere, perché era stato graffiato dal gatto mentre cercava di afferrarlo per
la coda. Il felino fuggì verso i campi di caffè, il pappagallo non ebbe tanta
fortuna… Alle due pranzarono. Dovettero attendere che il pollo venisse
sacrificato e cotto, perché la dozzina di pesci non era sufficiente a sfamare
tutto quel reggimento. – Ci vorrebbe un santo, in questa casa, per fare qualche
miracolo–, si lamentò la madre.

Alla fine del
pranzo passarono in terrazza, si sedettero e si misero a parlare del più e del
meno, uno dei presenti cercò di far notare che Francisco era molto taciturno.
La madre sviò il discorso e cominciò a informarsi sui parenti che non erano lì,
ma di quando in quando gli ospiti facevano domande a Francisco: questi
rispondeva a monosillabi, per lunghi momenti perdeva il filo dei discorsi degli
altri e si concentrava sui loro gesti, le risa e l’espressione dei volti. Era
soprappensiero quando uno dei suoi nipoti lo prese per mano e se lo portò in
camera – a giocare a dama, zio–,
fu l’unica cosa che sentì. Francisco vinse la prima partita e si lasciò
sconfiggere nelle seguenti, fino a quando entrarono alla carica altri nipoti e
cuginetti e cominciarono a «demolirgli» la stanza. Buttavano per terra i libri,
tiravano fuori le sigarette dai pacchetti, si mettevano le sue camicie, le sue
scarpe. Saltavano sul letto, gli si arrampicavano sulle spalle, gli tiravano i
capelli. Come sempre, lui li lasciava fare. Quando erano stanchi, gli
chiedevano: – Zio, ci racconti una storia?. Questa volta gli raccontò la storia
dei gatti, che un tempo governavano il mondo, finché non si resero conto che
era troppo complicato e cercarono un animale più stupido di loro per quel
lavoro. – Da allora noi umani «governiamo», e i gatti vivono felici, liberi,
rilassati e senza nessuno che gli spari…–, concluse Francisco. – Io da grande
voglio essere gatto–, disse Rodrigo, forse il suo nipote preferito. Uscirono di
nuovo in terrazza a vedere morire il giorno nell’orizzonte, videro passare i
pappagalli con le loro consuete grida. Ascoltarono la risposta che il piccolo
pappagallo di casa mandava ai suoi simili. E poi, all’improvviso, cominciò a
venire giù un acquazzone che fece rifugiare tutti nel piccolo soggiorno della
casa.

Le sorelle e
la zia di Francisco cominciarono a preparare i bambini per andar via. Li
pettinavano, gli pulivano le mani, le gambe e le faccine con un fazzoletto
umido; poi si sistemavano loro, si specchiavano, si mettevano un po’ di trucco,
si allisciavano le gonne e i capelli. Gli uomini – amici e cognati di Francisco
– si sciacquavano il viso con l’acqua fresca, per calmare un po’ gli effetti
delle bevande, e si pettinavano maliziosamente davanti allo specchio. La forte
pioggia, come era arrivata se ne andò via. Così gli ospiti della domenica si
congedarono dalla madre e dal figlio. Dalla porta di casa, egli rimase a
guardarli camminare, i bambini di tanto in tanto si voltavano e lo salutavano
con la mano, così come i compagni del giornale. Rodrigo gridò: – A presto,
zio…! Lui rispondeva con le mani e con l’abituale sorriso. Chiuse la porta e
rientrò in casa. La madre era seduta nel salottino, leggeva il Vangelo. Come
faceva sempre dopo il volo dei pappagalli.

 

Nella sua
stanza, Francisco cominciò a mettere a posto il disordine che gli avevano
lasciato i nipoti. Quando ebbe terminato, aprì uno dei cassetti della scrivania
e prese una piccola scatola di metallo con dentro un pacchetto di lettere. Ne
scelse sei, due venivano dall’Europa, una dal Sudamerica, altre due dal Messico
e l’ultima da Los Angeles. Le lesse tutte velocemente. Fece una breve pausa,
scese in cucina e si prese una birra fresca, accese una sigaretta e tornò in
camera. Questa volta lesse più lentamente. Erano lettere che aveva ricevuto
negli ultimi dieci anni, dai suoi compatrioti in esilio. Nonostante che fossero
state scritte in parti diverse del pianeta, le legava la forza di una stessa
nostalgia. Francisco amava rispondere puntualmente alla corrispondenza e
mettersi a nudo nel momento in cui scriveva: questo era molto ammirato fra gli
esuli del suo paese. Così riceveva lettere ogni mese, da ogni angolo del mondo
cristiano. Narravano di vite erranti, di persone che una volta avevano avuto
una casa, un paese, una famiglia. E ora non gli importava se erano in
California, a Sidney, Città del Messico, Barcellona, Parigi, Oslo, Torino, San
José, Praga o in qualche isola dei Caraibi. Passare i giorni, le settimane, gli
anni, le stagioni senza provare le stesse emozioni della gente nata in quei
luoghi. Passare il tempo a sperare nel ritorno ad un paese che li amava poco.
Alcuni, dall’altra parte dell’Oceano o del Tropico, avevano incontrato l’altra
metà. Mostravano una certa serenità, più rilassata e rassegnata, ma in fondo
tutte le lettere, di uomo o donna, giovane o vecchio, sembravano dire una cosa
sola: – Mi manca tanto quel pezzetto dell’America tropicale che mi ha visto
nascere… Più di una volta Francisco aveva fatto visita qualcuno degli amici
lontani. E lo ricevevano con forti abbracci, gli preparavano piatti «tipici» e
gli mettevano musica della loro patria, parlandogli di un Salvador quasi
mitico, inesistente. Prodotto dei cuori malinconici più degenerati. Lui li ascoltava,
molte volte provava pena per loro. Non gli diceva mai che il loro paese
cambiava ogni giorno e che persino a lui costava un po’ riadattarsi, ogni volta
che tornava dall’estero, dopo qualche giorno di assenza. Meglio di no, meglio
lasciargli i loro ricordi. Gli raccontava altre cose, per esempio della squadra
nazionale di calcio, gli diceva che si stavano allenando duramente per il
prossimo mondiale e che c’erano buone speranze. – Hanno assunto un allenatore
brasiliano–, li informava. Poi tornava a casa, alla sua San Salvador, e
continuava a difendere la propria vita. E provava pena per quei poveri diavoli
con il cuore diviso in due, che rimpiangevano un paese che non era mai esistito
e lottavano invano per non essere assorbiti da quello che ora li ospitava.

Erano quasi
le dieci di sera, quando ebbe finito di leggere le lettere e di inseguire i
pensieri che si agitavano nella sua testa. Si stupì che la madre non lo avesse
chiamato per la cena. Andò in salotto, la trovò che rammendava i buchi della
«camicia morta». Aveva gli occhi arrossati e un po’ umidi. Quando lo vide,
cominciò a parlare e gli raccontò che mentre andava al mercato, quella mattina,
alcuni vicini le avevano chiesto come stava suo figlio. Ella sorpresa aveva
risposto – bene, un po’ silenzioso, ma bene. Poi le avevano detto che era a lui
che avevano sparato, il venerdì notte. E ora, controllando il suo zaino e
trovando la camicia con i buchi, ne aveva avuto conferma. Gli disse che i figli
maschi erano degli ingrati, non vogliono mai condividere i problemi veri con le
madri, e che esse devono sapere le cose sempre attraverso terzi. E si rimise a
piangere. A Francisco si spezzava il cuore, vedendo la madre piangere in quel
modo. La conosceva come una persona forte, che trovava sempre il lato comico in
tutte le cose, anche nelle più gravi. Le si avvicinò, la abbracciò molto forte
e le promise che non sarebbe più successo, che non gli avrebbero più sparato, –
Per lo meno in questo paese…–, disse, cercando di farla ridere. Poi corse in
camera sua. Prese la sua valigia e cominciò a riempirla di cose personali, le
più necessarie. Prese anche qualche libro, la rubrica degli indirizzi, un paio
di foto di famiglia e la foto della sua Helena.

 

…quel
lunedì mattina, mentre attraversava San Salvador da Nord a Sud, gli tornavano
in mente tutte insieme le cose che aveva vissuto dal venerdì. E che gli
sarebbero rimaste dentro per il resto della sua nuova «vita». L’autobus si
allontanava sempre più dalla capitale, il giorno si era impadronito appieno
della città. Probabilmente non avrebbe piovuto, ma non c’era da fidarsi. Ai
Tropici succede sempre il contrario di quello che si pensa. Prese il portafogli
per comprare delle caramelle a una bambina dagli occhi vivaci che era salita a
venderle sull’autobus. Poi diede un’occhiata al denaro che aveva, fece un po’
di conti e stimò che gli sarebbe bastato per arrivare fino in Costa Rica. Lì
avrebbe cercato alcuni amici e gli avrebbe chiesto aiuto per fuggire in Messico
o in Europa…


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