Le risaie si estendevano a vista
d’occhio riflettendo la tersa volta celeste pervasa di luce, i teneri germogli
spuntavano appena dal velo d’acqua. Contadini piegati in due, i piedi a mollo
nell’acqua, sotto lo sguardo delle palme e un sole a picco sulla loro testa. Di
tanto in tanto si vedevano bambini nudi portare a pascolo possenti bufali,
l’enorme e docile mole soggiogata dall’esile fune nel pugno del bimbo.
Seguivamo un sentiero di campagna di terra rossa, tramutata in mota dalla
pioggia, con grandi pozzanghere scavate dall’acqua.

Le abitazioni erano quasi tutte su
palafitte, con una o più amache appese ai pali. Qualcuno, al nostro passaggio,
agitava la mano continuando a dondolarsi sull’amaca. Cani e maiali
condividevano il cibo dalla stessa ciotola. Le contadine ci chiamavano, per
offrirci dei fiori di lotus: due chiacchiere con loro e via di nuovo a
proseguire il nostro viaggio.

Erano le quattro di mattina quando la signora Bopha, la mia
guida di sessant’anni, svelta come una ragazzina, mi aveva condotta alla
fermata delle corriere. Hochiminhville era ancora immerso nel sonno, ma una
parte della gente, i venditori, erano già in piedi con la loro merce, pronti a
partire verso mille destinazioni. Salimmo su una autobus sgan-gherato e molto
vecchio. I sedili cosi stretti che eravamo quasi l’uno addosso all’altro,
l’aria irrespirabile per la nebbia fitta del fumo delle sigarette. Parecchi
bambini, ancora assonnati, ci supplicavano di comprare qualcosa : – Zia, compra
ti prego i miei panini. – Zio hai bisogno dell’aranciata? e vi mettevano in
mano la loro mercanzia, con un dolce e timido sguardo che non lascia scampo
alla tirchieria.

Dopo parecchie ore di viaggio attraverso la campagna
vietnamita la corriera arrivava al capolinea. Chi voleva proseguire per la
frontiera cambogiana doveva noleggiare una moto, pagando poche migliaia di
lire. Dopo aver contrattato il prezzo del viaggio la signora Bopha mi chiamò: –
Fatima, si metta seduta tra il guidatore e me: si aggrappi bene a lui, le
strade sono piene di buche. – Si signora – aggiunse il giovanotto sorridente –
qui si balla. Effettivamente ballammo per chilometri interi, a tal punto che
arrivati alla frontiera mi sentivo il mal di mare addosso.

La guida condusse una breve trattativa con i soldati per il
permesso di passare sul suolo cambogiano. La strada che avevamo scelto non era
quella solita dei flussi turistici ed era frequentata solo da gente del posto.
Temevo che i militari avrebbero sollevato delle obiezioni sui miei documenti.
La mia unica garanzia era la parola della signora Bopha, abbastanza conosciuta
in quel posto di frontiera. Mi diedero un’occhiata non molto convinta. Vestita
com’ero potevo passare per una cambogiana che andava a trovare i parenti, ma,
se mi avessero fatto delle domande, il mio incerto khmer mi avrebbe
smascherata. A casa infatti parlavamo vietnamita e a scuola francese. Uno di
loro fece alcuni passi verso di me. Lottavo contro il panico e ripetevo
freneticamente dentro di me le poche frasi che sapevo di poter pronunciare
fluentemente. Il ragazzo dall’espressione seria e sospettosa sembrò sul punto
di aprire la bocca. Colsi lo sguardo allarmato della signora Bopha e mi sentii
persa. Il soldato sollevò la mano libera dal fucile mitragliatore e con un
brusco gesto del dito indice mi fece cenno di passare.

A piedi, abbiamo attraversato la frontiera e sono andata a
baciare mentalmente il piccolo scritto in cambogiano «Terra khmer». Gli occhi
mi si riempiono di lacrime, ho preso un pugno della terra e l’ho messo in
tasca, la mia terra.

Un gruppetto di cambogiani, con la loro moto, ci chiama ad
alta voce: – Signore, signore, passaggio in moto? Ed eccoci qua di nuovo a
ballare sopra i numerosi buchi dei sentieri di campagna, ma non importava, ero
finalmente in Cambogia. Proseguivamo verso la cittadina di Neak Loeung per
prendere il traghetto.

A Neak Loeung l’attesa si prolungò sotto un sole impietoso.
Intorno a me la vita pullulava. C’era chi si offriva di cambiarvi i soldi,
vietnamiti e cambogiani, c’erano dei venditori ambulanti che vi perseguitavano
con le loro offerte di mercanzie.

Il fiume Mékong era là, maestoso, immenso, pronto ad
accoglierci. Coloro che erano in attesa per la traversata stavano accoccolati o
seduti a terra, mischiati ai loro bagagli. Faceva caldo, ero ricoperta di
polvere rossa che si sollevava dai tratti di strada già asciutti. Dei soldati
andavano e venivano coi loro fucili, ci sentivamo intimiditi dalla loro
presenza. Non molto tempo fa questi luoghi erano stati teatro di massacri, di
violenza inaudita compiuti dai khmer rossi su una popolazione inerme e
sottomessa. Quanta gente qui intorno ha vissuto quell’incubo ? Scrutavo i loro
visi, non c’era più la spensieratezza di chi vive la vita con nonchalance, ma
bensì la melanconia negli occhi degli anziani, e rassegnazione.

Guardavo una bambina con le stampelle grossolane che
saltellava su un’unica gamba per giocare con i suoi coetanei. Una signora
anziana, seduta vicina a me seguiva il mio sguardo e mi sorrideva: – Che cosa
ti sei fatta alla gamba, figlia mia? – Ho avuto la poliomielite da piccola,
nonna – le rispose. – Pensa, – ironizzò la guida – un bravo chirurgo francese
le ha fatto un’operazione cosi riuscita che la poveretta ora non può più
piegare la gamba sinistra. – Lei almeno ha le sue due gambe. La mia nipote
invece ne ha perso una con le mine, mentre giocava con i suoi amici. Mi guarda
ancora chiedendomi: – Sei indiana ? – No nonna, mio padre era somalo e mia
madre vietnamita. – Somalo o indiano per me è tutto uguale. Dove stai andando
figlia? Dove vivi? mi perdoni la
curiosità, non incontro spesso dei forestieri che parlino cambogiano. – Sono
nata e ho vissuto a Phnom-Penh fino a ventun anni. All’inizio dei disordini
politici qui in Cambogia nel 1970 mio padre ci portò nella sua terra natale, la
Somalia, per salvare la nostra pelle. – Questa donna, – aggiunse la signora
Bopha – malgrado la gamba cosi, ha viaggiato parecchio, ha vissuto in Somalia,
poi in Italia. Non so neppure dove si trova quest’Italia. Pensa, si è pure
sposata e ha tre figli! – Lunga vita a te, figlia mia.C’è speranza allora per
la mia nipote con una gamba in meno!

Non mi sembrava vero stare lì in mezzo ai cambogiani a
chiacchierare con loro, avevo gli occhi lucidi dalla gioia. La signora Bopha
riprese la conversazione: – Fatima ha vissuto all’estero per vent’anni, non ha
mai potuto tornare a Phnom-Penh per questioni economiche, ora sta andando a
ritrovare la città della sua infanzia. Il ritorno dopo vent’anni! La gente
intorno a me incomincia a ravvicinarsi, a fare domande, a sorridere. – Com’è
l’Italia ? È un po’ come la Francia ? C’è lavoro ? La gente vive bene?

– Ecco il traghetto! Prendete i bagagli, chiamate i bambini!
Quanta confusione fra la folla. Quando il battello si accostò alla riva e il
ponte fu abbassato, un fiume umano si riversò a riva, in fretta per consentire
il passaggio dei camion e delle vetture. Uno spettacolo di vita faticosa, dove
le donne trasportavano insieme i bambini piccoli e dei grossi fagotti seguendo
i loro mariti carichi di merce anche loro. Avevo l’impressione di un esodo. Un
fiume composto di corpi umani si riversava a terra per lasciar posto all’altra
ondata che fluiva in senso opposto. Stavamo tutti in piedi, stipati per la
traversata. Avevo perso di vista la mia nonnina. Peccato ! Avrei continuato
volentieri la conversazione iniziata a terra. Gettai furtive occhiate a quelli
che mi circondavano premendomi da ogni lato, ma non colsi in loro segni di
interesse nei miei confronti. Cosi lasciai libero corso ai miei pensieri. Era
naturale che pensai ai coccodrilli, la cui presenza inavvertita e furtiva era
però ben conosciuta agli abitanti della zona.

Il coccodrillo infatti era fatto oggetto di una caccia
singolare da parte dei contadini. La loro arma segreta è il «bi», sorta di
grossa zucchina delle dimensioni di un braccio umano e dalla scorza alquanto
dura. I cacciatori fanno bollire il grosso ortaggio, poi attirano i coccodrilli
presso le loro barche e quando gli sciocchi rettili spalancano le fauci, vi
gettano dentro il «bi» ancora caldissimo. L’animale deglutisce automaticamente
il boccone mortale, si inabissa, ma dopo pochi minuti di devastanti tormenti
riemerge alla superficie e galleggia inerte come un tronco, esponendo il lucido
ventre giallognolo.

Non appena mettemmo piede a terra, fummo tirati per le
braccia. – Per Phnom-Penh? Venite con la mia macchina a prezzo ragionevole. –
Lasciali, le ho chiamate prima di te – protestava un’altra autista. –
Phnom-Penh, chi va a Phnom-Penh? Alla fine salimmo su un furgoncino a otto
posti. Al momento di partire però eravamo già più di venti. Il ragazzo che si
occupava dei passeggeri viaggiava all’esterno, aggrappandosi al tetto con
tutt’e due le mani. Noi non potevamo muoverci, tanto eravamo intruppati gli uni
sugli altri.

Per fortuna la velocità non era sostenuta e il nostro autista
era prudente. Guardavo il paesaggio. Ogni tanto l’aperta campagna
lussureggiante di palme cedeva la scena a gruppi di abitazioni su palafitte.
Spesso prima di attraversare qualche villaggio vedevo sul ciglio della strada
una siepe di bambini mezzo nudi, la selva delle mani tese a ricevere la carità.
I passeggeri abituali, a conoscenza di quel fatto, avevano già pronte in mano
delle banconote appallottolate che lanciavano dal finestrino. Guardavo
indietro: un nuvolone di polvere si solleva da terra, i bambini a rotolarsi giù
del pendio, per riuscire a raccogliere in fretta i soldi.

Phnom-Penh non era più molto lontano, altre macchine stracolme
di gente ci sorpassavano. C’erano persino degli uomini seduti sul tetto con una
moto, mentre nel cofano di dietro spalancato altre persone erano appisolate, le
ginocchia piegate quasi fino al mento.

Alla fine, dopo molte ore di quel viaggio caotico e
stressante, rimettemmo i piedi a terra, piegati in due e anchilosati. Ed eccoci
arrivate alla meta, davanti al ponte Monivong. Dall’altra parte si stendeva
Phnom-Penh.

Mi avvicinai al venditore ambulante di succo di canna da
zucchero, ne ordinai un bicchiere spremuto sul momento. Bevvi avidamente un
sorso, il primo dopo vent’anni. Il suo sapore, il suo profumo mi riporta
indietro nel tempo, a quella lontana giornata della partenza da Phnom-Penh. Era
una domenica di maggio del 1970, e piovigginava. Ci alzammo tutti molto presto,
in preda a grande eccitazione. La casa risuonava di richiami: – Ismael vammi a
comprare questo. – Abdoula, dove sono le mie scarpe? Papà gridava più forte di
tutti, voleva che tutto fosse a posto il più presto possibile. In cucina mia
madre preparava l’ultimo pranzo, le pentole e i coperchi continuavano a
sfuggirle di mani e cadevano con fracasso, tanto era grande il suo nervosismo.

Bussarono alla porta: era la nostra vicina di casa : – Ho
pensato che non avete tempo di cucinare, quindi vi ho preparato qualcosa.
Portava un grande vassoio stracolmo di involtini primavera, di dolci di banana
avvolti nelle foglie di palma, e suo figlio aveva una brocca piena di succo di
canna da zucchero appena spremuto. Non dimenticherò mai quel succo delizioso,
profumato e fresco. Un altro figlio della signora entrò con un cestino di
paglia pieno di frutta candita mista, dalla papaia all’ananas, dal mango al
tamarindo, e poi anche i deliziosi semi di lotus, del ginger : – Non penso che
in Somalia troverete queste leccornie – disse la nostra vicina. – Avremo posto
nei bagagli per sistemare questi doni – chiese la mamma, ma la vicina la
rassicurò: – Diamine! Con otto figli, più due genitori, avrete il diritto di
portare almeno duecento chili di bagagli. Poi sospirò: – Ci mancherete tanto,
non ci rivedremo mai più –, e si mise a singhiozzare di colpo. – Anche noi
vorremmo partire per salvare la nostra pelle, ma questo è il nostro paese.
Avevo in mano il bicchiere di succo di canna, mandai giù un altro sorso: aveva
il gusto amaro di un addio!

Ci accomiatammo da tutti i nostri vicini del piano di sopra e
cominciamo a portare i bagagli giù per le scale. Papà, che era uscito una
mezz’ora prima, rientrò in fretta: aveva noleggiato una Volkswagen famigliare
con tre file di sedili. Per caso diedi un’occhiata in alto ai balconi e rimasi
sbigottita. Ogni balcone era stracolmo di gente! Quelli che si trovavano più
vicino ci auguravano buon viaggio, lunga vita, buon soggiorno nella terra
lontana. Vedevo le lacrime nei loro occhi, lacrime di dolore per la loro sorte:
essendo cittadini cambogiani non potevano lasciare il paese.

All’epoca la Cambogia cercava disperata-mente di rimanere un
paese neutrale, mentre il Vietnam suo vicino era lacerato dalla guerra. Ma
inevitabilmente il vento ostile la travolse e infuriò sulla sua popolazione. I
lavoratori stranieri fuggirono precipitosamente dal paese e anche la mia
famiglia parti per la Somalia, sradicata per sempre.

Cominciò a venire giù una pioggerellina sottile, che conferiva
un tono più grave alla nostra partenza. La Volkswagen si avviò lentamente verso
l’aeroporto, guardavo il paesaggio che sfilava al di là del finestrino. Le
palme da cocco, un po’ piegate dal vento, allineate lungo la strada, un uomo e
una donna seduti su di un carretto trainato da due buoi, dietro di loro un bambinetto
tutto nudo ci salutava con la mano: era l’ultima immagine che mi portavo via
dalla mia Cambogia.

Ora sono qui di ritorno, un bicchiere di succo di canna in
mano, alla ricerca del passato. Col cuore in gola, a piccoli passi, incurante
dei rumori e della folla intorno a me, attraversai il ponte Monivong.

Phnom-Penh, che nome magico! Phnom-Penh però ha perso un po’
della sua bellezza. Sul suo meraviglioso viso, un tempo cosi seducente, oggi
erano comparse delle rughe, la guerra ha lasciato segni profondi. Toccò a me
far da guida alla signora Bopha. Chiamai un cyclo-pousse, il mezzo di
locomozione onnipresente, per fare un giro della città. Passavamo davanti al
Mercato Nuovo, pieno zeppo di gente, di colori, di odori. La collina Wat-Pnom
era sempre là nel suo splendore. Ma cosa ne sarà stato dei chiromanti che vi
abitavano quando io ero bambina? Percorrendo la sua riva a tratti ben curata,
il fiume Tonlésap sembrava ammiccarmi: – Fatima, sii la benvenuta, ti aspettavo
da tempo. Delle donne lavavano dei panni mentre i loro figli si tuffavano a
capofitto nell’acqua. La vita continua, anche se quasi ogni famiglia ha
sofferto uno o più lutti. C’erano tanti invalidi sparsi per le strade a causa
alle mine che mani spietate hanno sepolte un po’ ovunque nel suolo cambogiano.
– Vuole vedere il museo degli orrori dove sono esposti gli strumenti usati dai
khmer rossi per torturare la gente e le fotografie e gli oggetti dei morti? –
chiese la mia guida. Rabbrividii. Sentii freddo alla schiena eppure c’era
trenta gradi all’ombra. La paura dei khmer rossi incombeva ancora sulla città.

– No, il museo degli orrori no, zia Bopha, andiamo nel
quartiere dello Stadio Olimpico, vorrei rivedere la nostra casa. – Chissà che
non ritrovi qualche conoscente – si augurò lei.

Era una palazzina ad angolo di tre piani, di fronte al
mercato Olimpico. Il nostro appartamento aveva un largo balcone, delle
tapparelle di legno pesanti e sbiadite. Le scale, un po’ nascoste, erano
rimaste le stesse. Salii al primo piano: la porta era spalancata. Osservai in
silenzio l’anticamera: mi aspettavo quasi di vedere spuntare papà da un momento
all’altro. – Io abitavo qui, tanti anni fa – dissi alla donna che mi aveva
invitato a entrare. Mi diressi verso la cucina, impregnata dei dolci profumi
dei piatti preparati da mia madre. Poi andai sul balcone sul retro, dove
avevamo l’abitudine di mangiare la canna da zucchero, per interi pomeriggi,
chiacchierando chiassosamente, gettando lontano gli scarti. Tutti quanti
buttavano giù la spazzatura da entrambi lati del palazzo di fronte, e cosi
continuavano a fare anche ora: niente era cambiato.

L’anno precedente era stato mio fratello Abdoula che aveva
rimesso il piede primo di tutti noi, in Cambogia. Era circondato da una folla
di bambini che lo avevano accom-pagnato come un figliol prodigo su questa
stessa scala. Anche lui aveva ripetuto a bassa voce: – Abitavo qui tanti anni
fa. In quell’angolo c’era il letto di papà e là noi leggevamo il Corano ogni
sera, seduti in circolo. In cucina mia madre era sempre indaffarata con le
pentole, mentre noi, i bambini, non facevamo altro che litigare con i vicini
che abitavano qui sotto.

Aveva percorso tutta la strada con il solito codazzo di
bambini alle calcagna. All’angolo c’era una pagoda, il Wat Moha Montrei, di
fronte alla quale, un tempo, si divertiva ad assistere agli spettacoli di
piazza, il «Pàhi». Il popolo cambogiano ama la musica, la poesia, gli
spettacoli, lo stare insieme ad assistere a qualche commedia o rappresentazione
tea-trale. La Cambogia è celebre nel mondo per le sue famose danzatrici, con
costumi di stoffe pregiate adorni di perline e a volte anche di pietre
preziose. Vengono scelte tra le più belle bambine e iniziate, in tenera età,
alla danza, sottoponendole a lunghi elaborati esercizi quotidiani. Queste fanciulle
delicate si muo-vono sfiorando appena il terreno, accom-pagnate dalle note di
una musica melodiosa che vi avvolge in un’atmosfera surreale. Un tempo al
popolo non era concesso di assistere a questo spettacolo che era riservato solo
a ospiti illustri come capi di stato in visita oppure appartenenti a corpo
diplomatico.,

Il «Pàhi», teatro di strada, era anch’esso molto popolare.
Verso sera il suono dei tamburi attirava gli spettatori. Si formava un cerchio
intorno a due attori che facevano ridere a crepapelle. I bambini si
infiltravano in prima fila, seduti per terra, e i miei fratelli naturalmente
erano della partita. Si rideva, si urlava ad ogni parola dei due comici. Più di
una volta nella penombra si vedeva comparire mio padre, il quale, dopo essersi
aperto un varco tra la folla, indifferente allo spettacolo, si metteva alla
ricerca dei suoi figli, scrutando ogni faccia che il fascio luminoso della sua
torcia strappava al buio. I miei fratelli allora se la filavano in fretta, per
rientrare prima di lui. Mio padre viveva in un mondo un po’ a parte, senza
troppo mischiarsi con la gente. Tutto quello che voleva era che i suoi figli
stessero sempre sotto la sua protezione, e cioè a casa.

Abdoula era entrato nella pagoda. Gli anziani monaci, con i
loro vestiti color zafferano, emozionati dopo aver sentito la storia del suo
ritorno, lo avevano invitato a prendere un tè. I loro volti, solcati da rughe,
segnati dal tempo, dalle sofferenze della guerra, dalle privazioni, si erano
illuminati in un dolce sorriso quando avevano detto a mio fratello: – Tu sei un
cambogiano d’Oltremare.

Il sole era alto nel cielo e io ero persa nei miei pensieri,
avvolta da una particolare solitudine sulla riva del fiume Tonlésap. La signora
Bopha era andata a trovare un’amica e io camminavo, camminavo senza sosta,
ripercorrendo la stessa strada che facevo una volta in cyclo-pousse per andare
a scuola costeggiando per un lungo tratto il Tonlésap. Proprio in quel punto le
acque del fiume scivolavano torbide intorno all’isola di Chruoy-Changvar. I
giapponesi avevano collegato l’isola alla terraferma con un ponte che ora però
giaceva distrutto dalle bombe e bisognava servirsi del traghetto per la
traversata.

Un giorno, durante la stagione dell’acqua alta, la mamma aveva
portato i miei fratellini a far visita a un’amica che abitava sull’isola. La
signora Chanda, della comunità musulmana Cham, era venuta a prendere il
gruppetto con la sua piccola barca. Remava allegramente, molto divertita dalla
gioia dei piccoli per quella loro prima passeggiata in barca. L’acqua aveva
sommerso l’isola, raggiungendo l’altezza del pavimento delle abitazioni su
palafitte. La signora Chanda accostò la barca alla sua porta e il gruppetto
mise piede direttamente dentro casa.

Si vedevano dei bambini tuffarsi dalle loro finestre:
nuotavano e facevano delle capriole nell’acqua. I miei fratelli li guardavano a
bocca aperta. Allora Abdoula aveva appena cinque anni. Si spogliò in tutta
fretta, contò ad alta voce: – Uno, due, tre. Si tuffò e scomparì nell’acqua, sotto
gli occhi inorriditi di mia madre che a malapena riuscì a dare l’allarme: –
Aiuto! Abdoula non sa nuotare! La signora Chanda, senza un attimo di
esitazione, si buttò in acqua con un gran tonfo. La mamma, ritrovata la voce,
gridava, si disperava. Altra gente si tuffava in acqua, gli uomini spuntavano
dal nulla, chi stava facendo la siesta, chi stava mangiando, tutti alla ricerca
di mio fratello.

L’acqua del fiume aveva il colore terra cotta, era come
cercare un ago nel pagliaio. Eppure… – E’ qui! L’ho ritrovato! La signora
Chanda tirava in superficie Abdoula per i capelli, era semi cosciente. – E’
vivo? Mio figlio è vivo? – chiese la mamma ripetutamente. Poi fu colta da un
malore.

La mia guida mi condusse a trascorrere la notte presso alcuni
suoi amici in un piccolo villaggio di pescatori, a qualche chilometro dalla
capitale. Era una località abitata da gente sopravvissuta ai massacri di Pol
Pot, formata da una trentina di capanne, sulla riva del Mékong, senza
elettricità, senza acqua potabile. Intorno v’era una grande abbondanza di
banani, il che rendeva l’atmosfera accogliente e allegra.

Fui sistemata sulla veranda di una piccola palafitta. Mi
distesi su di una stuoia, protetta da una grande zanzariera, sotto lo sguardo
delle stelle. La mia prima notte in Cambogia! Impossibile chiudere occhio! Le
emozioni della giornata mi assalirono: avevo l’impressione di essere in un
film, uno scenario di vent’anni prima si ergeva davanti ai miei occhi e mi dava
alla testa come un forte vino. Ubriaca di ricordi affondati nella memoria e
tornati ora in superficie, alla fine mi addormentai a notte fonda.

L’alba! La mia zanzariera era inondata di sole, ne sgusciai
fuori e mi ritrovai faccia a faccia con un pitone che mi osservava
tranquillamente dalla sua gabbia, ad un metro di distanza. Non l’avevo notato
la sera prima, era troppo buio.


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