Quando verrà la notte scura
Le parole sinciamperanno
Non potremo più ingannare linsonnia
Con i nostri sogni.
Quando verrà la notte scura
Intrecciando i desideri
Le mie mani ruvide
Inonderanno il tuo grembo
Con petali di rimpianti
Amore,
Prima che venga la notte scura
Dammi un figlio color pastello
Un figlio acquerello
Un figlio arcobaleno
Per rischiarare la notte scura.
Al ritorno dal cimitero la
madre di Francesca, con poca convinzione, aveva accennato:
Rimani per un po da noi
Conoscendo sua figlia
sapeva già la risposta.
No! No mamma. Sto bene, non ti preoccupare, e poi
la vita
continua.
Poi accarezzandosi il
grembo protrudente ripeté ancora con più dolcezza:
La vita continua.
Così, allindomani del
funerale del marito, Francesca Marelli si risvegliò da un sonno privo di sogni.
Senza uno sguardo al posto vuoto nel letto accanto a lei, si alzò svelta
nonostante lo stato avanzato della gravidanza.
In bagno, alla vista dei
due spazzolini, il pensiero del marito le trafisse violentemente il cuore.
Prepotente e nitido, il ricordo vivo della sua tenera voce il giorno del
matrimonio:
Francy, Io, Togbé, figlio
unico dAtsu Kwami e Ami Dzatugbé, giuro che il mio cuore sarà tuo per sempre.
Francesca si passò la mano
gelata sul viso per scacciare quella voce. Si vestì in fretta. Prese nel
cassetto del comò una delle due scatole di fiammiferi che cerano. Sulla
scrivania trovò una busta di quelle rinforzate con la plastica e le bolle
daria. Francesca afferrò la scatola di fiammiferi, e prima di metterla dentro
la busta, la strinse al cuore e la baciò. Sigillato il plico, ci scrisse
lindirizzo dei suoceri e uscì per andare alla posta per spedirlo ad Atsu e
Ami.
Francesca sapeva, dai
racconti del marito defunto, che:
«
per ben quattro volte
Atsu e Ami videro il loro sogno di aver figli svanire chi al terzo, settimo,
ottavo e nono mese. Alcuni uomini sostenevano che il sangue di Atsu era troppo
forte. Le zie di Atsu proposero di cercargli una seconda moglie. Certe donne al
mercato bisbigliavano additando furtivamente la vegliarda Kuno che viveva sola
sul confine del villaggio. Delle lingue mormoravano che per compiacere ai suoi
feticci, lanziana poteva divorare con gli occhi i bambini nel grembo delle
loro madri.
Atsu e Ami decisero, dopo
aver provato tutte le misture e vari sacrifici, di andare a consultare
lindovino per conoscere la causa della mortalità dei loro figli ed eliminare
così quel male che li stava distruggendo, capire se si trattava di un malocchio
lanciato da uno stregone. Al termine della cerimonia divinatoria, luomo diede
delle erbe ad Ami da masticare durante la gravidanza, decotti per il bagno da
fare di mattina con dellacqua che ha soggiornato sotto la luna piena,
prescrivendo di eseguire alla nascita la cerimonia del bimbo nascosto.
Così, un venerdì mattina,
la moglie di Atsu che non aveva più visto la luna da nove mesi, è salita lassù
e senza che la formica e il topo abbiano sentito i suoi dolori nella paglia dei
tetti, è scesa con un robusto bambino.
Quando Ami iniziò con le
doglie, e il parto era vicino, la vecchia levatrice del villaggio chiese al
giovane Djifa di andare a nascondersi nel cespuglio non lontano dalle case
allincrocio dei sentieri che portavano ai campi e al fiume.
Il bambino appena nato fu separato dalla
placenta: la vera madre che le zie andarono a seppellire nel verso giusto,
per dare così alla coppia la possibilità di avere in futuro altri figli. La
levatrice posò il neonato avvolto in tessuti, dentro un cestino, per deporlo
poi al fiume vicino al nascondiglio di Djifa. Appena sentì arrivare un
passante, girando le spalle, la donna fece due passi come per ripartire.
Di colpo sudì il passante emettere
grida di sorpresa:
Ho trovato un bambino! Ho trovato un
bimbo!
In quel momento anche Djifa sgusciò
fuori dal suo nascondiglio urlando di gioia e saltellando in un modo
indescrivibile. Tutta la gente dalle capanne vicine accorse e assieme tutti
ritornarono a casa. La persona che ritrovò il bambino divenne un parente
fittizio del nascituro e di conseguenza gli assegnò un nome. Rimise il bambino
alla levatrice dicendo:
Al mio ritorno dai campi, ho trovato
questa creatura. Vengo ad affidarvelo. Prendetene ben cura perché cresca in
salute e in saggezza. Visto che lho trovato, lo chiameremo Fofoè cioè
trovatello.
Gli attribuirono anche il nome di Koffi
perché nato di venerdì.
Dopo questa cerimonia, fu
salvo».
Allora perché ti chiami
Togbé? lo aveva interrogato con impazienza Francesca.
Aspetta Francy, lasciami
raccontare
(Togbé adorava raccontare,
gustare le parole in bocca, narrare con dovizia di particolari, fino a mimare,
a volte, impersonando con vari toni di voce, i vari protagonisti delle sue
storie)
Così riprese.
«Un maschio! Un bel
maschio! fu il grido di gioia della levatrice che si levò dalla capanna fra le
urla di pianto del neonato.
Dio come
somiglia al mio defunto fratello! Affermò zia Afi
Sì, è
davvero il ritratto di Kuaku! Confermò il vecchio Osofo con il suo sorriso
sdentato.
Lemozione e
la fierezza si dipinsero sul viso abitualmente imperturbabile del giovane Atsu.
***
Sicuramente
tutto sarebbe stato perfetto se non fosse per il fatto che il bambino rifiutava
di tettare e gridava. Dopo tre giorni, la sua pelle si era così raggrinzita che
gli si potevano contare a occhio nudo le costole. Piangeva tutte le notti senza
prendere sonno e facendolo perdere a tutti.
I genitori e
le zie, dopo una settimana di questa vita infernale, cominciarono a pensare di
cercare la causa di questi lamenti continui del piccolo erede.
Andiamo
dallindovino! Andiamo presto disse zia Afi perché un albero può nascondere
una foresta.
Sicuramente
egli saprà riconoscere il dzoto (lantenato tutelare) nel nostro figlio
annunciò con voce grave lo zio Atsutsé.
Durante la
seduta di divinazione, lo spirito del nonno Kuaku simpossessò del corpo
dellindovino in trance per sentenziare:
Koffi è
figlio di mio figlio eppure egli è padre di suo padre, perché egli è la mia
reincarnazione. Andate nella mia capanna. Troverete appeso ad una parete il mio
bracciale, metteteglielo al collo e copritelo con il mio kente delle feste per
sei mesi e così potrò tornare a vivere in mezzo a voi.
I pianti di
Koffi cessarono la sera stessa ed egli incominciò a prendere il seno della
madre e ben presto riprese peso.
Atsu per
loccasione organizzò un pranzo a cui tutta la grande famiglia fu invitata ad
assistere, mangiare e bere per augurare il benvenuto al fanciullo che da quel
giorno tutti presero a nominare Togbé cioè nonno».
Ecco perché
ti chiami Togbé! silluminò Francesca.
Ignorando la
sua interruzione il marito continuò imperturbabile:
«Allalba
dellottavo giorno dalla mia nascita, fui portato dallo zio Atsutsé
dallanziano Agbanavon per il rito della circoncisione. Un bambino non
circonciso, secondo le tradizioni, non diverrà mai un uomo. Zio non ebbe
bisogno di avvertirlo la vigilia, come raccomandavano le tradizioni, che non
giacesse con una donna durante la notte perché quello avrebbe portato disgrazia
sulla cerimonia. Il saggio Agbanavon ormai usava sostenere che neanche i più
caldi dei ricordi riuscivano ad intiepidire il suo sangue.
Giunti nella
dimora dellanziano, mi portarono davanti alla capanna con allingresso il
tron, il vudù degli antenati. Fui asperso con piante grasse bagnate nellacqua
della rugiada raccolta nella bacinella di terra cotta appoggiata in sommità a
tre tronchetti incrociati allingresso della stanza delle cerimonie
Quel giorno,
concluse Togbé diventai uomo pronto ad affrontare il suo Sé (destino)».
***
Nessuno
allora sapeva che il destino lavrebbe portato a varcare loceano, lacqua che
bolle senza che nessuno ci abbia messo il fuoco, per mezzo di un uccello di
ferro. Nessuno quel giorno poteva immaginare che lì, nei paesi degli uomini
dalla pelle bianca, egli avrebbe incontrato lamore della sua vita e
la morte.
Neanche
Francesca Marelli aspettava quelluomo che aveva amato a prima vista e che il
destino crudele gli aveva rapito dopo appena due anni di vita assieme.
Inevitabilmente
la sua memoria riportò a galla quel viaggio in treno da Milano ad Asso.
Lo rivide
con quel suo viso fiero assorto nella lettura di una rivista francese. Lunico
posto libero era lì vicino a lui. Quando lei si avvicinò, per un attimo lui
alzò la testa e i loro occhi si agganciarono. Si sorprese a chiedere in
francese:
Cest libre? (è libero?)
Fu come un
incanto vedere quel volto che sembrava così serio illuminarsi dun sorriso
fanciullesco, disarmante da stringere il cuore.
Oui! Come mai parla francese?
Gli spiegò
che si stava laureando in lingue alla statale a Milano. Lui espresse la sua
sorpresa con il fatto che era raro incontrare degli italiani che parlavano così
bene la lingua di Molière. Quando tre anni prima era arrivato in Italia, era
convinto del contrario, vista la vicinanza con la Francia.
Lei arrossì
di piacere per il complimento.
Quando verso
Meda lei gli disse di chiamarsi Francesca, lui commentò:
Francesca,
Françoise
si vede che la Francia, la lingua francese è proprio nel tuo destino.
Parlarono
come se si conoscevano da tempo. Lei che tutti definivano come chiusa e
riservata si sorprese a confidargli i suoi sogni. E il tempo di giungere a
Canzo, Francesca seppe che veniva dal Togo, che aveva lasciato la sua terra per
insegnare il francese nel vicino Ghana, poi ci fu la partenza per il Senegal e
la Costa dAvorio dove egli insegnò linglese, poi la Libia dove incontrò degli
italiani con cui approdò in Italia. Ora lavorava in una ditta di Canzo, dove
fabbricavano delle forbici.
Quando Togbé
scese a Canzo, lei che andava ad Asso, scese con lui e percorsero assieme la
strada a piedi fino alla stazione seguente.
Francesca
ricorda che quando arrivò a casa quella sera, durante la cena, sua madre la
scrutò un attimo, con quellistinto che solo una mamma possiede, prima di
chiedere:
Coshai
oggi? Mi sembri strana!
Io? Niente!
Niente mamma, è la solita vita.
Quanti viaggi
in treno! Incontri fatti di parole, di silenzi e dascolto sotto gli sguardi
curiosi, i sorrisini goliardi, gonfi di sottintesi, ma tanti anche di complice
simpatia.
***
Quella notte,
dopo che Togbé, febbricitante, chiuse le palpebre a questa vita, una notte di
densa nebbia, Francesca si sedette, ragomitolandosi vicino al cammino acceso.
Disperata, cercava un po di tepore per riscaldare la sua anima infreddolita
dal dolore. Guardava nascere le fiammelle azzurre, e le osservava divampare in
fiamme gialle-arancione, leccando febbrilmente il legno asciutto che
scoppiettava gioiosamente in mille scintille, facendo ardere i tronchi di un
rosso vivo. Piano piano essi si annerivano fumanti. Allorché la fiamma sembrava
sul punto di morire, bastava un ramoscello per stuzzicarla e farla rinascere.
Infondendosi
coraggio, prese il telefono e chiamò i genitori di Togbé. Nel silenzio della
notte, chiara, quieta e dolce giunse, fin dallAfrica, alle orecchie di
Francesca, la voce incredibilmente giovane della madre di Togbé.
Quando
annunciò la terribile notizia, lei emise solo un gemito soffocato:
Oh!
Dopo un lungo
silenzio, lanziana Ami chiese con voce rauca:
Figlia mia
dove sei ora?
Sono qui da
sola, a casa nostra davanti al focolaio. Ho preferito rimanere da sola.
Ti capisco
Dopo una
lunga pausa colma di sospiri e pianti repressi, riprese:
Vedi figlia
mia
le nostre vite sono simili a quelle dei tronchi nel braciere, basta un
soffio per accenderle
alcuni bruciano e recano luce e danno calore per tanto
tempo, altri fanno tanto fumo e basta
ma basta un soffio per spegnerli o per
riattivarli
è così anche delle nostre vite
tutto dipende dal nostro Sé.
Lanziana
Ami si fermò un attimo, fece un profondo respiro e continuò:
Figlia mia,
è triste per una madre sopravvivere a suo figlio. Sai, un figlio è un sogno
pieno di tanti sogni, un soffrire di tanti dolori, notti di veglia e angosce
per la minima febbre. Ma un figlio è gioia, è un privilegio per noi donne, un
dono del Sé. Il Sé dà e il Sé prende. È
così. Tanti soffrono per la lontananza, ma per una madre un figlio non è mai
lontano perché egli è sempre qui nel suo cuore. Le persone amate muoiono solo
quando noi ci scordiamo di loro. Il Sé di
Togbé lo ha rivoluto indietro ed è stato come strapparlo dal mio cuore, ma so
che una creatura sta crescendo nel tuo grembo, so che mio figlio non è morto,
anzi il suo seme ha superato il tempo, loceano e germoglierà frutti sotto
altri cieli che a loro volta daranno tanti altri frutti in tante parti della
terra. Di questo oggi sono orgogliosa. Sono fiera perché parte di me vedrà cose
che non so, e che non oso neanche sognare. Non aver paura, il suo, il nostro è
un sangue forte
Concluse
chiedendo:
Mio figlio
ti ha detto cosa fare?
Sì, mi ha
detto della scatola di fiammiferi
Bene. Ti
abbraccio. Fatti coraggio! Noi aspettiamo. Ora ti passo suo padre, vuole
parlarti.
Interrotta la
comunicazione, Francesca memore delle raccomandazioni, prese un paio di forbici
e si avvicinò al corpo esanime del compagno.
Con cura, gli
tagliò unghie e capelli, ne fece due parti, li avvolse in due quadretti di tela
bianca e li ripose in due scatole di fiammiferi. Confezionò il tutto pronto a
spedirlo ai familiari in patria.
Togbé diceva
sempre:
Dovessi morire qui nel tuo paese, ti
prego, non spendere soldi per inviare il mio corpo a casa: ovunque si muore, la
carne si dissolve definitivamente nella terra. Manderai solo le mie unghie e i
capelli perché crediamo che essi contengano lenergia vitale, perché solo loro
continuano a crescere durante tutto larco della vita. Lanima immateriale e
immortale ritornerà dopo quaranta giorni a Tséfe (il paese dei morti) in
compagnia dei parenti ed amici. Ti prego di avvertire loro, soltanto, perché
facciano i funerali, altrimenti la mia anima rimarrebbe come spaesata, muta,
errante e sconsolata e non potrebbe partecipare a nessuna felicità nellaldilà.
Il mio soffio vitale invece continuerà a vagare qua e là prima di poter
reincarnarsi un giorno nel corpo dun neonato della mia famiglia.
A Francesca questi discorsi non
piacevano e cercava di evitarli, di zittirlo con:
Va là!
Smettila, lo sai che questi discorsi mi fanno paura!
Ma lui con
voce calma e profonda continuava come se lei non lo avesse interrotto:
Vedi tesoro, anche se nasciamo per
morire, anche se la vita appartiene alla morte, la morte non è mai una fine a
se stessa. Noi non siamo altro che anime perennemente in viaggio
Quel giorno
Francesca Marelli uscì ad imbucare la sua scatola di fiammiferi.
***
Giunta a
termine, Francesca partorì un bel maschietto di tre chili e mezzo. Alla
nascita, la mamma di Francesca, che laveva accompagnata alla maternità, guardò
il nipotino inarcando le sopracciglia per esclamare:
Ma
è
bianco!
Francesca rimase un attimo interdetta poi
scoppiò in fragorose risate con le lacrime agli occhi per poi spiegarle:
Certo
mamma, stai tranquilla, è figlio di Togbé: diverrà color caffelatte solo fra
due o tre giorni.
Le diede il
nome dApélété come le aveva suggerito il suocero Atsu durante il suo breve
colloquio telefonico:
Vedi
Francesca, nostro figlio se nè andato lasciando la vostra casa vuota, pericolante
e disperata. Quando nascerà il vostro frutto che ora tu porti in grembo, se è
un maschio dovrai chiamarlo Apélété che vuole dire la casa è in piedi, invece
se è una femmina dovrai chiamarla Ahuefa che vuole dire la pace è in casa.
Così sono le nostre usanze e vedrai che tornerai a vivere.
Ma nei primi giorni dopo la nascita,
langoscia scavò dimora nellanima di Francesca. Il piccolo Apélété faceva
dannare gli infermieri del nido e teneva sveglio tutto il reparto con i suoi
pianti. Non voleva saperne di attaccarsi al seno e rifiutava la glucosata che
si cercava di dargli con il biberon.
I medici erano seriamente preoccupati
per il suo calo ponderale oltre il limite fisiologico e cominciavano a
pensare di mettergli una flebo.
La terza notte, Francesca sognò il
compagno defunto e tutto per lei diventò limpido come lacqua che scorre
allegra sulla roccia.
Al risveglio,
telefonò a casa chiedendo alla sua mamma di portarle una camicia del marito.
Quando arrivò sua madre, lei si recò al nido dove il piccolo Apélété urlava
convulso e cianotico in viso. E lì, sotto gli sguardi attoniti e sorpresi del
personale, calmamente, lei appoggiò la camicia sul fanciullo. Fu come un
miracolo: singhiozzando, egli si calmò e smise di urlare. Francesca lo prese in
braccio ed infine egli si attaccò al seno della madre, succhiando con voracità
il latte materno.
Poco dopo, si
addormentò beatamente nella culla, pugni stretti, le braccia rovesciate sopra
la testa sotto lo sguardo amorevole di lei.
La madre di
Francesca osservava incredula il neonato:
Dio! Come
somiglia a suo padre!
Sì! – Annui
Francesca con un sorriso ambiguo e misterioso prima di aggiungere:
È davvero
mio Togbé.
Quando tornò dallospedale, la madre di
Francesca la vide sotterrare una scatola di fiammiferi nel giardino sotto
lalbero ove, lestate, il marito usava fare la siesta.
Alla sua
domanda:
Cosè
Francesca?
Niente!
Niente mamma, è la vita che continua.
Figlia mia mi sa che sei diventata come loro.
Sì? Forse un po.