Versi senza dimora

un altro linguaggio nello sguardo

un altro colore nei pensieri

(Gladys Basagoitia)

 

In queste pagine presenterò alcune osservazioni o
suggestioni sparse che i versi dei poeti selezionati per questa V edizione del
concorso Eks&Tra hanno in me suscitato.

Vorrei iniziare da colui che si definisce “il più
triste poeta dei Balcani”, anche perché in questi giorni la situazione di
quell’area geografica è tragica (ma in parte lo era da tempo) e i versi di
Gezim Hajdari risultano in più casi profetici: “Quelli che continuano a fuggire
/ nella neve / lasciando dietro le spalle / cieli impiccoliti, muri fragili /
che tremano / (…) sono in balìa delle dimore ignote” (corsivo mio).

Hajdari è il poeta esiliato che “si riveste di
un’altra lingua che germoglia / corvi – / corvi che volano su ghiacci e muri /
disfatti”; il poeta che parla quasi per scaldarsi, per esorcizzare la frigidità
dei sentimenti (riflessa nel suo lessico: “ghiacci”, “acqua buia”, “vuoto”,
”ombra”, “chiusa”, “nascondermi”, “cenere”, “uccelli neri”, “corvi”,
“cancellare”, “freddo”, “deserto”, “silenzio”, “morti”, “angoscia”, “muri”,
ecc.), per distillare da poche efficaci parole l’essenza di quel calore umano
spesso assente o distratto o ferito o congelato o annichilito; il poeta senza
illusioni (“Dintorno / continuerà la caducità delle cose / la scomparsa dei
poeti che legano / il cielo con la terra”) che sa al tempo stesso di svolgere
nel nostro “spazio imperfetto” il ruolo importante di tramite col cielo, un
tramite sulla distanza abissale che è il non-spazio di una ferita esistenziale
comune a tutti gli uomini, distanza su cui il poeta getta la sua tenue rete di
parole alle quali è (o forse desidera essere) “sospeso / senza appartenere a
nessuna dimora / al bivio di un equilibrio” (corsivo mio).

Non a caso il sostantivo “dimora” è ricorrente nei
versi di questo autore espatriato che si chiede: “infinito che mi ospiti / sono
stanco del Tempo e del vuoto / cosa è il mio frammento / o il tuo frammento?”

Versi ambigui (nel senso migliore) in cui la parola
“cosa” non è solo – ci pare – il pronome interroga-tivo, ma anche un forse più
inquietante sostantivo: il mio frammento è (una) cosa, o lo è il tuo? In
quest’ultimo caso l’ “angoscia diventa orizzonta-le” e anche il muro che ci
difende e individua sarà solo un velo sottile di nebbia in cui tutto ciò che è
sotto il cielo diventa abbastanza confuso, illusorio, sofferto; e le paure, i
dolori, le sofferenze echeg-giano come tonfi sordi, elusivi, lasciando in noi
soltanto il loro peso ineludibile e per lo più inco-municabile. Allora creiamo
parole a cui speriamo qualcuno presti un qualche ascolto, ma senza crederci
troppo: “Ho paura / spesso di notte dormo con boschi incendiati / e nelle mani
mi scorrono fiumi di cenere”, “Le ali della mia disperazione / sbattono sulle
pareti di un mondo terribile / il silenzio che si ripete nella mia dimora / mi
uccide / sono il poeta più triste dei Balcani” (corsivo mio).

Poiché le parole sono tutto sommato insufficienti
(ma al tempo stesso umanamente indispensabili) per dare una spiegazione
definitiva, per co-municare (che etimologicamente significa “assog-gettarsi con
altri a un’autorità”) e a condividere quindi con altri il proprio peso esistenziale,
il poeta ricorre all’ambiguità sintattica per dare alle parole, appunto, una
valenza più ampia. “Sono la verità / di un viaggio e di una linea d’Ombra /
custoditi sulla terra viva e chiusa”: qui il verbo “sono” viene inizialmente
considerato di prima persona singolare, ma arrivati al terzo verso il
participio “custoditi” ci rivela che va in realtà considerato di terza plurale:
con questi artifici che ci costringono a tornare sui nostri passi, ci viene al
contempo dimostrata l’insufficienza del linguag-gio che resta pur sempre un
mezzo di espressione imprescindibile per un poeta (e non solo per lui).

Hajdari dà sfogo al suo grido in maniera incisiva e
dimessa, straziante e impotente eppure, in quanto grido poetico (quindi
creativo), non del tutto privo di una disperata speranza: qualcuno o qualcosa
può certo soffocarlo, quel grido, ma la sua Voce “sta lì, dove è stata: / in
nessun luogo / e in nessun tempo / appesa al crepuscolo”. Nel luogo che non
c’è, che forse è quello che può essere in parte creato dalle parole, nessuno
può soffocare la Voce del poeta.

Le poesie di Vera Lucia de Oliveira sono anch’es-se
icastiche, essenziali, descrivono in maniera quasi materica le sensazioni e i
sentimenti. I ritrat-ti che “gocciolano / gesti rugosi”, L’abbandono che è
“porta lentamente / sbattuta nell’osso”, l’andare dei bambini di strada come
“piccole anime calpestate” fanno riferimento alla corpo-reità del dolore,
dell’invecchiamento, dell’ingiu-stizia, e non possonono non scalfire anche la
sensibilità del lettore più distratto.

Leggendo i versi di un’altra poetessa sudame-ricana,
ci colpisce ancora una scrittura priva di ritmi suadenti, scarna e geometrica.
Gladys Basagotia è “straniera nel luogo di nascita”, “un altro linguaggio nello
sguardo / un altro dolore nei pensieri // le vie difficili solitarie”: abbiamo
scelto i quattro versi decasillabi della poesia Sola che possono essere
altrettante definizioni della solitudine (o, più nostalgicamente, saudade) che
spesso caratterizza la condizione di immigrato, quella di chi, anche se è
giunto al paese dei suoi sogni, vede chiudersi “le anime e le porte” (Altra
lingua).

L’iraniana Vida Bardiyaz ha invece uno stile
fluente, visivo, volutamente ridondante e sobria-mente musicale. La vicina del
piano di solitudine è quasi una prosa poetica che ci avvolge con le sue
ipnotiche spire verbali caratterizzate da immagini molto suggestive pur
utilizzando un ritmo spezzato: “nella voce macchinosa della strada / la fretta
di un ultimo rotolio”, “e il mattino… / (che ondeggia nelle pieghe delle tende
/ (…) e la morbida linea di un volo / si cancella dal lento assalto della
nebbia”, “e tra i vapori del sonno / sorge la rotaia di nuovo giorno /
cadenzato dalle fermate degli stessi appuntamenti”. Se “l’inverno è sospeso
come un magone”, la vicina “langue in una molle melanconia / e nel ripasso
distratto della giornata”: è questo l’isolamento dell’uomo occidentale (quello
della “mano il cui ricordo / non è rimasto nella stretta di nessuna mano”)
mirabilmente descritto dalla  poetessa.

Altro autore di madrelingua persiana è Mir Gialal
Hashemi abile nel costruire da una strofa all’altra echi che rafforzano il suo
messaggio: “Avanzano dappertutto” (prima, seconda e quarta strofa), “il fulmine
brucia tutto” (terza strofa); “i guerrieri del terrore / odio e rancore” (prima
strofa), “i guerrieri senza cuore” (seconda strofa), “semi gettati dal vento,
contro l’amore” (terza strofa), “con le loro divise chiaroscure, di ogni
colore” (quarta strofa).

Cosa ci dicono allora questi poeti “dislocati”? Ci
parlano di sé stessi, di noi, degli altri. Ci lanciano messaggi, ci indicano
storture, ci commuovono, ci invitano a rileggerli per scoprire nuovi sensi, per
assaporare nuove immagini che prima ci erano sfuggite… è questo poi il valore
di ogni poesia autentica.

 

 

 

 

 


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