E della mia presenza; solo il mio silenzio.
Una riflessione lunga cinque antologie

Il Concorso Eks&Tra ha un atto di nascita: le parole di Vincent
Depaul (I edizione, Le voci dell’arcobaleno):

 

E della mia presenza; solo il mio silenzio.

 

Per cinque anni – fino alla odierna edizione – le poesie e i racconti
non hanno parlato d’altro: l’eloquente silenzio dell’immigrato, scrittore esso
sia o meno.

In effetti, a rileggere le poesie e i racconti contenuti nelle cinque
antologie del concorso letterario Eks&Tra, mi viene voglia di far tacere
qualsiasi commento e di allineare brani, frasi, espressioni tratte dai vari
volumi, per meglio dare brevi schegge di questo sontuoso caleidoscopio, di
queste vibranti voci dell’arcobaleno, ma proprio perché si tratta di una
letteratura del silenzio essa ha il dono di suscitare commenti.

C’è in questo silenzio la gravità senza ostentazione di un fascino
sovrano, di una grazia raffinata: un modo discreto di parlare delle cose della
vita, dell’amore, della saudade, della ghurba, della femminilità e
dell’infanzia, della morte, della difficoltà e della gioia, e soprattutto del
potere di utilizzare le parole – italiane – per esprimere tutto questo con una
sorta di indulgenza che fa sì che ci sorprendiamo ad amare tutto, ci cogliamo a
perdonare tutto allorché, noi stessi, viviamo situazioni contingenti, malferme,
in equilibrio ora su un piede ora sull’altro, mai su entrambi, in perenne stato
di sospensione.

Un silenzio privo di polemica, che mai rivendica la lotta per la lotta,
espresso in modo del tutto personale, in una lingua spesso sussurrata, mai
gridata. L’animo umano è il protagonista assoluto, che registra le scosse
inflitte all’individuo; ed è attraverso l’animo umano che vengono analizzate le
sfortune, a volte, ma raramente, anche le fortune, del popolo immigrato, spesso
abbandonato a sé stesso. La letteratura diventa allora un’arma, un contributo
alla causa, per la riscoperta del “personaggio” nella letteratura italiana.

A tastoni, i personaggi cercano un senso ormai celato, ossessionati
dall’idea di andare a vedere sotto la pelle, ciò che ben dissimulano le
differenze di colore. I sogni che popolano i racconti, e che tormentano i
narratori, sono quelli di una forma di riconciliazione, appartenenti ad uno
stato primordiale.

Non si può spiegare altrimenti la scelta della lingua italiana per
raccontare con la voce piana della confidenza, ciò che si scrive di solito a sé
stessi, ciò che si confida ad un caro diario, perché scrivere, ad esempio, in
francese, lingua di un ex potenza coloniale, significa essere letti da molte
persone in Francia e fuori dalla Francia, forse suscitare dibattiti o essere
contestati e condannati dai propri connazionali, mentre scrivere in italiano
significa, per chi scrive, anche se ciò non corrisponde al vero, scriversi o
scrivere ad una cerchia di amici o ad una ristretta comunità.

Attraverso la lingua italiana, dove si coltiva l’illusione, a torto o a
ragione, che in essa convivono l’Europa della ragione e il Mediterraneo della
passione e del cuore – poiché si sa che ogni progetto letterario in una lingua
neutra è sempre e prima di tutto un progetto emotivo – passa l’idea che la
scrittura potrà forse un giorno, malgrado tutto, riunire ciò che la storia ha
separato.

Convinto quindi di non essere letto, o letto comunque da pochi, lo
scrittore immigrato s’ingegna a far passare le parole in modo clandestino, ed è
questo, forse, il vero progetto. Il risultato, naturalmente, supera ogni
aspettativa e ci porta in contrade che la lingua italiana non ha mai visitato
prima, in atmosfere quasi rarefatte, dove lo scrittore, fosse solo per un
racconto, ci mostra la sua relazione piacevolmente paradossale con il mondo.
Infatti non c’è neanche una poesia o un racconto, lungo i cinque volumi, in cui
possiamo sorprendere l’immigrato prigioniero della propria condizione.

Anzi, questa letteratura ci dice che l’immigrato non esiste, esiste
soltanto la parola per indicarlo e quindi ci dà finalmente la prova che la
lingua italiana non è un oggetto, né tantomeno un oggetto di culto, ma una
passione.

Wakkas ci dimostra che essa è una fortezza che bisogna assediare, Gezim
che è una bellezza che si ha il dovere di ferire e Caldas Brito che è una
purezza che ha assoluto bisogno di essere contaminata, poiché per lo scrittore
immigrato le cose rifiutano l’osservazione e nello stesso tempo la richiedono
con insistenza; egli sa che a guardarle da vicino si corre il rischio di
complicarle: l’unica via per l’autore diventa allora la curiosità laterale per
tentare di spiegare la risata con il solletico.

È una specie di cortesia dolorosa, un desiderio taciturno di lasciare
che una vecchia e misteriosa ferita si richiuda. Le poesie di Gezim Hajdari
spogliano la poesia di efficacia pratica e la rivestono di spirito eretico, ed
inventano una nuova poesia italiana, che interrompe il discorso muto e totale.
Non una poesia sradicata, come si potrebbe frettolosamente concludere, ma una
poesia con le orme tagliate, quella del primo gesto sovversivo dei profeti che,
pronunciando la parola decisiva, ci strappano dal dubbio per avvolgerci con la
più affascinante perplessità: “Piove sempre / in questo paese / forse perché
sono straniero”; e poi, “Anche i fuochi da dove veniamo / non ci consegnano ai
nuovi fuochi / dei quali abbiamo bisogno”; e ancora, “Sono la verità / di un
viaggio e di una linea d’Ombra (…) vivo sospeso / senza appartenere a nessuna
dimora / al bivio di un equilibrio”; e infine, “sottile diventa anche il muro /
che mi difende e mi divide”.

L’immigrato non ignora le distanze e nemmeno le minimizza. Sa che
andando dritto alla meta egli può perdere il sapore della sua complessità,
l’ombra della sua luce. E allora sceglie di accamparsi in questa distanza, e
cioè prendere i suoi simili come modello per meglio schizzare il proprio
ritratto. Sa anche e soprattutto che scrivere è in primo luogo entrare in sé
stessi, imparare a considerarsi un mondo di simboli, di messaggi codificati, di
rebus insondabili.

Perciò ci sembra di trovarci di fronte ad una “autonarrazione” molto
vicina alla realtà autobiografica. Qualcuno, riducendo questa letteratura a
variazioni linguistiche e riformulando analisi già fatte, ha già
frettolosamente sostenuto che ci troviamo di fronte ad una “pre-letteratura”! e
qualcun altro facendogli eco ha già parlato di letteratura etnica o della
periferia: si sa che il bisogno di classificare – per meglio anestetizzare – dà
l’illusione di liberarsi dei sensi di colpa dell’eurocentrismo come del
filooccidentalismo, ma questo è un altro discorso e a dire il vero ci interessa
poco o niente.

Non c’è in nessuna delle cinque antologie del concorso, un testo di cui
potremmo dire che è il ritratto dell’immigrato, ma testi che si guardano, si
rispondono, si contraddicono, si rettificano. Il lettore vede l’opera mentre
prende corpo, vede la mano esitante e insicura nella scelta delle parole da
allineare l’una accanto all’altra, vede l’idea che si sottrae qui per essere
meglio precisata altrove, vede infine i capitoli cambiare continuamente posto
nella disposizione d’insieme. Lo stesso tema, la stessa sequenza di oggetti e
di fatti sono ripresi sotto un’altra angolazione, sotto un’altra luce, con
altre tonalità: senegalesi, marocchine, venezuelane, algerine, abissine, poi
malgasce, giapponesi, siriane, tunisine… Tutte queste tonalità in lingua
italiana!

La società di accoglienza ispira allo scrittore immigrato soltanto
stupore e bisogno di renderla ancora più provvisoria e incoerente di quanto non
è, nei suoi confronti s’intende, nella sua natura. Vivendo spesso in condizioni
precarie, egli teme di vivere nel pressappoco, e si comporta con la lingua come
il maniaco ossessionato dall’idea di aver dimenticato il gas aperto o di
perdere le chiavi. La mano esitante si trasforma allora in flauto di Pan come
nei racconti di Wakkas.

No, lo scrittore immigrato non è un autoesibizionista compiaciuto che
non sa parlare d’altro che di sé. Ma intende per “autonarrazione” il riflesso
di un’espressione interiore sempre aperta al dialogo e cioè al confronto sull’umana
esperienza, una continua ricerca della verità, lungi dai “vasti palazzi della
memoria” e rivolta al sempre mutevole presente, incalzante e imperativa, dunque
l’esperienza di tutti gli uomini.

Egli quindi costruisce un doppio immaginario del mondo reale, e così‚
ci accorgiamo che la scrittura altro non è che un immenso cantiere, mai
compiuto, le città italiane non assomigliano alle città italiane e gli italiani
non assomigliano agli italiani e neanche gli stranieri assomigliano agli
stranieri.

Senza mai forzare la mano, il lirismo qui è sempre misurato, serve per
trasmettere l’indicibile: “E della mia presenza; solo il mio silenzio.”

Basta leggere l’incipit del racconto “Il telefo-no del  quartiere” per rendersene conto; liri-smo
misurato e potente, a volte, persino nei titoli come quello di Amik Kasoruho
“Il lunghissimo viaggio di un’ora”, o “Chiama-temi Mina” di Fitahianamalala
Rakotobe Andriamaro (tutti nel presente volume).

Memore del primo impatto con la società italiana, impatto che
disintegra la memoria – vieta talvolta, quando si vuole ricostruire il racconto
cronologico, la narrazione misurata e lineare – lo scrittore immigrato, armato
di un “Io” più sparpagliato dell’oceano mare, tenta, attraverso la scrittura,
di non perdersi mai nella società italiana come “l’acqua nell’acqua”, e cerca
di far corrispondere a questo scoppio di ricordi, troppo intensi, brucianti,
una costellazione di sequenze, di cronache, spiagge di dolcezza dove è
possibile riconciliarsi con il mondo, e quando rientra in possesso di ciò che è
naturalmente suo, si sente meno legato a sé stesso di quanto una parola è
legata all’infinito dei suoi significati possibili, e poiché l’immigrato
comincia a parlare italiano balbettando, sente qui il bisogno di vedere le sue
parole stampate, definitive, indelebili e prova finalmente la gioia di essere
ascoltato, solo che ha l’impressione che dire le cose una sola volta non basta,
che bisogna ripeterle in diversi modi per essere sicuro di essere stato capito.

“Ripetere”, ci dice il Gabrielli, è confermare, iterare, reiterare,
rifare, ridire, ribadire, ma anche ribattere, replicare, riaffermare, ma
possiamo dire che è anche riferire, diffondere, divulgare con il segreto che
conviene ad ogni trasmissione essenziale. È anche ricominciare il gesto,
l’azione, l’esperienza. Tentativi molteplici per giungere ad un unico scopo, la
rappresentazione di sé sulla scena di un teatro che è la cultura italiana,
quindi occidentale, e la cultura d’origine.

In definitiva, l’immigrato non è poi così ingegnuo, non scrive per
cambiare il mondo. Non descrive le miserie della società nella quale evolve,
perché sa che cambiare i sentimenti non serve a nulla se non si cambia prima lo
sguardo che li governa.

Queste
cinque antologie sono una enciclo-pedia dello sguardo.

“Da lungi i miei tetti saluto”

 

 

 

 


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