Vado a casa

 

Forse il cielo non lo sa

Ma la terra è coperta di
passi,

I passi riluttanti di chi
parte

Per cercare una casa.

Perché la casa non è solo

Là dove sei nato,

Ma è dove

L’uomo che è in te,

Può guardare il cielo
finalmente grato

Per il giorno che finisce

E può sperare

Nel giorno che verrà.

 

– … Yao, se vuoi tornare ad
Abidjan, ho un biglietto d’aereo per te sul volo di domani.

Fu questa la proposta di suo
cognato.

– Davvero? – domandò
incredulo.

– Sì! Ma…

Era una domenica pomeriggio,
una bella giornata di primavera, e lui dopo aver salutato le ragazze africane
del convitto di sua sorella, si diresse verso casa. Salendo sul metrò alla
stazione di Montrouge, camminava quasi saltellando, cercando di comprimere
dentro di sé una gioia trepidante e tumultuosa, che cercava di sprigionarsi
dalla punta dei piedi fino ai capelli e agli occhi. Non riusciva a reprimere
quel fremito dell’anima che si era tramutato in una tensione tale da fargli  dolere tutti i muscoli. Cercò di respirare
profondamente, per riordinare le sue idee, ma non riusciva a trattenere quel
grido assordante che echeggiava dentro di lui, nel più profondo. Dopo aver
saltato il tourniquet per non pagare il biglietto, s’inoltrò esultante per
l’inter-minabile corridoio che portava alla direzione “Porte de Clignancourt”,
con i pugni stretti, agitando le braccia in segno di vittoria ed infine urlò,
con le braccia tese, con tutta la forza che poteva dare alla sua voce:

– Vado a caasaaa!!!

L’eco, nella penombra del
tunnel vuoto del metrò, rispose quasi con un “Ah…” ironico ma lui non ci diede
importanza tanto frizzante era la sua felicità.

Si dondolò immerso nei suoi
pensieri, ignaro della folla di passeggeri che lo spingevano dentro la vecchia
carrozza con i banchi di legno duro.

Un solo pensiero si dilatava
nella sua mente fino ad occuparla interamente: “Vado a casa, non mi alzerò più
all’alba come uno zombie a trascinarmi per metrò, RER, autobus, per poi
percorrere chilometri a piedi e raggiungere come ogni mattina, le Halles di
Rungis sperando di trovare da scaricare i camion di frutta e verdura, e a
congelarmi in celle frigorifere. No Signori, non tornerò più la sera con la
schiena rotta, a coricarmi esausto sul mio lettino in quella stanzetta di Rue
Barbes, per sentire il gorgoglio di fame della mia pancia.”

Chi l’avrebbe detto che la
vita a Parigi era così disumana!

Dopo tutti quegli anni si
stupiva ancora di questo rapporto d’amore e odio che nutriva nei confronti di
questa città.

Certo Parigi era bella, era
questa una verità inconfutabile. Parigi sapeva incantarti, dal lungo Senna
all’acciottolato di Notre Dame, per non parlare dei giardini di Lussemburgo. Il
quartiere latino era affascinante con i suoi mangiafuoco, i saltimbanchi, le
sue librerie, e caveaux.1

Solo il fatto di stare lì
seduto alla fontana dell’Arcangelo ti dava un non so che di senso di libertà.
Era bello salire presto, di prima mattina, da Blanche fino alla maestosa chiesa
di Mont-martre, girovagare per Place du Tertre, quando allora tutto non era
ancora transennato, lottizzato e così freddamente organizzato. Era davvero una
delizia, passeggiare con le mani in tasca e fiutare l’aria pungente, con il
passo da bohème a curiosare fra i maestri della copia, i cesellatori di
profili, i provetti disegnatori e i geni della matita che in pochi minuti
immortalavano dei ritratti, sotto gli occhi sbigottiti ed ammirati dei turisti.

Yao con la sua anima
inquieta non poteva non essersi invaghito della Parigi delle cartoline, La
Paris dei bistrot,2 del panaché,3 della torre Eiffel, delle patatine fritte, delle ostriche, della
sensualità luminosa e lussuosa degli Champs Elysées.

Abitando poi a Barbes,
quante volte desideri torbidi e inconfessabili lo trascinarono, doloro-samente,
ad elemosinare e sbirciare con gli occhi bassi, furtivi e vergognosi le foto
osé in qualche sex shop, dal negozio Tati a Pigalle, fino a Blanche.

Sì! Odiava Parigi, perché
sapeva essere crudele ed esigente come l’amata che degnava di concedersi solo
al suono delle monete, la Parigi dei dolci arabi multicolori, delle
gigantografie di spaghetti alla bolognese e di steack-frites, che lo facevano
salivare e contorcere le budella quando, attana-gliato dalla fame, ma senza un
soldo, girava a riempirsi gli occhi per poi tornare a casa a bere l’acqua
spessa di calcare con la puzza di cloro. Odiava di certo quella città cinica,
che non ti permetteva neanche di orinare, se entravi senza un franco in un bar
quando eri lontano dai famosi vespasiani.

Immerso nei suoi pensieri,
la brusca frenata del metrò lo riportò alla realtà: era arrivato a destinazione
e certo per l’ultima volta!

Uscendo dalla metropolitana,
fu inghiottito dalla calca multicolore dei poveracci che si pressavano
all’ingresso del negozio Tati. Lì, i vestiti sformati e desueti dai colori
sgargianti, erano venduti a poco prezzo e, nella confusione, con un po’
d’astuzia e fortuna si riusciva ad infilare un paio di calze e un paio di slip
in tasca.

Oggi Yao era troppo felice
per andare a “fare compere”. Girando l’angolo della strada non si fermò neppure
a chiacchierare con la sua amica bionda Annie, che ancheggiava appollaiata sui
tacchi alti e suonanti dei suoi stivaloni neri su e giù nella stradina
adiacente. Avvolta nel suo giubbotto nero, lo apriva generosamente per esporre
la traboccante merce agli occhi porcini d’eventuali clienti cantando, con la
sua voce soave: “Alors, Chéri, tu viens?”

– Ciao Yao! – sussurrò la
ragazza.

Yao si accontentò di
gratificarla con un sorriso complice, rispondendo con un cenno della mano al
suo saluto. Varcò la soglia del portone che lo portava al sottotetto del
palazzo, senza ascensore, dove alloggiava.

Su per le scale, egli
pensava ad Annie e alle sue compagne per cui provava una grande stima.
Conversando molte volte con le ragazze, aveva scoperto quanto potevano essere
leali e solidali fra di loro e con la gente che, come lui, vive di espedienti
nei destini tortuosi, nelle vie buie della rude e avara città “Lumière”4. Ormai per l’opi-nione
generale e per i mass media, i drogati, le prostitute, i gay, i delinquenti,
gli immigrati e a volte anche gli handicappati, formano un unico gregge, nello
stesso recinto, ai confini del perbenismo e della legalità più ipocrita.

Si ricordò che qualche mese
prima, tornando a casa fu proprio Annie a fermarlo:

– Yao! Attento, ci sono
stati i “flics”.5

Yao si girò sconcertato,
guardando furtivamente attorno come un animale braccato, sentendosi le gambe
diventare molli e il cuore pulsare in gola.

Mentre rispondeva con voce
che si voleva spavalda:

– Hai voglia di scherzare! –
Yao realizzò con stupore che la ragazza lo aveva chiamato con il proprio nome,
e non con il suo pseudonimo di battaglia, “Eric”, dietro il quale si mascherava
per precauzione nelle sue attività più o meno illecite. Quel fulmineo pensiero
lo convinse del pericolo imminente.

– I “flics” sono venuti.
Hanno beccato tuo cugino da Dudu, con la merce. Hanno frugato da voi e ci hanno
interrogato su di voi!

“Ecco perché sapeva il mio
vero nome”, pensò Yao prima di scappare. Girò per tutta la notte per Parigi,
guardandosi le spalle, vagabondando e cambiando mille volte direzione. Poi alla
fine, esausto, si fermò per riflettere sulla situazione.

Era di certo assurdo
scappare, se la polizia lo cercava, prima o poi l’avrebbe trovato: tanto valeva
arrendersi subito ed affrontare il problema. Rassegnato, prese la metropolitana
e tornò calmo e risoluto a casa.

Trovò la porta aperta ed un
disordine incredibile nella stanza. La sua valigia era lì, aperta, con le sue
cose sparse qua e là. Con un sospiro di sollievo, vide che il suo passaporto e
tutti i suoi documenti erano lì. Si avvicinò al lucernario e tese la mano in
fuori alla ricerca della cordicella, da cui pendeva il sacchetto contenente la
loro riserva di merce. La borsa di plastica era scomparsa. La busta in fondo
alla valigia con gli ultimi spiccioli era lì, intatta, prova che non erano
venuti dei ladri. Si sedette sul letto aspettando da un momento all’altro
l’arrivo dei poliziotti, convinto che erano lì appostati ad aspettarlo.

Passarono due ore poi
quattro, ma non venne nessuno. Concluse che il patto convenuto con il cugino
aveva funzionato a meraviglia. Con lui aveva concordato: “Se uno di noi viene
preso, deve scagionare l’altro in modo che possa essere libero per tirarlo
fuori di prigione.”

Ancora pieno d’illusioni il
cugino concluse: “Basta dire che sei qui in visita da me, e che non sai niente
di quello che faccio e viceversa. Tanto qui la polizia non picchia, come si fa
da noi, e per pochi grammi mi terranno al fresco massimo una settimana.”

Invece lo picchiarono
scientificamente e si accollò quattro mesi di galera.

Yao salendo le scale,
ripensava a tutte queste cose, perché finalmente era felice di poter sfuggire
ad ogni cosa. Ormai aveva trovato l’avvocato per il cugino ed informato chi di
dovere per coprire le spese. Aveva avuto troppa paura e vedere il cugino dietro
le sbarre l’aveva buttato giù all’in-verosimile e quel biglietto d’aereo cadeva
dal cielo come la manna.

Basta con quest’avventura
nel paese dei bianchi, se ne voleva tornare a casa.

L’arresto del cugino era
stato un segno del destino per riportarlo sulla retta via. Andare via era
l’oc-casione tanto sognata per uscire dal tranello della droga.

Si coricò senza riuscire a
prendere sonno. Era troppa l’eccitazione al pensiero che domani torna-va in
Africa. Se n’andava da questo paese freddo non solo per il clima, ma freddo
soprattutto per il rapporto con la gente.

Tornava, sì, nel suo paese
dove nessuno si sarebbe mai rifiutato di servirlo in un bar. A Parigi aveva
provato di tutto: dal dormire in dieci in una stanza gelida dandosi il cambio
fra il duro tappeto e il divano sgangherato, dove in cinque si stava seduti con
i piedi appoggiati sulle sedie, stringendosi per ripararsi dal vento del nord
che filtrava dagli infissi e pungeva fin dentro le ossa, ululando sui margini
del pezzo di cartone che fungeva da vetro alla porta. Solo a pensarci gli
veniva la pelle d’oca. Gli sembrava di sentirsi ancora addosso quella puzza
mista di rancido, di muffa e di odore di spezie che immancabilmente si portava addosso,
nonostante le frequenti abluzioni nelle docce pubbliche. Sì, signori, se
n’andava a casa: non avrebbe più, mai più frugato nei cassonetti, la sera,
dietro ai supermercati, per sfamarsi e tanto meno si sarebbe abbassato nel
metrò facendo finta di allacciarsi le scarpe per raccattare cicche.

– Ragazze! – aveva
annunciato pavoneggiandosi altezzosamente, sventolando il suo biglietto con un
certo disprezzo nei confronti delle amiche africane di sua sorella.

– Ragazze, mentre voi sarete
sempre qui a soffrire il freddo, pensate che io domani sarò ad arrostirmi al
caldo!

Poi vedendo i loro sguardi
sognanti e nostalgici, aggiunse perfidamente ed impietosamente:

– Ragazze, vi risparmio i
menu di spiedini piccanti, di attieké, di salsa di arachidi, di fufu senza
parlare delle serate inebrianti fino all’alba al ritmo di reggae, soukous,
zaiko e di merengue, stretto stretto con delle vere ragazze africane, calde,
con dei seni belli, sodi e non delle bianche, tinte in nero, come voi!

Uscendo, Yao concluse poi il
suo show con una giravolta alla James Brown esclamando:

– Ciao ragazze! Vi saluto
l’Africa!

Yao passò la notte a
rivedere il passato e a sognare il futuro, un futuro incerto, ma che non poteva
essere peggio del presente. Fece presto la mattina a racimolare quelle sue
poche cose per infilarle in valigia.

Prese la sua chitarra,
salutò la portinaia che era sempre stata molto materna nei suoi confronti,
consegnandole le chiavi. Per la prima volta, lei lo baciò e mormorò:

– Salutami la tua mamma!

Come se l’avesse conosciuta
da sempre per quante volte lui ne aveva parlato.

– Non mancherò!

Yao non aveva abbastanza
soldi da prendere un taxi per l’aeroporto. Decise di prendere il metrò fino al
capolinea più vicino, nella direzione dell’aeroporto. Lì, poi, avrebbe fatto
l’autostop. Tanto l’aereo partiva nel pomeriggio ed aveva tutto il tempo a
disposizione. Scese nella bocca della metropolitana. La fortuna era dalla sua
parte: la cabina del controllore era vuota. Saltò il tourniquet e si trascinò
dietro i bagagli.

Al capolinea, Yao contò gli
ultimi spiccioli che aveva in tasca per prendere l’autobus: i soldi non
bastavano. Egli salì senza pagare incurante dello sguardo insistente
dell’autista nello specchietto. Si sistemò davanti pronto a scendere alla
minima avvisaglia di un controllore e ben fece, perché alla quinta fermata, Yao
li avvistò. Lo bloccarono mentre scendeva.

– Biglietto prego!

– Non ce l’ho!

– Documenti ed indirizzo!

Senza discutere, Yao diede
un falso indirizzo scritto appositamente per simili occasioni su una busta
sulla quale aveva incollato un francobollo timbrato pensando: “Tanto vado a
casa!”

S’incamminò per un po’ lungo
la strada, ma la valigia era pesante ed incominciava a mangiargli il palmo
della mano.

Dopo un chilometro, si fermò
e seduto sul bagaglio, provò a fare l’autostop, ma nessuno si fermava. Certo
aveva ancora tanto tempo davanti, ma l’angosciante pensiero di perdere l’aereo
gli attanagliava la mente.

Decise di fare una cosa che
non aveva mai fatto in vita sua: chiedere l’elemosina. Aveva sempre pro-vato
vergogna a chiedere soldi e aveva sempre malgiudicato gli accattoni, che
cercavano di fermarlo nei corridoi del metrò. Capì che quando l’uomo sente di
essere un animale da preda, per la sopravvivenza, la moralità diventa un lusso
inutile, come un fiore all’occhiello. Per superare il proprio imbarazzo, pensò
di chiedere i soldi in prestito insieme all’indirizzo della persona, per
restituirli appena giunto a casa.

Non fece in tempo ad
avvicinarsi alla giovane ragazza che stava arrivando, che quest’ultima,
subodorando o fraintendendo le sue intenzioni, attraversò con passi affrettati
la strada, per raggiungere l’altro marciapiede.

Si avvicinò ad un’anziana
signora, ma appena accennò ad aprire bocca quest’ultima fece un vistoso scatto
di paura, con un gridolino acuto, stringendosi la borsetta al petto. Lo
sorpassò sbirciandolo, diffidente, con le coda dell’occhio per qualche metro.

Questi due tentativi
convinsero Yao a non abbordare le donne.

Si rivolse ad un uomo che
stringeva una baguette sotto le ascelle sudate:

– Per favore mi può prestare
cinque franchi?

L’uomo passò oltre senza
degnarlo di uno sguardo e Yao lo sentì borbottare: – Vai a casa tua!

Yao si sentì ribollire dalla
rabbia e soprattutto dalla vergogna, ma continuava a chiedere con gli occhi
abbassati, non avendo il coraggio di guardare in faccia nessuno. Si sentiva a
disagio: gli sembrava che tutta la gente per la strada lo stesse osservando ed
egli leggeva nei loro occhi e nella loro mente lo stesso giudizio: “Fannullone
di un negro, vai a lavorare o, meglio, perché non te ne torni a casa tua?”

Yao era mortificato ed
avvilito, credeva con quel suo comportamento di fare torto a tutta la sua
razza.

Ricordava una sera quando,
spinto dalla fame, con la pancia che gli bruciava borbottando, stava frugando
dentro una pattumiera e fu sorpreso da una ragazza:

– Cosa stai facendo?

– Non si vede? – rispose
aggressivo.

– Hai fame?

– Che domanda!

– Vuoi venire a mangiare a
casa mia?

Yao la guardò incredulo e
diffidente, chiedendosi dove era il tranello. Spinto dalla disperazione
assentì:

– Certo!

La ragazza lo portò a cenare
assieme ai suoi genitori. Furono discreti, parlarono dell’Africa e di musica. A
tavola mangiò a sazietà. Nessuno gli chiese da che paese venisse, cosa facesse
e tanto meno come si chiamasse con quel tono di interrogatorio poliziesco, a
cui la gente di norma, sottopone lo straniero con la scusa di conoscerlo.

Mentre nella sua mente
rievocava quell’episodio, Yao continuava instancabilmente la sua questua.

Stava ripetendo la sua fatidica
frase ad un giovane ragazzo prima di rendersi conto del suo aspetto e del suo
abbigliamento. Portava un paio di jeans slavati e in parte stracciati, dei
capelli lunghi ed un tatuaggio al polso. Yao stava per ritrarre la mano, quando
il giovane prese il suo portafoglio dandogli due biglietti di dieci franchi e
dileguandosi prontamente, evitando i suoi ringraziamenti.

Yao rimase lì un attimo
interdetto, pentendosi di aver giudicato il cuore d’un uomo dal suo aspetto
esteriore. Commosso, si promise che mai e poi mai avrebbe rifiutato di dare
soldi o il suo aiuto a chiunque d’ora in poi glielo avesse chiesto. Certo,
sapeva di gente che speculava sulla pietà altrui, ma oggi aveva capito che fra
tutta quella gente, v’era chi veramente era in difficoltà. Sì! Si sarebbe
sdebitato in quel modo.

Arrivò in orario
all’aeroporto. Yao ebbe il tempo di offrirsi un panino ed una birra, prima di
avviarsi per il check in con il tremolio di una sorda angoscia che gli chiudeva
il cuore.

Offrendogli il biglietto
d’aereo, il cognato aveva spiegato con insistenza:

– È il biglietto di ritorno
legato alla mia borsa di studio. Sopra c’è scritto il mio nome, ma stai
tranquillo che al check in nessuno ti chiederà un documento, per loro è un nome
africano e basta. Non ti preoccupare andrà tutto bene. Per precauzione, ti do
il mio passaporto, tanto per i bianchi, noi neri ci somigliamo tutti, quindi
non vedranno la differenza. Stai tranquillo!

Così aveva assicurato, e lui
era così felice dell’opportunità di potersene tornare che non valutò che fra il
dire e il fare v’era di mezzo una lunga fila d’attesa colma d’angoscia da
superare, e non solo “il mare”, come recitava il proverbio.

Ma si vede che gli spiriti
degli antenati erano al suo fianco. Quando raggiunse il banco, la signorina con
un radioso sorriso registrò la valigia prenotandogli un posto fumatore e lo
consigliò di tenere con sé la chitarra per non correre il rischio di romperla.
Yao gli regalò uno dei suoi larghi sorrisi charmeur e si prese la libertà di
commentare con galanteria:

– Grazie! Molto gentile
oltre che carina!

“È fatta! Vado a casa!”
pensò con il cuore ricolmo di gioia.

Col passo leggero superò il
passaggio dei metal-detector e s’inoltrò verso il controllo dei pas-saporti.
Messosi in fila, un dilemma l’assalì: “È meglio mostrare il mio passaporto
oppure quello di mio cognato?”

Alla fine decise per quello
di suo cognato, tanto “per i bianchi, noi neri ci somgliamo tutti” e poi non si
sa mai, se fossero collegati con la lista dei passeggeri.

Yao alzò la testa e il cuore
smise di battere un interminabile secondo. In capo alla sua fila, a controllare
i passaporti, v’era un poliziotto nero delle isole francesi.

“Accidenti!” pensò, “quello
di certo, capirà subito che non sono io su quella foto!”

Lestamente, egli cambiò fila
per immettersi in quella del poliziotto bianco, grassoccio, d’aspetto bonario.
Quando arrivò il suo turno, Yao inspirò l’aria tiepida a pieni polmoni, per
rallentare i battiti assordanti del suo cuore, porgendo con un’aria che si
voleva indifferente ed annoiata il passaporto del cognato. Il poliziotto prese
il documento ed alzò macchinalmente il timbro per apporlo. Si fermò con la mano
a mezz’aria, guardò la foto, alzò lo sguardo verso di lui mentre cercava di
sfoggiare un timido sorriso, poi riguardò di nuovo la foto. Perplesso, con la
fronte corrugata, il grassone insinuò esitante:

– Ma… non è lei nella foto!

Per un attimo il sangue si
gelò nelle vene di Yao e tutto si mise a girargli intorno.

– Sì! Sono io! – sostenne
con poca convinzione.

– No! Non è lei! – affermò
con più sicurezza il poliziotto e continuò

– Qui lei porta la barba!

– L’ho tagliata! Dichiarò
mentendo spudoratamente e con tono deciso.

– No! Non è lei sulla foto!
Sentenziò l’uomo fissandolo negli occhi.

– ȅ ȅ ve…ve….ro!

Convenne Yao, balbettando
sul baratro della disperazione, estraendo dalla tasca il proprio passaporto.

– Adesso le spiego – si
abbassò verso il poliziotto sussurrando a bassa voce per non essere udito – si
tratta del passaporto di mio cognato che…

– Venga con me al posto di sicurezza!
– intimò l’agente alzandosi senza prestare attenzione ai suoi tentativi di
spiegazione.

“Oh Dio! Dio mio, che
vergogna!” pensò Yao mentre seguiva l’uomo, sentendo i mormorii di stupore e
gli sguardi degli altri viaggiatori trafiggergli la nuca come spine roventi.
Era come se d’un tratto il tempo e lo spazio si fossero congelati, coagulati in
un vuoto d’angoscia. Si sentiva la testa svuotata e il corpo pesantissimo.

Nel corridoio, mentre si
dirigeva all’ufficio della  sicurezza,
il poliziotto rincarò con freddezza:

– Lei non può viaggiare con
i documenti di un altro!

– Lo so! Ma siccome avevo il
biglietto di mio cognato, abbiamo pensato che…

Yao smise di parlare perché
l’uomo non stava a sentirlo, provò in un altro modo:

– Lei crede che non sia possibile
trovare un accordo, cioè…

– Le conviene stare zitto,
per non aggravare il suo caso con un tentativo di corruzione.

Rimpianse con amarezza di
non essere rimasto nella sua fila originaria. Di certo il “fratello” nero
sarebbe stato sicuramente più comprensivo e avrebbe chiuso un occhio su quello
che lui considerava un dettaglio.

Al posto di polizia
passarono subito a dargli del tu. Yao fu perquisito ed interrogato:

– A chi e dove hai rubato il
passaporto?

– Chi ci dice che il
passaporto è di tuo cognato, visto che i vostri cognomi sono diversi?

– Dove hai rubato il
biglietto?

– Ti conviene dire la
verità, altrimenti ti mettiamo in gabbia!

Yao dovette ripetere per
dieci volte la stessa cosa, sudando, agitato, ora in piedi, misurando la stanza
con le mani in tasca. Si fece da prima sup-plichevole:

– Vi prego! Credetemi!
Lasciatemi andare a casa.

Poi rabbioso e aggressivo:

– A voi poi che cosa
importa! Lo vedete che ho il mio passaporto in regola. Per quale motivo avrei
usato il passaporto di mio cognato se non fosse per il biglietto? Non fate che
dirci sui giornali e alla TV di tornarcene a casa nostra, che siete stufi di
vederci. Ci volete rimpatriare o no? Beh, ora che io voglio andarmene da qui,
ora che voglio tornarmene a casa, mi bloccate qua! Che senso ha? Ditemi che
senso ha?

Di fronte ai loro sguardi
impassibili, riprese con tono lagnoso:

– Vi prego, vi supplico
lasciatemi andare, qui non ne posso più di patire la fame, il freddo. Se torno
in città non ho più un posto dove andare a dormire, non ho più un lavoro. Vi
prego lasciatemi andare a casa mia!

Nel suo sfogo, Yao cercò di
reprimere le lacrime nascenti della disperazione. Non voleva piangere davanti a
loro, voleva salvare un brandello della sua dignità strapazzata. Si zittì con
la bocca secca e la gola arsa e dolente. I lacrimoni irrefrenabili gli
solcarono le guance per andare a morire silenziosamente agli angoli delle sue
labbra asciutte. Il capo poliziotto sollevò la cornetta del telefono e con un
gesto l’invitò ad accomodarsi in sala d’attesa.

Yao si affidò a tutti i
Santi e a tutti gli Spiriti dei suoi antenati.

Non passarono cinque minuti
che arrivò un uomo alto in borghese con il distintivo dell’Air France e un
walkie-talkie agganciato alla cintura.

L’apostrofò subito senza
mezzi termini:

– Questa è una truffa nei
confronti della nostra compagnia, lei non può viaggiare con il biglietto di un
altro, senza il nostro consenso.

– Per voi che cosa cambia,
tanto il posto è già stato pagato!

– Cambia giovanotto! Cambia
per quanto riguarda l’assicurazione. In caso d’incidente, lei non figura fra i
nostri passeggeri!

Yao a quel punto rinunciò a
discutere. Si vede che era il destino a volere così, anche se oggi non riusciva
a capirne la ragione, presto o tardi tutto si sarebbe chiarito.

Rassegnato, si sedette sul
divanetto con la sua chitarra in grembo.

Non sapeva se era il suo
silenzio o la sua faccia sconfitta ad intenerire lo spilungone. Lo sentì
armeggiare con il walkie-talkie, parlottare un po’ per poi girarsi verso di lui
e dire:

– Vieni! Ti porto all’aereo,
facciamo ancora in tempo!

Yao si raddrizzò d’un colpo,
euforico, ringra-ziando mentalmente il suo angelo custode e gli spiriti dei
suoi antenati e s’incamminò con l’uomo verso il grande tubo coperto, che
portava all’aereo. Intravide da lontano l’hostess davanti allo sportello ancora
aperto del veivolo.

“Vado a casa!” fece in tempo
ad esultare.

L’eco di passi precipitosi
risuonò alle loro spalle.

L’agente della compagnia si
girò per primo, mentre la voce del poliziotto grasso intimava:

– Dove lo stai portando?
Guarda che io ho già fatto il mio rapporto.

L’uomo dell’Air France si
fermò all’istante, bloccando con dolcezza ma fermamente Yao al braccio.

– Mi dispiace, ma non posso
rischiare il mio posto per te!

Si guardarono per un attimo
negli occhi. L’uomo assunse uno sguardo distante e un atteggiamento distaccato
e professionale.

– Arrivederci! – la sua
stretta di mano era calorosa.

Yao tornò a firmare la sua
deposizione al posto di polizia. Non provava più niente. Quando il dolore
dell’anima raggiunge il suo acme, il cuore si tetanizza e non si percepisce più
niente. Lo lasciarono andare dopo una ramanzina che scivolò sulla corteccia
della sua indifferenza. Prese la chitarra, andò a richiedere la sua valigia.

– È  stata già imbarcata – fu la risposta.

– Almeno lei potrà godere il
sole dell’Africa! – commentò ironicamente all’impiegato che lo guardò senza
capire.

Si trascinò con il peso
della sua tristezza verso la fermata dell’autobus. All’arrivo del veicolo,
frugò fra le tasche alla ricerca dei rimanenti dieci franchi che l’uomo
generoso gli aveva regalato. Trovò solo il fazzoletto ed un plettro. Rimase per
un istante esitante con il piede sullo scalino dell’autobus.

L’autista brontolò:

– E allora?

Yao cercò ancora il
biglietto, rovistandosi inutilmente fra tutte le tasche che aveva addosso: non
c’era più traccia dei soldi. Ritirò indietro il suo piede. L’autista ingranò
rabbiosamente la marcia e partì. Yao rimase lì con le braccia traballanti,
appoggiandosi sulla sua chitarra.

Si girò per guardare per
terra: niente. Sicuramente aveva perso i soldi duranti il suo tentativo di
convincere i flics. “I poliziotti mi hanno fregato i soldi!” pensò e si mise a
ridere istericamente, scosso da una risata irrefrenabile e liberatoria.

Dopo un po’ smise di ridere
e freddamente, fece il punto della situazione: “Mi vedevo già a casa ed invece
sono ancora qua. Gli unici vestiti che ho sono quelli che indosso, non ho più
un franco in tasca, ma ho ancora quindici giorni d’affitto già pagato della mia
stanza in Rue Barbes e dopo tutto sono ancora vivo. Devo solo trovare il mezzo
per tornare in centro.”

Prese la sua decisione. Si
recò alla fermata dei Taxi, si fece portare in Rue Barbes.

Vide Annie vicino al portone
di casa.

– Ciao, Yao!

– Ciao Annie! Mi puoi
prestare i soldi per il taxi? Sono al verde.

– Certo! – annuì la ragazza
aprendo la sua borsetta.

– Grazie Annie, sei davvero
un’amica. Anche tu lo sai che la vita è dura, ma l’importante è essere vivi.
Sopravviverò nonostante i muri di parole, di leggi, di frontiere e di
pregiudizi che gli uomini continuano ad erigere fra di loro, per rendersi la
vita impossibile. Sopravviverò finché ci sarà gente come te, che sa provare dei
sentimenti e riesce ad andare oltre i confini delle apparenze.

Lei lo guardò sgranando gli
occhi:

– Yao, stai bene?

– Sì! Sto bene nonostante
tutto… ti spiegherò… ora vado a dormire.

Passò dalla portiera a
ritirare le sue chiavi. Lei lo guardò e non chiese niente, disse soltanto:

– Ben tornato a “casa”, Yao!

– Grazie! – rispose
sovrappensiero con un sorriso triste e sconsolato.

Stava pensando alle facce
delle ragazze del convitto quando l’avrebbero rivisto…

 

 

Note

 

1 Taverne.

2 Specie di
osterie.

3 Miscela
di birra e gassosa.

4 Luce.

5
Poliziotti.

 

 

 


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