Ai bastardi assassini della mia terribile città.

– Driiiiiin

– Driiiiiin

– Driiiiiin

– Driiiiiin

Come
squillava.

– Driiiiiin

– Driiiiiin

Dentro di me
sapevo che quella  telefonata avrebbe
cambiato la mia vita. Adesso so – dopo tutto quel casino – che se fuggiamo da
alcune cose, queste, prima o poi ci rag-giungono, forse trasformate; se
abbandoniamo – per esempio – un’amante innamorata, il suo odio e la sua
maledizione ci raggiungerà forse nel momento in cui guardiamo gli occhi di una
giovane attrice in un piccolo cinema di un paese molto lontano. Ora so che
tutto è strettamente collegato. Bisogna solamente aspettare un poco per
scoprire la chiave tra le cose e i loro fantasmi, tra le persone ed il loro
destino.

– Driiiiiin

– Driiiiiin

– Driiiiiin

– Driiiiiin

– Driiiiiin

– Driiiiiin

Era urgente.
Che cosa penserà la vicina: Maledetto
straniero, tutto il giorno con quei suoi stupidi tanghi! E non risponde mai al
telefono!

– Driiiiiin

– Driiiiiin

– Driiiiiin

Se non
rispondo adesso, prima o poi dovrò farlo, quando la notizia sarà più densa.
Alzo il volume e Gardel invade l’appartamento. Forse i vicini non sopportano i
miei lunghi e tristi tanghi, «…ma se il
tango è argentino, no? E questo sfigato è messicano
» diranno, penseranno.
Ma lascio stare. Gardel, Carlitos canta e la sua voce vibra domandando «El día que me quieras» e tremo perché
capisco questa musica, perché è parte di me e qui, nessun italiano sa che cosa
cazzo sia il tango. Che voglia di bussare alla porta della mia vicina e
chiederle di accompagnarmi a Buenos Aires e baciare quella terra benedetta e al
contempo maledetta. E la sera portarla in un tugurio da pochi pesos dove
suonano ragazzi di un tempo, di quelli che dominano la fisarmonica e il
pianoforte meravigliosa-mente. Un tugurio con donne che ballano sempre il
tango, dove cucinano e il coltello che taglia le cipolle è il «choclo». Donne
che allattano neonati ed è tango, a letto, se amano o dormono, continuano a
ballarlo. Donne, né sante né puttane. Milonga nella voce, nelle gambe, negli
orgasmi, milonga di quartiere. E poi dire alla mia vicina: «Lo vede? Quando alzo il volume dei miei
tanghi è perché vedo tutto questo e ancora di più. Adesso capisce? E non sia
più stupida e ignorante
».

– Driiiiiin

– Driiiiiin

– Driiiiiin

– Driiiiiin

– Driiiiiin

A volte il
suono del telefono si fonde perfettamente con i ritmi del tango. Il telefono
insiste, rompe, trasmette tensione: «sto
per ucciderti ragazza
», «sto per prenderti», «sto per piangere», «sto
per tornare
», «sto per chiederti di amarmi ragazza», «sto cambiando: sarò benedetto o maledetto
dopo questo ritmo e nascondo il coltello ed il fiore per poi scegliere
all’ultimo momento
». Che cazzo! Ma se è vita! Una vita! Il tango è la vita,
cavolo!

Stranamente
l’oggetto più vecchio che mi accompagna in ogni luogo è un disco 45 giri inciso
quasi per caso in un caffè di Buenos Aires nel 1916: La Cumparsita! Mio Dio! Ed ho voglia di piangere o di ballare, non
lo so. So solamente che fu l’unica cosa che presi dalla sala da ballo di mia
nonna il giorno dopo la sua morte. Lo ascoltavo sempre in silenzio con un
rispetto ossequioso mentre le sue ragazze ballavano con qualche tizio. Lo
nascosi sotto la giacca e non ho mai raccontato a nessuno che lo avevo rubato.
Forse era l’unica cosa di mia nonna che desideravo. Forse è il ricordo più
forte e vivo che mi rimane. La Cumparsita
: un tango, una vita.

– Driiiiiin

– Driiiiiin

– Driiiiiin

– Driiiiiin

– Driiiiiin

– Driiiiiin

– Driiiiiin

Mi chiedo
perché lo rubai, perché era l’unica cosa per la quale avrei corso il rischio di
risvegliare la furia di mamma. Sarebbe stato meglio chiedere una parte
dell’eredità, forse l’appartamento della nonna, qualche suo gioiello, la sua
fantastica collezione di tutto il Rock degli anni ‘60 e ‘70. Forse solo
piangere come piangono tutti quando qualcuno muore. Rimasi solo nel Boston,
senza clienti che volessero ballare. «La
signora Carmelita è morta ieri, per il momento chiudiamo
». Solo, nel Boston
a metà di Belisario Dominguez e le sue chiese barocche, nel mezzo di Città del
Messico, nel mezzo del funerale. Solo. Nessun ballo, nessun disco quella
mattina, unicamente colombi che volando passavano da un balcone all’altro della
sala da ballo… solo, ragazzo adolescente che non piangesti lì la morte di tua
nonna ma, come ti ho già detto prima, tutto arriva lentamente come la Milonga del Angel, e ti ricordi di tutto
ma proprio di tutto in un giorno e in una città diversi: Trieste. Te lo riversa
addosso una mattina di vento e di nuvole grigie che si muovono come colombi che
ballano su un balcone della sala da ballo mentre tutti sono al cimitero per il
funerale di Doña Carmelita, tua nonna; e tu desideri solamente che non
ritornino mai più, né i ricordi, né le persone. Metti il tuo disco di tango e
il Boston si avvicina lentamente; in quel momento tiri le somme con te stesso,
senza altre persone, come allora e come adesso. Le note del tango interrompono
le tue lacrime che non versasti allora per tua nonna, però ti manca, come il
resto della famiglia, mamma, Paty, Roberto, Saul, Hiriberto, Ulises; tutti
costoro e tutti gli altri ancora. Il Messico ti cade addosso e non  puoi fermarlo, ti lasci colpire; cammini
verso il telefono e noti quella eco tipica solo delle chiamate intercontinentali,
quelle che sanno di oceano.

– Si, pronto!

Rispondo in
italiano pur sapendo che mi chiamano dal Messico.

– Juan Carlos? Ai bambino! Finalmente!

Riconosco mia
madre totalmente sconvolta.

– Grazie a Dio ti trovo! Stavi lavorando?

– No, no. Sono appena tornato da una
passeggiata
. Era inutile
raccontarle del mio «lapsus tanghistico».

   – Come stai mamma? Ti sento strana.

– Roberto! È Roberto! – disse senza poter continuare, e durante
tutta la mezzora che durò la telefonata lasciai che piangesse solamente, e attraverso
quel pianto seppi della morte di mio fratello, il secondogenito. Il dolore mi
avvolse come una scossa elettrica che inondava tutto il mio corpo. Lasciai
piangere mia madre perché lo stava facendo anche per me. Alla fine cercò di
spiegarmi la sua morte inutile e disperata ma io non l’ascoltavo, per la mia
mente stava passando un giovane che correva disperato per il centro storico di
Città del Messico tra chiese alte e grigie e con un disco di tango custodito
come si proteggono i tesori più amati.

Mi comunicò
il giorno del funerale e mi pregò di essere lì. Le dissi di si. Erano giorni
nei quali l’Italia mi stava molto stretta e stavo cercando solo una scusa per
poter andare in Messico. Tristemente il destino me ne stava fornendo una in
quel momento. Preparai solo una valigia ma misi dentro il mio disco rubato. – Se per caso non dovessi tornare in Italia –
 pensai
– o semplicemente perché ne ho voglia ti
porto con me
– dissi, e chiusi la valigia. Quanto freddo a Trieste; quanta
solitudine, quante persone che camminavano in quel lutto perpetuo. Presi il
treno per Milano e iniziai a piangere e a scrivere. Facevo i conti tra me e me.

Il giorno
dopo l’aereo partiva puntuale per il Messico.

Y

Una signora
minuta e dall’aspetto umile guardò verso il basso per evitare che i suoi occhi
incrociassero gli occhi di quella madre anziana e disperata che in
quell’istante entrava nel reparto di medicina intensiva. Entrambe erano madri
ed entrambi i loro figli stavano morendo in quel momento. Il figlio assassino e
il figlio assassinato, una cosa assurda ma normale in quella città. Una signora
talmente umile che intuiva appena il destino che si giocava suo figlio tutte le
notti che vagava per le strade in compagnia di altri cani assassini. Madre che
partorì al meglio un essere, e senza rendersene conto, con il passare degli
anni, questi si trasformò in un cane rabbioso. E l’altra, l’altra madre con sua
figlia, addolorate, non riuscivano proprio a capire perché stesse morendo in
quell’ospedale il loro caro, colui colpevole solo di trovarsi nel posto
sbagliato al momento sbagliato senza essere né cane né assassino. Fottuto
destino. Maledetta città.

– Rispondimi Roberto! …per favore.

– Signora Carrillo, – disse il medico in modo solenne – è inutile. È in stato di choc, è meglio lasciare che riposi. Ironico,
forse. Come si può lasciare riposare un uomo che ha ricevuto diciassette
pugnalate, colpi, calci e tutto ciò che può venire in mente a boia ignoranti e
possenti?

– Sembra che sia sveglio, ma  non ragiona. – continuò il dottore –
Signora, suo figlio ha diverse emorragie interne. Abbiamo fato tutto il
possibile ma adesso solo Dio può decidere.

E Patricia,
sua sorella, pensa: «Sì, Dio, Dio adesso,
per noi altre e per questo stronzo di un dottore, scommetto che quando aveva esami
all’università non si è mai raccomandato a Dio…
»

– Gli parli lentamente; deve trasmettergli
pace.

E Patricia
ancora: «La pace. Morire in pace. Vivere
in pace. La pace dell’anima, dello spirito. E prepararlo. Qui, adesso, e come?
Se nessuno me lo ha detto. Parlagli mamma! Salvalo con la tua voce. Roberto non
deve morire. Anche se per poche ore, anche se solamente salvi me. Dio. Mamma,
che succede? Tutto questo non è vero. Io no mi trovo in un ospedale di merda
per vedere come muore dissanguato mio fratello
».

– Roberto… E la signora Elena
accarezzava i capelli bagnati del figlio. Cercava di ricordare come
l’accarezzava quando era bambino e, spaventato tra le onde del mare, chiedeva
sicurezza tra le braccia della madre.

– Che cosa è successo Roberto, perché ti
hanno fatto questo?
E piangeva, mentre il dottore scuoteva la testa e si
allontanava rapidamente dal letto.

– Chi è stato, Roberto? Perché?! Perché?!

Nella città
esistono migliaia di domande che vagano e alle quali nessuno mai potrà dare
risposta. Quella mattina, nascosta nell’ospedale della Croce Rossa di Balbuena,
veniva alla luce un’altra domanda senza risposta. Mentre Città del Messico si
preparava a un altro giorno, a un’altra battaglia.

– Alcuni pesos – iniziò a dire Roberto, ma
non stava parlando con sua madre. Semplicemente parlava al suo «Io» che moriva
poco a poco. – Alcuni pesos schifosi non
perché fossero maledetti; schifosi perché erano pochi, perché non mi hanno mai
lasciato respirare in pace, tranquillo
.
Patricia non capiva e gli diceva angosciata: –Calmati fratellino. Ce lo dirai dopo. Ma proprio in quel momento si
rese conto della gravità della situazione. Il sangue lentamente attraversava le
bende che coprivano il suo corpo. Vide il viso deforme, gonfio e viola come mai
aveva visto in un essere umano. Aveva perso un occhio e l’altro era
completamente chiuso, il naso era a pezzi e la bocca rossa gli sanguinava
talmente che era un miracolo che potesse emettere delle parole.

– Ho voluto vederlo, cazzo! Il mio Boston, il
mio amato Boston! Maledetto giorno! Maledetta città! Oggi ho venduto poco, solo
un catalogo di aspirapolvere
.– diceva disperato – Solo tre miseri pesos! Che giornata Dio, senza soldi e con tutto quello
che mi è piovuto addosso
.

– Si bambino, lo so. Quei maledetti assassini!
– disse la madre convinta.

–
Mi hanno ucciso i ricordi
– disse
e poi iniziò a tossire ininterrottamente.

Si accasciava
lentamente mentre la morfina faceva effetto. Le parole della madre si perdevano
per sentieri lontani e le preghiere della sorella diventavano poco a poco note
musicali:

Sì, musica cazzo!

«E’ già arrivata la maestra Jimena! Nonna,
la maestra Jimena!». Non ho mai nascosto, non ho mai nascosto la mia passione
per la maestra Jimena. Ogni mattina la nonna litigava con tutti i fornitori ai
quali doveva soldi e non perché fosse povera bensì perché quella era la sua
filosofia: contrattare. Sia per un milione che per due pesos doveva lottare
fino all’ultimo minuto, mentre io aiutavo le sue ragazze mettendo la musica che
mi chiedevano per le loro lezioni di Paso Doble, di Cumbia e di Merengue.

Ogni
mattina arrivava la maestra Jimena e io mi affrettavo a comprare il latte per
mia nonna affinché potessi essere lì prima della maestra e potessi vederla
mentre saliva le scale del Boston come una regina o come una dea che concede –
in cambio di un favore, di un miracolo – un’altra opportunità ai mortali di
ammirarla: sale le scale e i suoi fianchi giocano con qualcosa di magico che io
non capisco ma che comunque è lì. Si avvicinava al balcone interno e i suoi
capelli rossi e lunghi mi coprivano la visuale. Arrivava sempre tardi,
all’ultimo, quando tutte le altre avevano già fatto colazione e si preparavano
a dare lezioni ai neofiti del giorno.

Fosti tu, donna fatale; la mia prima donna,
la mia ultima donna. Io rimanevo zitto mentre tu mi passavi a fianco sorridente
e mi salutavi maliziosamente consapevole del tuo potere infinito, mentre ridevi
dei rimproveri di mia nonna per il ritardo. Jimena, ogni giorno io ti mettevo
la musica che mi chiedevi e quegli stupidi giovani credevano che tu stessi
dando il meglio di te stessa. Perché quella fu la tua migliore arma nel Boston
e nella vita: far credere a tutti che davi il meglio di te stessa, le migliori
lezioni, i passi più difficili, i sorrisi più promettenti…. Solo adesso lo
so, adesso che sono uomo, allora no, mai in quegli anni ingenui.

Ai Jimenita
insegnami di nuovo a ballare. Adesso come allora. Ma fallo, te lo chiedo in
nome di Dio. Salvami con i tuoi passi. Dammi ciò che mi hai dato quella mattina
che nessuno venne alle tue lezioni e per caso – un miracolo – rimanemmo soli
nell’enorme sala da ballo. Era venerdì e la gente camminava tranquilla per
Belisario Dominguez. Io provai a mettere una musica strana, moderna, ma tu mi
chiedesti una Salsa e mi tirasti via da quell’angolo dove c’era il giradischi
per insegnarmi a ballare. Fuori la nonna lottava con qualche fornitore o
qualche cliente. E tu sentisti il mio respiro profondo e lasciasti che i miei
occhi cadessero su di te. Mi baciasti Jimena e mi portasti nell’altra sala
piccola che in quel momento era buia, e i tuoi seni si rivelarono a me, mi
sfiorarono il viso e tu mi chiedesti di baciarli. Imparai a ballare lo stesso
giorno in cui imparai ad amare. Celia Cruz cantava a tutto volume nell’altra
sala, mia nonna concludeva affari, la città viveva seguendo il suo ritmo, e io,
nell’oscurità, mi trovai di fronte al mio meraviglioso destino: il tuo corpo
nelle mie mani, la tua lingua umida che percorreva il mio petto. Il tuo essere
Jimena nel mio essere. Per nascere uomo, cazzo, e amare, sempre amare in
qualche modo ogni volta che ballavo con qualcuna…

Y

Un uomo esce
da un ufficio piccolo e puzzolente cercando di trattenere la saliva trasformata
in bile dalla rabbia. Mentre attraversa la strada conta tra le mani tre pesos e
dice: – Perfetto, solo un maledetto
catalogo!
Aveva venduto poco, come mai in vita sua e si rende conto che
quello era il gioco della città: – Chi
non sopravvive che se ne vada al diavolo.
E sorride per non piangere. In
quelle ore pomeridiane passano molte auto per il centro storico di Città del
Messico.

Passano le
ore, cammina per le strade più diverse e comuni. A volte si ferma per osservare
qualcosa che forse non aveva mai visto: gli alberi che popolano la Alameda o le
cupole di Belle Arti, e percorrere con calma gli uffici delle Poste senza dover
mandare una lettera a qualcuno, camminare lì semplicemente immaginando di
trovarsi a Venezia. Ma guarda di nuovo la sua mano e vede i tre pesos che
rappresentano la sua fortuna e capisce il gioco della sua città in cui non
resta più spazio per i sogni e le speranze, per quanto piccoli e semplici
possano essere. Lo capisce e lo accetta, rendendosi conto che in tutte quelle
ore di vagabondaggio non aveva alcun senso «sognare» un avvenire, bensì un passato.
Sognare i momenti più belli della sua vita e permettere a essi di salvarlo da
questa città bastarda. Mentre le ore scorrevano velocemente…

La notte
regala alle bestie il loro momento migliore. Eclissi della ragione. Cuori
ciechi per la rabbia nutrita durante intere generazioni. Questa città; canzone
della pazzia, quella che si tagliò le mani e nonostante ciò seppe trovare il
modo di darsi il colpo finale e procreare esseri feroci e malati che cercano
solamente il male e la distruzione appena le strade restano senza luce. A volte
è inutile pronunciare parole di misericordia o lasciare loro orologi e denaro.
A volte nemmeno il sesso rubato a brave ragazze riesce a colmarli; vogliono di
più: colpire fino a dissanguare, uccidere, sentire come i coltelli entrano
nella carne e aprono solchi che mai più ci faranno ritornare alla vita di
prima.

Una notte.
Quella notte. Quel giovane che non si rese conto che era tardissimo, che si
trovava in un maledetto centro storico. Città del Messico. Belisario Dominguez.
Le chiese sembravano monoliti grigi e muti che tennero nascosto il pericolo,
chiusero le porte, non fecero suonare le campane e non lasciarono correre quel
giovane, non lo obbligarono ad uscire dai suoi ricordi né gli salvarono la
vita.

            I cani arrivarono. Dieci, quindici.
Per iniziare bene la serata volevano farsi, e videro un vecchio edificio semi
abbandonato e distrutto che all’entrata mostrava un enorme cartello verde e
arrugginito dove, nonostante le cancellature, ancora si poteva leggere: «Sala da
Ballo BOSTON». I cani entrarono, e in un cortile buio tiravano fuori la cocaina
e ridevano contenti mentre la notte mostrava il loro vero volto. Da una stanza
uscì un uomo timido che con gli occhi umidi chiese il permesso di poter uscire
da quel luogo. I cani lo trattennero, lo spinsero fino a farlo cadere, gli
ordinarono di spogliarsi; egli non voleva, consegnò l’orologio, il denaro – tre
pesos! –, lasciò il catalogo e il suo abito. Chiese pace, chiese misericordia.
Ma i cani ridevano e lo colpivano. Le sue grida erano inutili. Quel centro
storico era muto, era morto, ancora una volta si spargeva sangue in quel posto.
I cani non si stancavano, l’uomo supplicava pietà ma non serviva a niente. Una
giovane – di circa vent’anni – gli si avvicinò con la sua lingua putrida e
cercò di leccargli un poco di sangue, si fermò all’altezza dell’orecchio del
giovane e gli disse contenta: – Sai? Oggi
morirai, stronzo! Oggi muori e non ti salva nessuno!
E la cagna estrasse un
coltello per poi cercare di ficcarglielo nel collo. La vittima si mosse
all’ultimo momento, sentì un dolore acuto in un occhio e mentre l’immagine si
cancellava poté vedere il suo occhio che, tra tessuti e spruzzi di sangue
fresco, cadeva tra i piedi degli altri cani. «Mio Dio! Morire così! Morire tra bastardi!» L’uomo non soffriva più, già sapeva che sarebbe morto e si
arrabbiò come mai in vita sua; strappò il pugnale dalle mani della ragazzina e,
disperato, lo ficcò nel petto del primo che vide. Poi molte urla. Orgia di cani
assassini, droga e sangue senza fine; altri colpi e altre pugnalate fino a
stancarsi, e persi nelle loro maledette visioni, abbandonarono i corpi di
quelle due persone che sembravano morte. Lasciati lì in fin di vita: la vittima
innocente e il boia diabolico. Assassini che escono a respirare la loro città,
a sentire il fetido odore di 20 milioni di abitanti a loro completa
disposizione. Uscire di notte. Maschera perfetta della pazzia.

Y

Quante ore di volo. Attraversare
l’Atlantico in una notte. Uccello di acciaio che pesante ci avvicina
velocemente a Città del Messico. Siamo tanti passeggeri. C’è chi arriva per la
prima volta e chi ritorna come marinai legati da canti belli e terribili al
loro utero cittadino. Città del Messico. Arrivare la sera e accendere i nostri
occhi con le sue meravigliose luci notturne.

Ogni passeggero porta in città una storia. Ed io qui consegno la mia.

Un ispettore della dogana mi chiede se sono residente o di passaggio. Non so che cosa
rispondergli. Affianco a me passa un anziano canticchiando un vecchio tango di
Anibal Troilo mentre dalla sua giacca squilla insistentemente il suo cellulare.
L’ispettore aspetta la mia risposta. «Di
passaggio o residente?
». Io
ascolto la voce del vecchio che si allontana cantando La ultima mentre estrae lentamente il telefono. Che storia starà
per consegnare alla città? Spero solamente una differente dalla mia.

Una storia
fatta di canti di libertà e speranza infinita.


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