Visto da Kalo

 

Quel pomeriggio nel
Casertano il sole picchiava forte, le previsioni del tempo avevano già
annunciato un’estate torrida. Con le sue mani, sporche di terra, Kalombo
raccoglieva i pomodori con l’unico pensiero fisso di riempire più casse
possibili. Ancora prima di trovare lavoro in questo campo, qualcuno gli aveva
raccontato che Djibril, un ragazzo senegalese, aveva stabilito il record di
cento casse in una sola giornata.

– Come Cristo avrà fatto?
Forse prima di arrivare in Italia lavorava già nei campi nel suo Paese! – si
chiedeva Kalombo.

Ma ora bisognava lavorare e
la raccolta dei pomodori durante l’estate nel Sud d’Italia richiamava una
moltitudine di extracomunitari. Ce n’erano di tutte le nazionalità, giungevano
da quasi tutti i paesi extraeuropei. In prevalenza si trattava di senegalesi e
maghrebini che si spostavano ogni anno durante il mese di maggio per questo
motivo. Il lavoro era duro, ma soprattutto le condizioni di vita erano
difficili. Nel paese i lavoratori stagionali erano considerati degli invasori e
bastava un qualsiasi incidente per far esplodere tutta la rabbia degli abitanti
su di loro. Alcuni extracomunitari che vivevano nella zona raccontano episodi
spiacevoli, come quello di un ragazzo africano che ci aveva lasciato le penne,
in queste baracche, ucciso da qualche balordo del posto.

Per Kalombo la raccolta dei
pomodori e la vita nel campo erano una novità, ma le sue condizioni di vita lo
portavano ad adattarsi subito a qualsiasi lavoro, e la sua abitudine a girare
l’Europa in cerca di fortuna gli aveva insegnato due cose: una era non fare mai
troppe domande e l’altra lavorare molto e bene per guadagnarsi la pagnotta. Era
giunto nel Casertano tramite un amico e subito dopo aveva trovato questo
lavoro. Per lui, l’Italia era soprattutto il Paese dei campioni del mondo di
calcio in Spagna 1982, ma dal suo giro del mondo aveva anche scoperto l’Italia
come terra dell’abbigliamento firmato. Il suo arrivo nel Casertano aveva
stravolto tutti i suoi piani ed ora che era qui Kalombo non smetteva di pensare
al suo destino, nella mente ripercorreva le tappe della sua vita considerata
finora fallimentare, sebbene ricca di esperienze.

– Avevo lasciato l’Africa
nella speranza di trovare una situazione migliore, oggi eccomi qua senza un
tetto, senza un futuro e con tutti i miei progetti in fumo.

Questi pensieri facevano
soffrire il ragazzo ma adesso bisognava guardare avanti e sperare in un domani
migliore.

Nella compagnia degli
africani del Casertano, Kalombo non era l’unico a possedere un titolo di
studio. Molti di coloro che venivano dalla Francia e dalla Svizzera erano
studenti universitari, senza borsa di studio, che venivano a sbarcare il
lunario con la raccolta dei pomodori. Questa era la vita di molti africani e
l’Europa aveva cominciato a pensare a questi lavoratori stagionali
attrezzandosi con dei veri campi, of-frendo anche buone condizioni
igieniche  e un’assicurazione sulle
malattie durante il periodo di lavoro.

Per la sua abitudine a
comperare ogni mattina un giornale, Kalombo veniva chiamato “l’intellettuale”,
un soprannome che sapeva di presa in giro, perché nessuno dei ragazzi che
raccoglieva i pomodori avrebbe mai pensato di spendere i propri soldi per un
giornale. Era già tanto se trovavano il tempo di leggere!

Nel campo la sveglia suonava
prestissimo, a Mban-daka nello Zaire, si direbbe che i ragazzi si alzano al
ritmo del sole e della luna.

Kalombo amava leggere e
appena trovava un po’ di tempo si immergeva nella lettura di giornali, ma anche
di qualsiasi foglio che gli capitava tra le mani.

Dal suo arrivo in Italia lo
preoccupava molto la sua situazione di clandestino, ma come molti altri suoi
amici non aveva le carte in regola per aspirare al meglio. Prima in Belgio
aveva trascorso due anni facendo l’aiuto barbiere nel quartiere africano di
Matonge a Bruxelles, poi c’era stato il viaggio in Francia.

A Marsiglia, presso un
amico, Kalombo era diventato il componente di prima fila di un gruppo musicale
e così riusciva a trovare il suo pane quotidiano. L’avventura musicale fu breve
e il soggiorno in terra francese si faceva sempre più difficile, infatti le
nuove norme di polizia in materia di immigrati non consentivano più agli
stranieri di valersi delle agevolazioni di una volta.

Per Kalombo vivere sotto
falso nome era diventata una necessità, di certo una condizione che sopportava
con molto disagio. I ritmi africani del Makosa e del Kwasa-Kwasa portarono
Kalombo in Inghilterra a Manchester, dove insieme ad un gruppo di amici suonava
in un locale. Il suo sogno musicale cominciava a prendere piede e i
proprietario della boîte era riuscito ad aiutarli a far uscire un LP: era
iniziato un periodo di grandi cambiamenti, ma il modo in cui era entrato in
Inghilterra non gli permetteva di presentarsi alla polizia per mettersi in
regola. La sua condizione di musicista gli aveva permesso di vivere una
clandestinità dorata, ma la stagione fu breve perché il locale venne chiuso, il
gruppo disciolto e dopo il successo arrivarono i guai.

– Sarà qualche zio d’Africa
che mi ha fatto il malocchio – pensava Kalombo – devo trovare un po’ di soldi,
tornare a casa e parlare con gli zii, probabilmente son loro la causa di tutto
quello che mi sta succedendo.

Magia nera, cose da non
credere! Ma spiegare a Kalombo che la 
causa di tutto era la sua situazione di clandestino era solo una perdita
di tempo.

Dopo anni passati in Italia
a svolgere lavoretti da “schiavo” e a nascondersi nelle baraccopoli dal Nord al
Sud, anche per Kalombo era arrivata la fine del calvario. Il parlamento
italiano aveva emanato una legge che permetteva agli extracomunitari
clandestini di regolarizzare la loro posizione: la sanatoria. Per Kalombo
questa parola era veramente la fine di un incubo.

L’autocertificazione, le
foto, il passaporto, insomma tutto il necessario che occorreva per recarsi in
questura. L’ufficio stranieri di Palermo era invaso da extracomunitari, le
forze dell’ordine avevano accettato la situazione e per quei giorni un
dirigente aveva abbandonato i piani alti del suo ufficio per mettersi a
disposizione dei suoi uomini. Quanti clandestini! La questura era diventata un
ritrovo di disperati in cerca di una manna.

Una volta chiamato, e dopo
aver espletato tutte le formalità, iniziava per Kalombo una nuova vita. I suoi
vecchi progetti gli tornarono in mente e una settimana dopo, quando si recò in
questura a ritirare il suo permesso di soggiorno con validità di tre anni,
Kalom-bo quasi non ci credeva. Confuso tra la gioia e gli interrogativi per il
suo immediato futuro, non riusciva a concentrarsi su altro. I suoi occhi erano
tutti per quel foglietto che aveva in mano; in cuor suo continuava a
ringraziare un po’ Dio, un po’ gli antenati per aver compiuto il miracolo.

Ora lo Stato italiano sapeva
della sua esistenza, gli mancava solo un lavoro, un buon lavoro che gli
permettesse di iscriversi a qualche corso serale, ottenere un diploma e
riorganizzare la sua vita con un occhio verso la via di casa. Tutte le sue
paure erano svanite e il permesso di soggiorno aveva avuto l’effetto magico di
far rinascere in lui tutte le sue forze: Kalombo era pronto per affrontare il
futuro che questo foglio di carta gli faceva intravedere. In quei giorni,
quando era venuto a conoscenza della sanatoria, Kalombo era apparso a molti  suoi amici come un piccolo eroe. Fu lui ad
annunciare la notizia a molti e anche i più scettici finirono per ammettere:

– L’intellettuale ha
ragione, da oggi c’è una nuova legge per farci uscire dalla clandestinità.

– Bisogna leggere,
informarsi, curiosare senza rompere le scatole agli italiani. Andate in
questura e vi spiegheranno il da farsi.

– E se ci tengono lì? –
aveva chiesto Babà.

– Niente paura, la notizia è
su tutti i giornali – gli rispondeva Kalombo.

Una volta regolarizzata la
situazione, l’obiettivo diventava il lavoro, ma ben presto si accorse che i
datori di lavoro non erano così disponibili ad andare incontro alle esigenze
degli extracomunitari e che forse era il caso di tentare al Nord.

– Qui – diceva Babà – devi
lavorare alle loro condizioni e poi per noi neri c’è poco da fare. Il Nord è la
nostra via d’uscita.

– Non voglio ricominciare da
zero, ora sono qui e qualche cosa devo trovare, non m’importa che tipo di
lavoro, basta che mi paghino.

– Attento Kalo, qui siamo a
Palermo: o fai quello che dicono loro o la tua vita sarà sempre dura.

– Conosco un prete, vado da
lui e spero di trovare aiuto.

Detto e fatto. Kalo andò da
padre Antonio, un prete che faceva miracoli per i bisognosi. Non era molto
amato dai boss di quartiere, ma sapeva dare tutto sé stesso. Si racconta che
niente veniva fatto senza che lui lo sapesse.

Padre Antonio, 50 anni, nato
in Sicilia ma cresciuto al Nord dove aveva studiato molto, dopo aver girato un
po’ era tornato nella sua terra per diffondere la parola di Dio. Da vent’anni
viveva a Palermo, dove la gente prestava molta attenzione alle sue parole. Si
racconta inoltre che avesse un figlio ma nessuno è mai riuscito a confermare
questa voce.

L’incontro tra Kalombo e
Padre Antonio fu molto casuale. Erano giorni che Kalombo era alla sua ricerca, ma
dal suo assistente aveva appreso che padre Antonio era fuori città. Dopo giorni
di attesa, una sera, disperato e affamato, Kalombo aveva trovato rifugio in una
vecchia casa. In piena notte venne poi svegliato da due uomini, uno dei quelli
era proprio padre Antonio.

– Che ci fai in questo
angolo sperduto della città?

– Cercavo un posto per
dormire, tra me ed i miei amici è successo qualcosa di grave, non voglio più
stare con loro, la mia vita d’ora in avanti deve scorrere tranquilla.

– Ma cosa dici? E come ti
chiami?

– Sono Kalombo, ho scoperto
che loro usano pistole e non voglio mettermi nei guai.

Senza più fare domande,
padre Antonio portò con sé Kalombo e, dopo averlo ascoltato per tutta la notte,
gli disse:

– Adesso riposati. Non
andare al Nord, domani ti mando da una brava ragazza e potrai cominciare a
lavorare. Mi raccomando, comportati bene.

Kalombo sognava l’incontro
dell’indomani e prima di chiudere gli occhi aveva fatto il segno della croce
per ringraziare Dio e aveva detto qualche parola in lingala indirizzata agli
antenati, comportandosi da vero africano cattolico che mescolava la fede
cristiana alle sue credenze tribali. La sua era la religiosità di un’anima che
credeva alle sacre scritture e alla forza della parola dei suoi nonni.

Un posto di lavoro! Questa
frase gli rimbombava nella mente e non gli permetteva di dormire, per tutta la
notte non riuscì a chiudere occhio. L’appuntamento del giorno dopo avrebbe
segnato il cambiamento di rotta della sua vita. Contava su padre Antonio e
nelle sue parole di conforto e di incoraggiamento, riponeva le proprie speranze
di ragazzo che aveva visto troppe cose brutte e che ora intendeva ricominciare
da capo camminando a testa alta. Dopo un colloquio di qualche minuto, Carla,
titolare di un’agenzia di pubblicità, aveva incluso nel suo personale anche
Kalombo.

– Da oggi sei dei nostri.
Peppino ti spiegherà il lavoro.

– Grazie, non potevo
chiedere di meglio, un posto di lavoro era tutto quello che speravo.

Accettando di lavorare per
questa agenzia, Kalom-bo non aveva pensato che il suo compito consisteva nel
distribuire volantini in tutta Palermo. Gli addetti venivano divisi in gruppi
di quattro, ciascuno dei quali si occupava della distribuzione dei volantini
pubblicitari in una determinata zona della città.

Il guadagno non era molto
alto, ma questo tipo di lavoro permetteva a Kalombo di incontrare molta gente e
quindi di crearsi un piccolo giro di amicizie.

La gioia di aver trovato
questo impiego era talmente grande che Kalombo voleva condividere le sue prime
emozioni ed i suoi primi risparmi con il fratello rimasto in Africa.

– Questa volta potrò
mandargli qualche cosa e soprattutto, dopo mesi di silenzio, potrò recuperare
il tempo perduto.

Un giorno, mentre
distribuiva volantini e andava di condominio in condominio, Kalombo udì un
boato. Senza rendersi conto di ciò che stava accadendo e senza aspettare di
saperne qualcosa, Kalombo d’istinto aveva pensato di scappare.

Il fracasso provocato
dall’esplosione era indescrivibile, il va e vieni di uomini e macchine era
quello che si vede nelle scene dei film. Per Kalombo nulla avrebbe potuto
esprimere la sensazione che ebbe in quel momento.

– Neppure Rambo avrebbe
fatto un tale disastro – continuava a pensare Kalombo allontanandosi dal luogo
per mettersi al sicuro.

I suoi pensieri cercavano di
giustificare la sua fuga. Con  la
criminalità che imperversava nel Sud, che non risparmiava tra le sue reclute i
poveri immigrati, un nero sul luogo dell’esplosione poteva essere una persona
sospetta, anche se innocente.

Il giorno dopo la sciagura,
Kalombo si recò in via D’Amelio, non solo per sapere quello che era accaduto,
ma anche per recuperare dei volantini che aveva lasciato in un condominio. Non
credeva ai suoi occhi, le dimensioni dell’esplosione avevano dell’incredibile: lo
spettacolo che gli si presentava davanti era una buca larga due metri e
profonda 80 centimetri, una seat Marbella bianca che sembrava una palla di
carta, vetri in frantumi ovunque e un palazzo di cinque piani interamente
distrutto.

– Per il dio della foresta
equatoriale! Che cosa è stato?

– Ehi, Kalombo, non hai
saputo niente? Qui hanno ucciso un giudice e la sua scorta.

– Ma chi è stato? Perché?
Salvatore spiegami bene, sto male solo all’idea.

– Dicono che sia stata la
mafia. Sai cos’è la mafia? Borsellino era un nemico della mafia e così hanno
deciso di farlo fuori senza pietà.

“Crudeltà degli uomini”
pensava Kalombo allontanandosi con il suo pacchetto di volantini. “Bisogna
riprendere a lavorare, sennò qui perdo il posto.”

La sera, al dormitorio di
don Antonio non si parlava d’altro, i ragazzi commentavano l’uccisione del
giudice e si respirava un’atmosfera triste come se fosse morto uno di loro.
Qualcuno aveva anche pianto e alla fine i ragazzi trascorsero tutta la notte a
preparare uno striscione: “Neppure le bombe ci fermeranno. Basta con l’omertà.”

In un angolo, Kalombo
ascoltava, s’interrogava e cercava di capire. Il foglio bianco che aveva
davanti a sé gli ricordava che doveva scrivere al più presto al fratello.

I suoi aspettavano sue
notizie da un bel po’ di tempo e Kalombo non poteva più rimandare la lettera.
Gli avvenimenti di questi ultimi giorni, i discorsi dei ragazzi ed il lavoro da
affrontare l’indomani, gli avevano tolto il sonno.

– Non mi resta che scrivere…

 

A te Kadima,

ti scrivo per dirti che sto
bene e non vi dovete preoccupare per il mio lungo silenzio. In questi anni ho
vissuto in Europa delle esperienze che mi hanno costretto ad aprire gli occhi.
Non è facile la vita che fanno qui i nostri ragazzi e, credimi, ho visto
parecchi vivere da cani. Il mito dell’Europa che abbiamo è una brutta gatta, ti
può uccidere l’anima se non riesci a trovare una via d’uscita. In ogni caso,
dopo aver passato duri momenti, ora le cose si stanno mettendo un po’ a posto e
sogno di rivedervi al più presto. Con questa lettera vorrei dirti due cose: la
prima  è che ho trovato un lavoro a
Palermo (sì, proprio a Palermo: ti ricordi il film “Cent jours à Palerme”? ti
ricordi il generale Dalla Chiesa?). Sono responsabile di zona di un’agenzia di
pubblicità. Mi hanno dato una macchina, e lavoro con altri quattro ragazzi,
tutti italiani.

Ti rendi conto, io a capo di
una zona per distribuire il lavoro ai miei ragazzi! Grazie a padre Antonio, un
prete molto combattivo, ho ritrovato il sorriso e Carla, il mio datore di
lavoro, mi ha dato la possibilità di pensare in altri termini alla mia vita. Di
lei ti parlerò nella prossima lettera.

La seconda cosa è brutta
perché ho rischiato di morire durante il mio lavoro. Stavo lavorando quando una
bomba è esplosa mandando in frantumi tutto quello che era nel raggio della sua
potenza. Dicono che la mafia abbia ucciso un giudice; si chiamava Paolo
Borsellino, era un giudice che lottava contro la mafia e dopo anni trascorsi
alla guida della procura di Marsala, era tornato a Palermo come procuratore
aggiunto. In Italia la mafia esiste sul serio e anch’io che non ci credevo ora
ne sono convinto e ho paura. Del giudice Borsellino raccontano che la mafia
controllava il suo telefonino e così hanno saputo dei suoi movimenti.

In via D’Amelio abitava la
madre e proprio davanti alla sua casa l’hanno ucciso. Mi è difficile spiegarti
lo sgomento che la morte del giudice Borsellino ha creato a Palermo, ma anche
in tutta Italia.

Nel quartiere Malaspina in
via Cilia 97, dove abitava il giudice, una miriade di persone andava in
pellegrinaggio. La moglie del giudice, Agnese Piraino Leto, è una donna
coraggiosa, i suoi figli (Lucia, Manfredi e Fiammetta) si sono resi conto di
quanto il loro padre significasse per l’Italia. “Cosa Nostra”, così viene anche
chiamata la mafia, non ha risparmiato neppure gli angeli custodi, i suoi uomini
della scorta sono morti con lui.

Non potrò mai raccontarti
con le parole la giusta dimensione di quello che è accaduto, penso solo che
c’erano pezzi d’uomini dappertutto. L’unico superstite si chiama Antonio Vullo,
pover’uomo chissà come passerà il resto della sua vita. Le esequie di
Borsellino si sono tenute nella chiesa dove ogni domenica si recava il giudice.

Prima di chiudere, vorrei
anche dirti che nel mese di maggio la mafia aveva ucciso un altro famoso
magistrato italiano: il giudice Giovanni Falcone. La sua auto saltò in aria
sull’autostrada che dall’aeroporto conduce in città. La strage di Capaci costò
la vita non solo a Falcone, ma anche alla moglie e a tre uomini della sua
scorta. Pensa che il giorno prima di morire, il giudice aveva confidato ad un
prete: “È in arrivo il tritolo per me”. Guarda caso il magistrato fu ucciso con
una bomba confezionata con cento chili di tritolo, ma qualcuno ha parlato anche
di T4 (un’altra miscela esplosiva che non perdona).

Adesso che Falcone e
Borsellino sono morti, per me vivere in Italia ha cambiato significato, non
tanto perché ho paura della morte – si può morire ovunque – ma perché mi chiedo
se questo paese sia il posto giusto per me e se mi darà la possibilità di
realizzare i miei sogni. Se due uomini importanti vengono uccisi come niente,
pensa un po’ cosa possono fare di noi.

Il giudice Falcone amava
spesso ripetere: “Per me che sono siciliano, la vita vale quanto un bottone.”

E per me che sono africano
quanto può valere la mia vita in Italia?

Saluti alla mamma e ai
ragazzi del quartiere.

Mi mancate tantissimo e ti
prometto che d’ora in avanti avrai spesso mie notizie. Nonostante tutto ho
cominciato ad amare l’Italia, anche se prevedo che il mio soggiorno sarà di
breve durata.

Alla prossima.

 

 

 


Scarica il racconto