Il futuro mi preoccupa, perché è il luogo
dove penso di passare il resto della mia vita.
Woody
Allen
Il sole
declinava al tramonto e si sentiva alitare unaria di mare, mista allodore di
frescura diffuso dalla pioggia che era caduta tutto il giorno. Ai lati dei
fangosi passaggi, sedevano uomini e donne che si erano incontrati lungo la
strada della vita e guardavano il fiume Vjosa che quel giorno era immobile
sotto il cielo, e tuttavia con un lento moto in superficie come se in quel
riposo respirasse. Qualcosa in loro offriva una debole eco a quel moto e
agitava le profondità della loro memoria producendovi un tumulto. Un uomo dai
capelli candidi, che accoppiava alla maschera della vecchiaia quella della
tristezza teneva i pugni sulle ginocchia e il capo reclino in avanti come se
stesse guardando in un precipizio, poi sollevò il viso alla brezza fresca e
parlò in curdo a una donna che stava gingillando un bamboccio che poppava
gagliardamente, palpeggiando il seno con la zampetta rosa. A poca distanza,
alcuni bambini vestiti dimessi giocavano a fare buchi in terra, e sul
lungofiume un piccolo solitario gettava indolentemente sassolini nellacqua.
Inaspettatamente, da una strada sterrata che sinternava in mezzo a un
boschetto, sbucò un gommone trascinato da un trattore e tutti, donne, uomini e
bambini, si alzarono in piedi.
Rrini ulur, rrini ulur, state seduti, gridò un giovane
albanese gesticolando per farsi intendere.
Tutti obbedirono, pochi parlarono, e se qualcuno aveva
qualcosa da dire, poteva solo riferirsi al suo futuro perché il futuro era
ancora suo e lo poteva dipingere nei colori che preferiva. E mentre le donne
covavano con gli occhi i bambini per tema di un incidente con quellespressione
ferina propria della maternità, il gommone veniva messo in acqua e assicurato a
un palo, al quale aderiva un marciume filamentoso come capigliature verdastre.
Attraverso il sentiero che si attorcigliava tra i cespugli
bassi fino al fiume, giunse un giovane, uscito dalle più insondabili densità
dellombra sociale, che occupava la strada con unirritante aria di superiorità
e che pareva fare grazia al prossimo della sua vista. Accompagnava una ragazza
che indossava dei fuseaux imitazione leopardo e sventolava le sue gambe
perfette con la nonchalance di una soubrette davanspettacolo. Appena dietro di
loro, una donna camminava al fianco di due uomini e un raggio di sole
orizzontale sfiorava il volto della bambina che teneva in braccio,
addormentata, con la boccuccia aperta che sembrava un angelo che bevesse la
luce.
Ma è possibile, Imer, domandò uno dei due uomini
allaltro, che da quando sono rientrato in Albania non sono riuscito a
vederti?
Gezim, cugino caro, è colpa del governo turco, disse
Imer, semplificando al massimo la sua risposta e con la casa piena di
profughi curdi sono costretto a fare viaggi in continuazione.
Allora, presto diventerai ricco! esclamò Gezim
stampandogli una pacca sulle spalle.
Magari! replicò Imer, rivolgendo al cugino lo sguardo
degli occhi leali e sereni. Ma le bocche da sfamare sono tante. Dobbiamo
pensare anche alle famiglie degli scafisti detenuti in Italia, e per lavorare
in pace bisogna dare a ciascuno la sua parte e strizzò locchio a Gezim
facendo il gesto di gettare leggermente qualcosa in aria con una mano.
A proposito di soldi, disse Gezim, cacciando dalla
mente la ridda di pensieri che il gesto di Imer gli ispirò, Arben si rifiutò
di farci pagare la traversata.
È normale, sa che siamo cugini, commentò Imer, poi mi
risulta che hai fatto un bel regalo al piccolo Sanimet. Pagherai la prossima
volta!
Speriamo che non ci sia più una prossima volta, non mi
piace entrare a casa degli altri di nascosto, alitò la donna cullando la sua
piccina che si era svegliata.
È preoccupata, la giustificò Gezim, suo marito,
rivolgendosi al cugino, sostiene di avere un brutto presentimento.
Ma no, Aleksandra! Andrà tutto bene, viaggerai col mio
gommone e io ho fama di miglior scafista di Valona, affermò Imer,
raddrizzando il collo e la schiena con un movimento pieno di strano orgoglio.
La sciocchina, riprese Gezim, smussando lingiuria con
una sfumatura affettuosa, è andata fino a Tirana per chiedere il visto
allAmbasciata dltalia!
Ma non
te lo rilasceranno mai il visto, Aleksandra! esclamò Imer scuotendo la testa
con un sorriso sagace. Devi solo pazientare, prima o poi Gezim si metterà in
regola e potrà chiedere il ricongiungimento familiare.
Ma abbiamo una bambina, Imer, gli disse Aleksandra
prima di interrompersi per uno scoppio di dolore, e, dopo aver superato
unemozione che nessuno avrebbe potuto contemplare senza parteciparvi, continuò
abbassando la voce rotta qua e là, ma chiarissima: Ricordati che mio fratello
Enver è stato inghiottito dal mare… un giorno venne qualcuno, parlò di un
naufragio, fu un momento, un lampo, come una finestra bruscamente aperta sul
destino del mio amato fratello… poi tutto si richiuse; non ne sentii più
parlare, e per sempre.
Ci fu un momento di silenzio, un gemito dellombra che gli
albanesi intendono, poi Gezim si rivolse a sua moglie con una voce strangolata
e con tenerezza:
Aleksandra, vita mia, adesso che stai per fare la domestica a casa del mio
padrone, tutto sarà più facile per noi, risparmieremo, e come ti ho promesso se
riusciamo a finire di costruire la nostra casetta prima di metterci in regola,
torneremo lo stesso in Albania: il poco basta e il troppo è assai.
Bah! esclamò Imer, scuotendo la testa di scatto in
perfetta armonia con il dispregio espresso da quel monosillabo. Ma che
vorresti fare a Valona? Già è piena di gente venuta dalla campagna e che lavora
per quattro soldi.
Lo so, Imer, lo so, disse Gezim sconsolato e
aggrottando pensosamente la fronte, poi indicò con un cenno del capo la ragazza
coi fuseaux e sbottò: La miseria offre e la società accetta . Sospirò e
riprese: Prima della rivolta del 91 il contadino aveva la certezza delle
sementi, dei concimi e dei mezzi agricoli ma oggi, anche i vecchi trattori sovietici
e cinesi sono completamente scomparsi per mancanza di pezzi di ricambio e la
nostra campagna si è trasformata in una gran nuvola di polvere e disperazione.
Non possono mica lavorare la terra come ai tempi di re
Zog, commentò Aleksandra.
Se non ci fossimo noi scafisti questo Paese diventerebbe
una gabbia per topi affamati, finiremmo per ammazzarci fra di noi e vigerebbe
la hakmarria, la legge della
vendetta, affermò Imer amareggiato prima di rivolgersi ad Aleksandra. Ti
bagnerai un po, non potrò avvicinarmi troppo alla riva per non fare incagliare
il gommone, ma farò arrivare tutti quanti sani e salvi come ho sempre fatto,
promise, con grande enfasi e con fiducia innata nella forza della sua
convinzione, ignaro della tragedia che stava per investirli.
Giunti
vicino al gommone, Imer si chinò sulla piccola Valbona e le fece il solletico
con un dito, canticchiando con una voce alterata dalla leziosità tipica di chi
si rivolge a un bambino. Valbona rise come unaurora. La baciò più volte sulla
fronte poi disse:
Andate a sedervi, devo preparare i motori col mio
apprendista che presto occuperà il mio posto . Infilò due dita in bocca,
fischiò, poi chiamò: Fatmir, al lavoro, e un ragazzone vispo di circa
quattordici anni che passeggiava con aria imprenditoriale avanti e indietro per
il lungofiume corse verso il gommone.
Mentre Imer armeggiava
con i due fuoribordo Yamaha di 250 cavalli facendo sciabordare le eliche
e Fatmir lo fissava con la testa china di lato come un pettirosso curioso, si
avvicinarono due uomini. Il più giovane, dallaspetto semplice e gaio che
disponeva a suo favore, si rivolse a Imer in un italiano da cui non poteva
certo dirsi assente un robusto accento nigeriano:
Imer, questo signore curdo, Salah, afferma che la sua gente
è preoccupata e vuole sapere quando si parte.
Imer spense i motori e si rivolse al giovane nigeriano:
Joshua, spiega a Salah che capisco quello che prova
perché so che stanno camminando da un mese e la strada per arrivare in Germania
è ancora lunga . Si fermò per dare il tempo a Joshua di tradurre in inglese,
poi riprese: Digli che non vogliamo mettere a rischio la nostra vita e che ci
muoveremo solo quando riceveremo il via e indicò a Joshua la lunga antenna
della ricetrasmittente che un uomo teneva in mano.
Al chiarore del giorno morente, la collina della base
militare albanese dellisola di Sazeno si stagliava sullorizzonte, salda e
verdeggiante. Gli equipaggi che stavano per uscire in mare lasciarono
ledificio messo a nuovo della Guardia di Finanza italiana e scesero lungo il
sentiero serpeggiante tra la ricca vegetazione che conduceva al porto. Sui moli
sconnessi giacevano gli scheletri arrugginiti di quattro motosiluranti
albanesi, fatte affondare durante la rivolta del 97; dentro lacqua erano
ormeggiate due motovedette italiane classe «Squalo 5000». I potenti motori
borbottavano già e, dopo un breve tempo, le due motovedette salparono per
tenere sotto controllo il tratto di mare tra Capo Linguetta e lisola di
Sazeno, il corridoio utilizzato dagli scafisti per dirigersi verso il Salento.
Nel crepuscolo che si addensava, i
radar sorvegliavano la situazione, mentre le due «Squalo», luna fuori lisola
di Sazeno e laltra dietro Capo Linguetta, si facevano cullare dallacqua
nellattesa della preda. Sul ponte qualche nostalgico si volgeva alla linea del
mare toccata allorizzonte da una striscia di luce argentea diffusa da un sole
invisibile, che rivelava le navi mercantili come altrettante ombre.
Allimprovviso, il comandante della motovedetta vicina a Sazeno mise sotto
sforzo i motori e, a luce spenta, virò a sinistra puntando la prua su Capo
Linguetta segnalando in codice via radio allaltro mezzo della Finanza
lintercettazione di un «bersaglio mobile»: linseguimento era iniziato. Appena
la motovedetta ebbe scapolato la penisola di Karaburun, il braccio della baia
di Valona, i cannocchiali a intensificazione di luce svelarono, su sfondo
verdastro, lesistenza di un gommone, subito raggiunto e costretto a
costeggiare la base dOricum risalendo verso Valona.
Lo scafista accelerò, finse una
manovra per passare di prua allo «Squalo» poi decelerò bruscamente lasciandosi
superare da quel siluro galleggiante in grado di raggiungere i cinquanta nodi,
e lo superò di poppa. La manovra riuscì ma le due motovedette della Finanza
sfrecciavano ormai parallelamente. In mezzo, il gommone. Nuovamente costretto
ad avvicinarsi alla costa, inseguito a breve distanza dai due comandanti, senza
turbamento e con il plauso della coscienza, attenti a evitare qualsiasi
abbordaggio, qualsiasi «incidente», in acque albanesi.
Il gommone fuggitivo compì una
nuova manovra brusca, imprevista e si fermò del tutto illuminando con un faro
le due motovedette della Finanza.
Figli di un cane! esclamò
lufficiale che aveva il comando tattico delloperazione. Ci hanno giocato,
era unesca, un diversivo.
E avvisò immediatamente la Centrale
operativa della Finanza di Durazzo dallertare Otranto: il radar segnalava
altri «bersagli mobili» che puntavano sul Salento, ormai fuori portata.
Il poliziotto albanese che si
trovava a bordo della motovedetta italiana comunicò laccaduto allunico
motoscafo albanese in zona, e rimase per un bel po a fissare la sua radio
ridacchiando con un misto di godimento e ammirazione che gli tingevano il viso
di rosso fuoco.
Durante lultima fase
dellinseguimento, Imer ricevette via radio il segnale convenuto; il gommone,
carico di profughi curdi, di migranti e di qualche avventuriero, percorse un
tratto del fiume Vjosa, superò la zona della palude che a quel tempo era
desolata, opprimente e solitaria, poi entrò nella laguna di Valona e cominciò a
planare, fronteggiato dallimmensa notte.
Ora, davanti ai condannati
allesodo e alla sopravvivenza cera una muraglia orizzontale, una muraglia
dacqua e di buio ma qualcuno, con calda fantasia, già si figurava la vita che
avrebbe condotto in Italia, abbellendola di minuti particolari che lo facevano
trasalire di gioia mentre lo splendore, la ricchezza e la felicità gli
apparivano alla rinfusa, in una sorta di irraggiamento chimerico. A molti altri
invece, da sempre ignudi sotto la brezza sferzante della sventura, si
ridestarono in petto con maggiore dolore tutti i sentimenti così crudelmente
feriti, tutta la vergogna e langoscia, ma conservarono il silenzio solenne che
si erano portato dalle case distrutte nella terra negata.
Il gommone si stava allontanando
sempre più dalla costa, ma la mente di Aleksandra non poteva abbandonare il
posto con la stessa rapidità, e mentre la piccola Valbona dormiva profondamente
nelle sue braccia fatte di tenerezza, lei si voltò verso Valona, prima che la
buia pianeggiante distanza la inghiottisse non lasciando più nulla di visibile
ai suoi occhi. Sulla sua destra vide una catena di montagne, dolci e maestose,
sulla sua sinistra invece il paesaggio era più morbido e una lunga striscia di
terra piatta con due gobbe finali separava il mare dalla gran laguna. Valona,
trapuntata da minuscoli punti luminosi, esibiva, fiera, le sagome dei palazzoni
in costruzione; e mentre i ricordi dellinfanzia affollavano alla mente di
Aleksandra, tentò di sorridere ma le sue labbra si rifiutarono e rivide il
volto che sua madre Albana levò ai cielo, le mani congiunte e tremanti, e
langoscia di tutta la persona nellapprendere che sua figlia stava per
attraversare il mare come aveva fatto Enver.
Una lacrima che si era a poco a
poco raccolta nellangolo delle palpebre, fattasi abbastanza grossa perché
cadesse, le rigò la guancia poi si fermò in bocca. Aleksandra ne sentì il
sapore amaro. Chiuse gli occhi per non vedere o piuttosto per abbandonarsi
allonda dei sentimenti frammisti dinfantili ricordi e di speranze informi
come fantasmi che la vista di Valona le suscitava, ma nella ressa dei suoi
pensieri, in gara con il sommovimento del gommone, sempre in primo piano
rimanevano il mare e le sue preoccupazioni. Tornò più volte, con un incessante
singhiozzo nel cuore, a volgersi verso la terra sempre più lontana, con Valbona
stretta al petto, prima di addormentarsi, non proprio del tutto da non udire il
ronzio del motore e le voci, senza distinguere le parole.
Ridestatasi a mezzo da quel lungo e
scomodo dormiveglia, scoprì che il gommone era fermo nella distesa lugubre.
Alla prima si credette vittima di unallucinazione, poi la ragione la convinse
della paurosa realtà mentre, a occhi spalancati nella luce di una sottile falce
di luna, girava lo sguardo per la galleria delle facce dallespressione così
dura che nasce dallabitudine alla sofferenza.
Perché siamo fermi? domandò a
Gezim mentre simpadroniva di lei la strana sensazione che ciò fosse già
accaduto prima, in un tempo indeterminato, e che sapeva in anticipo quanto
stava per dire.
Abbiamo un motore in avaria,
rispose Gezim con una voce arrochita dallangoscia e che si sentiva appena.
Aleksandra sentì qualcosa dentro di
sé, in profondità gridare di panico e un brivido le passò per il corpo come un
presagio di morte, e nella sua mente sconvolta cominciava il ribollio di mille
congetture che riempivano di sinistri bagliori i suoi occhi. Si chinò su
Valbona che la guardava come un uccellino pieno di buone intenzioni, poi tese i
muscoli della schiena e del volto per tenere a bada il tremito e vincere il
senso di terrore che laveva pervaso, e, dopo aver ripreso un certo dominio
sulla propria angoscia domandò a Gezim:
E laltro motore?
Quello dovrebbe funzionare
ancora, non è stato usato, ma non possiamo ripartire senza aggiustare quello in
avaria, è troppo rischioso non averne uno di riserva.
Aleksandra si voltò verso Imer,
vide che stava maneggiando il fuoribordo guasto sotto la luce di una torcia che
Fatmir teneva in mano, e le sembrò che la morsa di ferro che le stringeva il
cuore da qualche minuto si allentasse.
Annottava e soffiava un debole
vento freddo.
La piccola Valbona assunse il suo
pasto con unaria tanto conciliante che pareva chiedesse addirittura scusa al
biberon per la libertà che si prendeva di popparlo, poi la madre la protesse
dal freddo, sistemandola fra il petto e il cappotto abbottonato.
Dopo più di unora di tentativi,
Imer disse in italiano, con una smorfia, come se ricordasse lestrazione di un
dente: Un brutto affare . Poi interpellò tutti con uno sguardo pieno
dellenergia della disperazione. Fu quasi unesplosione: Questo fottuto
giapponese non ne vuole sapere di riavviarsi e siamo più vicini allItalia che
a Valona. Fanculo, se siete daccordo continueremo il viaggio con un solo
fuoribordo, ma pregate per il mio ritorno a casa.
Joshua tradusse in inglese a Salah
che, a sua volta, tradusse in curdo. Dapprima ci fu un breve silenzio perché le
violenze del destino hanno questo di particolare, esse ci strappano dal fondo
delle viscere la natura umana; poi qualcuno parlò in nome di tutti con aria di
superiore saggezza:
Partiamo, fratello. Il Gran Dio
ti farà sicuramente grazia durante il tuo ritorno.
Imer girò la chiave e premette il
pulsante per avviare il fuoribordo… Provò una seconda volta, poi una terza…
Bestemmiò e si fece smarrito tingendosi a poco a poco di spavento, il corpo
agitato da un tremito impercettibile, facendo sprigionare nel gommone una sorta
di bruma visionaria, e lallucinazione della catastrofe simpadronì di tutti
spalancando precipizi pieni di notte.
Lo scafista tornò a maneggiare i
motori e a controllare limpianto elettrico, e nei suoi occhi illuminati dalia
torcia si vedevano passare frequenti scatti dimpazienza.
Passò molto tempo e i cuori erano
oppressi.
Una donna curda aveva messo le
braccia conserte, lasciandosi un po oscillare avanti e indietro poi fu
sopraffatta da un accesso incontenibile di pianto angosciato e cominciò a
parlare alle altre donne con unaria insensata, grave e straziante; piegata in
due, scossa dai singhiozzi, accecata dalle lacrime, torcendosi le mani e
tossendo di una tosse secca e breve. Molti bambini piansero aggrappandosi alle
loro madri. Accanto ad Aleksandra sedeva il vecchio curdo dai capelli candidi e
dalle scosse delle sue spalle lei vide che stava piangendo; un pianto
silenzioso, pianto terribile. Si sentì colpita dal suo dolore cupo e taciturno,
e tutte queste cose, realtà piene di spettri, fantasmagorie piene di realtà,
avevano finito per crearle una sorta di condizione interiore quasi
inesprimibile. Il cuore le mancò di nuovo, sopraffatto da palpiti frenetici,
quasi di terrore, come se avesse appena perso qualcosa o stesse per perderla
per sempre. Si voltò verso Gezim e gli disse con una voce che era più vicina
allurlo che alla parola:
Moriremo tutti, moriremo tutti,
te lavevo detto, te lavevo detto…
Zitta, stai zitta, sei stata tu a
portarci iella, replicò Gezim aspro, scuotendo contro di lei lindice.
Aleksandra tacque comprimendosi il
petto con la mano, come per impedire il prorompere della tempesta che le
infuriava dentro. Solo un gemito le uscì dalle labbra e più volte i suoi occhi
neri luccicarono e poi si spensero, come fiamme soffocate, nella notte. Infine
venne il momento che ella serrò le labbra e inghiotti profondamente, ma due
lacrime le rimasero negli occhi e Gezim le vide cadere e scivolare giù,
lentamente, sulle guance, una per parte. Labbraccio addolorato, poi le porse
il thermos del tè e le disse con la voce ridotta a uno sgomentato sussurro:
Bevi, Aleksandra… perdonami.
Senza guardare Gezim, Aleksandra
portò il thermos alle labbra ma il tè le si fermò in gola, come se stesse soffocando,
e le gocciolò fuori della bocca.
Durante questo tempo interminabile,
Fatmir, Iapprendista, si era limitato a eseguire le istruzioni di Imer che,
ormai, teneva la testa fra le mani, immerso nelle sue elucubrazioni. Si alzò di
scatto e con atteggiamento di bella fierezza fissò limmenso mare da
dominatore, ruppe il silenzio ed esclamò con un sorriso di sprezzo che gli
errava sulle labbra:
Io non temo il mare, io vi
salverò!
Quel piccolo macchinatore
despedienti, con gli occhi che dardeggiavano genialità, staccò la chiave dal
contatto, lo smontò, fece toccare alcuni fili elettrici e il trabocchetto della
salvezza si era improvvisamente aperto sotto il gommone facendo udire il ronzio
dei motori.
È più facile immaginare che
descrivere quello che passò nei cuori. Gli occhi della donna curda che prima
piangeva si riempirono di gioia, il viso ancora inondato di lacrime, e parlando
in curdo essa si fece avanti verso Fatmir, lo strinse a sé e gli carezzò i
capelli. Erano gesti così espressivi che non occorreva aggiungere parola, e
Fatmir la comprese benissimo come se ella avesse pronunciato le parole in
albanese.
Prima di ripartire, nuvole nere si
accumularono riempiendo tutto il cielo, e il vento venne a gemere sopra il
mare. Imer guardò lorizzonte buio e disse:
Ci stanno aspettando vicino Santa
Cesarea Terme e dovete assolutamente sbarcare prima dellalba. Siamo in ritardo
e il mare è cambiato ma, con laiuto di Dio ce la faremo.
Il gommone, circondato
dalloscurità, ripartì spinto da entrambi i motori. Imer era al timone in piedi
accanto a Gezim, ma non si parlavano; forse, nella regione più vaga della loro
mente, facevano dei raffronti fra quellorizzonte minaccioso e la loro
esistenza.
I corpi dei viaggiatori si erano
serrati nel freddo gli uni contro gli altri alla ricerca di tepore e molti,
sfiniti, si addormentarono ma il loro sonno non durò a lungo perché il gommone
lanciato nella distesa lugubre urtò contro un ostacolo. Nessuno seppe che cosa
fosse e si trovarono tutti catapultati in acqua.
Il corpo dello scafista, per
inerzia, sbatté violentemente contro il timone, e Imer perdette i sensi
rimanendo tuttavia nello scafo in vetroresina squarciato che sinclinò
rapidamente imbarcando acqua a causa del contemporaneo scoppio della parte
pneumatica, e sotto il peso dei motori sinabissò trascinandolo con sé. Sulla
superficie dellacqua si formarono oscuri cerchi concentrici, un tremito, poi
il nulla.
Gezim invece era finito sotto le
eliche dei motori che nitrivano come cavalli imbizzarriti. Tentò di difendersi
emergendo e si lasciò fluttuare sulla superficie dellacqua, laddome e il
petto indicibilmente lacerati, il respiro intermittente tagliato da un rantolo.
Apri lentamente gli occhi, dove si vedeva già apparire la cupa profondità della
morte, e vide un cielo tenebroso, simile a un infinito sudario; emise un grido
e solo la notte conobbe il segreto delle sue convulsioni mentre scompariva
sottacqua.
Nel contempo, i flutti si gettarono
i bambini lun laltro. I loro miserabili corpicini erano punti nellimmensità
delle onde, tendevano le piccole manine ma afferravano il nulla chiamando la
madre con la voce rotta dallasma degli ultimi respiri e spalancando tanto
docchio con unespressione che nessuna lingua umana potrebbe descrivere. Poi,
paralizzati dal freddo senza fondo, loro, povera forza subito esaurita, si
lasciarono fare, si lasciarono andare; si spensero nellimmensità di quel mare
come si perdono i cerchi formati nellacqua e i loro corpi si depositarono
nella temibile fossa comune come tanti birilli, disponibili per le partite
giocate dai potenti.
Le loro madri, donne curde vissute
in montagna, si trovarono nellacqua mostruosa di quel mare, non avevano sotto
i piedi che fuga e rovina, circondate orribilmente dalle onde sminuzzate dal
vento. Scomparivano, riapparivano, simmergevano e risalivano lanciando urla
disperate; chiamavano i figlioli, tendevano le braccia nelle tenebre, ma
nessuno le sentiva, e mentre il rollio dellabisso le trascinava via sembrò
loro che tutta quellacqua, quel mare, fossero odio.
Il vecchio curdo dai capelli
candidi, quel dannato della civiltà, afferrò un bambino che stava affondando,
si sforzò di nuotare ma non lo seppe fare, tentò di sostenersi, combatté
linesauribile e bevve lamaro mentre lenormità giocava con la sua agonia poi,
con quella speciale lucidità e nitore che acquistano i contorni delle cose dal
loro dialogo con il buio imminente, capì che morire non era niente; era
spaventoso non vivere, e, esausto, fluttuò per sempre nelle lugubre profondità
che lo inghiottirono.
Molti altri tentarono di rimanere a
galla mentre listinto di conservazione urlava, e lio privo docchio scalciava
allontanando chi cercava di aggrapparsi. E ognuno per se, assistettero alla
demenza di quel mare nuotando in avanti, immensi sonnambuli di un sogno
naufragato, prima di affondare a poco a poco nelle gelide tenebre in cui
scompaiono tante teste sfortunate nella tetra marcia dei popoli.
In quella catastrofe del genio
umano alle prese con linnominabile, perirono quarantatré persone.
Aleksandra si trovò in acqua;
dapprima, tutto ciò che provò era incoerente, tumultuoso, e il cuore le batteva
anche nei denti. Poi, tutto in lei si mise a lavorare, listinto che fiuta e
lintelligenza che organizza. Portò subito un braccio al petto e serrò contro
di sé la piccola Valbona che era rimasta sotto il cappotto abbottonato della
madre. Aleksandra, nata e cresciuta in una città marinara, si distese sulla
superficie dellacqua, si sbottonò il pesante cappotto e se ne liberò,
lasciando sul petto Valbona piangente e presa da un tremito. Si sbarazzò di
tutti gli indumenti che potevano appesantirla poi chiamò forte:
Gezim!
Il nome di suo marito si spense nel
buio senza neppure svegliare uneco, e ad Aleksandra parve che linvestisse
come un vento di sciagura. Tenne a lungo le labbra convulsamente contratte per
arrestare i singhiozzi, poi chiamò di nuovo:
Gezi‑i‑im, sono qui,
Gezi‑i‑im, dove sei‑i‑i
Il silenzio rimase profondo, come
prima, lasciando Aleksandra con gli occhi spalancati a fissare il buio, lo
spirito oppresso dal suo carico di dolore.
Si lasciò trasportare dalla
corrente, economizzando le sue forze, Valbona sul petto, attaccata al seno con
quella toccante fiducia dei bambini che può essere sempre ingannata senza mai
scoraggiarsi.
La lunga notte giungeva ormai al
termine; il crepuscolo imbiancava nel mare le creste delle piccole onde e basse
filacce di nebbia sottile strisciavano sulla superficie dellacqua e se ne
staccavano come folate di fumo quando Aleksandra scosse la sua bimba e la
chiamò in vano più volte. Rimase con gli occhi fissi su colei che non vedeva
più gemendo di un gemito discontinuo che usciva da una bocca irrigidita con i
denti serrati, un gemito inarticolato e soffocato, sempre accompagnato da un
movimento desolato del capo, senza che lespressione del volto si alterasse
come se le sue fattezze si fossero raggelate dalla sofferenza; ma le lacrime,
questo primo sfogo dei grandi dolori, non veniva ad Aleksandra immersa comera
in quella pesante sensazione di perdita e di dolore dentro la quale non
riusciva a distinguere nientaltro e che faceva tremare tutte le sue idee
rendendola quasi folle. Poi, con le pupille vaghe, colme dello sbalordimento
della violenza del suo presente, guardò davanti a se. Aveva alle spalle il sole
che si stava appena alzando e fluttuava un misero chiarore crepuscolare, vide
sullorizzonte una gigantesca falesia che si stagliava severa e livida, con
alcune nuvole bassissime che sembravano appoggiate su di essa formando un
effetto particolarmente sinistro, e, per una sorta di penetrazione quasi
fisica, quel funereo profilo aggiunse allo stato violento della sua psiche un
che di lugubre. Così, con una progressione impercettibile, la sensazione di
perdita si trasformò in una disperata consapevolezza di tutto ciò che era
andato disperso… Pianse abbracciando straziata il corpicino assiderato di
Valbona mentre un vento non forte girava intorno per un faraglione con un suono
sordo simile a un basso e lento mormorio gonfio di tristezza. Poi un ineffabile
sorriso si diffuse sulle sue labbra illividite e una grinza triste solcò la sua
guancia, strinse al cuore Valbona e si lasciò inghiottire da quel mare globale
dove milioni di persone vivono così, sommersi.