Una vita fra parentesi
Il treno proveniente da
Marsiglia era fermo, ormai da venti minuti alla stazione di Ventimiglia e
Mohamed Bilouli pregava il suo Dio affinché non dovesse rispondere ad alcun
doganiere italiano. I confini fra la Francia e l’Italia, in base agli accordi
di Schengen, erano stati aboliti: rimanevano solo sporadici controlli,
finalizzati ad impedire il libero passaggio di clandestini. Clandestini! Perché
cittadini extraeuropei
perché stranieri!
Pur rispettando la scelta
degli abitanti di una parte geografica ben delimitata del pianeta di
autodefinirsi uguali, nei diritti e nei valori, Mohamed si chiedeva perché quel
diritto non potesse applicarsi anche a lui. Dopo tutto anche lui era un essere
umano, fatto di anima e corpo. Ed era nato anche lui sul pianeta Terra, anche
se a Sud dell’Europa, in quello che viene definito dagli europei “il Continente
nero”. Come se poi, loro, fossero tutti bianchi! Forse era perché lui parlava
una lingua diversa? Non poteva essere. Perché, altrimenti, solo la Germania e
l’Austria avrebbero potuto unirsi, visto che sono gli unici due paesi della
Comunità Europea in cui si parla la stessa lingua.
Le porte del treno si
richiusero e, dopo qualche secondo dal fischio, il treno ripartì.
Mohamed era felice di essere
entrato in Italia, di essersi impossessato di un diritto riservato ai soli
comunitari: quello di attraversare i confini di una parte dell’Europa senza
visti né permessi. Era illegale? Per il loro giudizio, sì; per il suo, no.
Eppure, secondo la legge della natura, poteva essere illegale solo dal punto di
vista temporale ma non spaziale: tempo fa, anni addietro, la stessa azione
sarebbe stata illegale anche per i cittadini della Comunità Europea. La storia
racconta di italiani fermati in un treno, all’inizio del nostro secolo, mentre
cercavano di introdursi, allora “illegalmente”, in Francia, in cerca di una
vita migliore e di un lavoro più remunerato. Ma la storia forse è fatta per
essere dimenticata. Per molti il passato non conta. È meglio il presente. E ci
si auspica che il futuro sia decisamente migliore.
Mohamed si alzò in piedi e
si diresse verso il corridoio. Abbassò il finestrino. Fuori l’aria era fresca,
pura: per lui era l’aria di una nuova vita. Stava andando in Italia perché lì,
da poco, era stata emanata una sanatoria che permetteva ai clandestini di
mettersi in regola coi permessi di soggiorno: bastava dimostrare di essere
stati presenti sul territorio italiano prima del 31 Marzo 1998.
Egli non ci sarebbe
rientrato. L’Italia, infatti, non l’aveva mai vista prima: tutto quel che
sapeva era che la distanza che la separava dal suo paese, l’Algeria, era
inferiore alla distanza che la separava dalla Svezia. D’altronde,
geografica-mente parlando, il suo paese si trovava più vicino all’Italia di
quando lo fosse rispetto all’Egitto. Ma gli egiziani lo chiamavano fratello, e
gli italiani lo avrebbero chiamato extracomunitario.
Una volta a Roma sarebbe
stato infatti un “fratello” egiziano che, in cambio di diecimila franchi, tre
milioni di lire circa “giacché i soldi non conoscono parentele!”, gli avrebbe
procurato i documenti d’appoggio, naturalmente fatti ad uopo, necessari per
effettuare la regolarizzazione del permesso di soggiorno. Così, avrebbe potuto
avere, almeno in parte, gli stessi diritti dei cittadini comunitari. Dopotutto
si trattava di adeguarsi, aggirandola, ad una legge che egli riteneva ingiusta
nei suoi confronti!
Una voce, proveniente dal
compartimento adiacente al suo, lo scosse dai suoi pensieri. Era un uomo moro,
di mezza età, che gli chiedeva qualcosa di incomprensibile.
– Je ne comprends pas
l’Italien – (non capisco l’italiano), rispose in francese.
Per tutta risposta il
signore si alzò e chiuse bruscamente il finestrino brontolando:
– Minchia, che camorria! Un
se ne può chiù! Chista è un’invazzione! Itivinni u paisi vosso!
Mohamed lo guardò
sbalordito. Ed il signore riprese.
– Che mi talii? Un mi
scanti? Su italiano iyo! Vò sapiri cumme mi chiamo? Mi chiamo Cassarà Carmelo.
Vammi a denunzià, si buoi! U vò hanno raggiune ad iddu e nun a mia, che su
italiano? Mi darebbero pure del razzista!
Cassarà! – pensò Mohamed. –
Chissà se quel signore, tanto fiero della sua italianità sapeva di avere un
cognome arabo?
– Excusez-moi! – (scusatemi)
disse e riprese il proprio posto, incurante dall’accaduto.
Ormai era in Italia, un
paese dove anche certi antichi arabi si erano trasformati in patriottissimi
italiani. C’era quindi da sperare!
Dopo pochi minuti si
addormentò, non offendendosi dell’atteggiamento dei suoi compagni di viaggio
che, cautelativamente, si erano stretti contro il petto le loro borse, dandogli
del ladro: a lui che, esattamente come avevano fatto loro, aveva pagato il
biglietto del treno e che era consapevole che sarebbe stato derubato di tre
milioni di lire da uno pseudo fratello egiziano. Derubato di denaro guadagnato
con il sudore della fronte e risparmiato, centesimo dopo centesimo, che lui
avrebbe dato per essere accolto come abitante, in regola, nella parte
occidentale dell’Europa: dentro le mura di uno dei pochi feudi benestanti che
si ergono in mezzo alla immensa miseria dello sconfinato ed indesiderato resto
del globo, chiamato Terzo Mondo.
Era meglio addormentarsi
subito e sognare di far parte dello stesso mondo di tutti e non del terzo
classificato. Perché, poi, terzo? In base a quale graduatoria? Questo non
l’aveva capito, né tanto meno gli interessava farlo: tanto erano solo parole.
Ma parole gravide di tanti significati. Interpretate, come sempre, in maniera
contrastante a seconda dei diversi punti di vista da cui vengono guardate.
Arrivò a Roma senza nessun
intoppo: la città si era svegliata da poco.
Alla prima edicola comprò
una scheda telefonica e da una cabina pubblica digitò il numero del telefonino
di Idriss, un suo connazionale, che lo avrebbe sicuramente ospitato.
– Bronto? – rispose
dall’altra parte Idriss, con la voce roca di chi veniva improvvisamente
strappato dal mondo del sonno alla vita reale.
– Allo! Idriss?
– Shkun? (chi è? In
Magrebino).
Dall’ “Allo!”, detto alla
francese, e dalla pronuncia perfetta del suo nome, l’altro aveva riconosciuto
che si trattava di un connazionale.
– Sono io! Mohamed! Ti ho
svegliato?
– Ma che ore sono?
– Sono le sei e
quarantacinque minuti. Sono appena sceso dal treno alla stazione Termini.
Scusami!
Da quando aveva lasciato la
Francia non aveva fatto altro che scusarsi: sarebbe mai giunto il giorno in cui
sarebbero stati gli altri a chiedergli scusa?
– Non fa niente! Non potevi
sapere che noi, qui lavoriamo di notte e riposiamo di giorno!
Nella mente Mohamed si
domandò che lavoro facesse mai.
– Come devo fare per venire
da te?
– Aspettami alla stazione
Termini ti vengo a prendere io. Fra un’ora!
– Va bene. Grazie. A più
tardi
– Aspetta! Senti! La
stazione è enorme ed è piena di gente
sarà difficile trovarti. Aspettami
davanti al binario numero uno
è più facile!
Si salutarono.
Doveva passare un’ora e
Mohamed decise di andare al bar a prendersi un caffè. Si mise ad osservare la
gente. Nel locale c’era un donna con un bambino. Egli si stupì poiché il
piccolo faceva i capricci, rifiutava di mangiare la brioche: la mamma ricorreva
a tutti gli inganni ma non c’era nulla da fare. In Algeria qualsiasi bambino
avrebbe divorato velocemente quel dolce per avere più tempo per inghiottirne un
altro prima di uscire
Ma spiegare questo al bambino aveva dell’impossibile. Se
si fosse perfino azzardato a sorridergli cercando di persuaderlo di dare retta
alla madre avrebbe corso il rischio di essere denunciato per pedofilia! Era
meglio rinunciare
dopo tutto, erano fatti loro! Una delle primissime cose che
aveva dovuto imparare subito, una volta in Europa, era che bisognava essere
individualisti, come dice un loro proverbio: “Ognuno per sé e Dio per tutti!”
Quell’ora di attesa e di
scoperta degli usi e costumi italiani fuori delle mura domestiche, passò in
fretta. Idriss arrivò. Aveva la barba non fatta e sulla testa un vecchio
cappello di lana. I suoi vestiti sporchi la dicevano lunga sul tipo di lavoro
che avrebbe potuto svolgere: non poteva essere un operaio nelle fabbriche; in
quanto queste di notte sono chiuse, ne tanto meno un bracciante agricolo. Viste
le apparenze esterne, un lavoro notturno avrebbe potuto essere, se legale, lo
scaricatore ai Mercati Generali di frutta e verdura. Altrimenti doveva per
forza essere un lavoro che necessitasse del buio per essere espletato, un
lavoro illecito, svolto nell’ombra, di nascosto. Non fece alcuna domanda in
merito: ognuno per sé e Dio per tutti! L’aveva imparato!
Mohamed aveva con sé una
sola borsa, piccola, dove erano tutti i suoi beni. Pertanto decisero di andare
direttamente dall’egiziano per definire, al più presto, la questione del
permesso di soggiorno: presero l’autobus. Rimasero in silenzio. Era chiaro che
parlare in arabo, in un luogo pubblico, avrebbe potuto suscitare molte
polemiche sugli stranieri e sulla loro presenza in Italia. L’atteggiamento
dell’uomo, prima, sul treno e le voci che correvano tra loro, i connazionali,
gli avevano fatto capire che tra gli argomenti più diffusi e condivisi dagli utenti
dei mezzi pubblici oltre alla critica rivolta all’Amministrazione pubblica ed
ai brontolii sui ritardi nei trasporti, ed in alternativa alle chiacchiere sul
calcio, era la commiserazione della patria diventata ormai un porto di mare,
invasa dagli stranieri, venuti a rubare il lavoro ai loro giovani ed a
delinquere. Gli avevano riferito che frasi della serie: “Non sono razzista, ma
questi stranieri farebbero meglio a starsene a casa loro!”, si potevano udire
tutti i giorni, almeno una volta. E quel che era più strano era che tutti lo
dicevano allo stesso modo, con le stesse parole, come se le avessero studiate a
memoria in qualche manuale scolastico, o fossero parte di un articolo della
Costituzione.
Benché i due non parlassero,
dagli sguardi che rivolgevano loro gli altri passeggeri dell’autobus, a lui,
stanco dal lungo viaggio ed al suo compagno, sciatto e male odorante, Mohamed
considerò che quelli, in fondo, nel più profondo di loro stessi, dicendo quelle
frasi si sentivano superiori. Anche se apparentemente, erano tutti d’accordo
nel criticare un dittatore tedesco che sessant’anni or sono, predicava la
superiorità della razza ariana. È veramente cambiato qualcosa da allora? Forse
si dimenticavano che ogni straniero, nonostante tutto, portava con sé un
briciolo di umanesimo e di tolleranza, in una società post-moderna dove tali
valori erano in via d’estinzione.
L’egiziano si chiamava
Aiman. Gli brillavano gli occhi mentre contava i biglietti da cinquecento
franchi francesi. Presi i soldi, tirò fuori da una ventiquattro ore, degli
attestati in grado di provare l’esistenza di Mohamed Bilouli in Italia prima
del 31 Marzo 1998: un certificato medico, una fattura retrodatata, una lettera
con sopra il nome dell’egiziano ed il suo indirizzo, il cui timbro postale
recava una data rispondente, dove in fondo si poteva leggere (aggiunta
postuma): “A Bilouli Mohamed. Con tante Grazie!”
Sarebbero servite ancora una
fotocopia del Passaporto, tre fotografie e una marca da bollo da incollare al
modulo della richiesta, già compilata da Aiman.
– Questi soldi, i tre
milioni di lire, non servono a me, ma al funzionario della Questura Centrale
che chiuderà un occhio inviando la pratica e facendoti ottenere il Permesso di
Soggiorno – disse Aiman.
“Non ci amano, ma amano i
nostri soldi!” pensò Mohamed.
Due ore più tardi, avevano
fatto tutto. La domanda era presentata. Dopo due mesi, al massimo, Mohamed
avrebbe ottenuto il suo tanto desiderato permesso. Era molto contento e voleva
condivi-dere la sua gioia con qualcuno. Ma con chi? I suoi parenti erano in
Algeria. Lì era in corso una guerriglia fra integralisti e i soldati
sostenitori del regime militare. Le linee telefoniche con il suo villaggio
erano interrotte. Le campagne si stavano svuotando poiché la gente fuggiva
sotto la minaccia di attentati terroristici, dei massacri di gente inerme.
Al posto della popolazione
scappata si insediavano biondi personaggi in doppio petto le cui perforatrici
cercavano nuovi pozzi di gas naturale da sfruttare. Quegli integralisti non
potevano essere forse, dopo tutto, esecutori materiali di uno “sfratto” a
carico degli abitanti civili, a favore delle grosse multinazionali?
Era meglio non pensarci!
Quelle idee erano senz’altro dovute alla stanchezza del viaggio. Voleva
riposarsi! Dormire!
Idriss lo accompagnò al
posto dove alloggiava. Era una casa abbandonata nei pressi del raccordo anulare
di Roma. In quella casa erano accampate all’incirca un centinaio di persone. Ve
ne erano da tutti i continenti! Si sarebbe potuta definire una specie di Nazioni
Unite in quanto erano presenti immigrati dell’Europa dell’Est, dell’Africa,
dell’Asia e dell’America Latina!
Elesse domicilio nel
Padiglione Africano, nel Reparto “Maghreb”, su un materasso di spugna,
originariamente gialla, ora grigiastra. Non importava! Presto sarebbe stato in
regola; si sarebbe cercato un lavoro onesto; avrebbe guadagnato dei soldi e si
sarebbe cercato una sistemazione migliore! Per prima cosa bisognava imparare la
lingua. Ed egli già aveva imparato a dire “grazie”, “buongiorno”, “ciao” e,
cosa più importante di tutto, aveva capito che excusez-moi, in italiano, era
“mi scusi”.
Egli mise in tasca i suoi
oggetti di valore e si sdraiò sul materasso, dove fu immediatamente rapito dal
sonno.
Avrebbe potuto anche non
risvegliarsi fino al mattino del giorno successivo se non fosse stato per quel
flusso di luce che gli veniva proiettato sul volto da una torcia a mano, mentre
una voce gli comandava di alzarsi.
La casa abbandonata era
sottosopra e piena di agenti. Un poliziotto in borghese aveva sequestra-to
alcuni involucri, della carta stagnola, una bilancia di precisione, un
taglierino, del nastro adesivo
Mohamed cercò, invano, il
suo amico Idriss. Non c’era! Egli non capiva! Era frastornato!
Gli agenti lo
sospinsero e lo fecero andare assieme agli altri, che non aveva mai visto in
vita sua: tutti vennero fatti salire su furgoni e condotti al commissariato.
Giunti lì, gli chiesero il
nome. Rispose “Bilouli Mohamed”. Presero le sue impronte digitali, gli
scattarono delle fotografie e poi gli fecero sottoscrivere un foglio, scritto
in italiano.
Al mattino, presto, fu
condotto al carcere circon-dariale di Regina Coeli, sulle rive del Tevere.
Mohamed ignorava ancora il
motivo per cui si trovava in carcere. Non aveva capito nulla di ciò che gli avevano
detto: credeva che fosse perché era stato trovato privo di Permesso di
Soggiorno.
Gli agenti, dopo avergli
offerto un caffè e latte ed una brioche confezionata, lo scortarono attraverso
un lungo corridoio interrotto da parecchie porte di ferro, fino alla sala dei
Magistrati del piano terra. Sarebbe stato interrogato da un Magistrato. Così
gli avevano detto alcuni connazionali in carcere. Ci sarebbe stato un
interprete ed un avvocato.
Lo fecero attendere in una
saletta assieme ad un altro detenuto, un nigeriano. Dopo meno di mezz’ora sentì
chiamare il suo nome da un agente della guardia penitenziaria: questi lo
accompagnò davanti ad un Giudice delle Indagini Preliminari.
Era un uomo magro, alto, con
i capelli brizzolati, molto nervoso. Appena vide la guardia gridò:
– Portatemeli uno dopo
l’altro! Ne ho ventinove da interrogare oggi. Ho molte cose da fare e non ho
intenzione di passare la notte qui dentro! Se non ce la fa, me lo dica. O
chieda al direttore di mandarle un qualche supporto.
Benché non capisse nulla,
Mohamed si rese conto che il Giudice aveva poi nominato un avvocato d’Ufficio,
che si trovava già in Sala.
Poi il Magistrato, disse
all’interprete:
– Senta, ammonisca
l’imputato che deve dire la verità per quanto riguarda le sue generalità altrimenti
commette reato.
Mohamed giurò di dire la
verità.
– Come ti chiami?
– Mohamed Bilouli. Con la
ou. Non Biluli, come hanno scritto
– E perché hai detto agli
agenti che ti chiamavi Biluli, anziché Bilouli?
– Loro hanno scritto così!
L’interprete, da parte sua,
spiegò al Magistrato che la ou in francese corrispondeva al suono u in
italiano; che forse gli agenti si erano sbagliati nel trascrivere il nome.
Il Giudice si convinse,
decidendo di non accusarlo anche di false generalità.
Poi arrivarono le altre
domande di rito: indirizzo, stato civile, titolo di studio e se aveva riportato
condanne in Italia o all’estero.
Seguì la lettura del capo di
accusa:
– Imputato del reato di cui
agli articoli 110 del Codice penale e 73 D.P.R. 309/90, per aver, in concorso
con altri, illegalmente detenuto, a fine di spaccio, sostanza stupefacente del
tipo eroina, per una quantità ecc. – il tutto seguito da un: – Che cosa ha da
dire in merito ai fatti contestati?
Mohamed si meravigliò.
Sostanza stupefacente? Lui? Protestò:
– Signor Giudice, non è
vero! Io non c’entro! Mi trovavo lì soltanto dal giorno prima. La droga non
l’ho mai né vista né toccata! Sono innocente.
– Tanto tutti dicono la
stessa cosa! – rispose il Giudice.
E fece scrivere dal
cancelliere:
– Nego ogni addebito. Mi
trovavo lì da poco. Anzi
dal giorno prima. Sono estraneo ai fatti. Letto,
confermato e sottoscritto.
Gli chiesero di firmare: lo
fece.
L’avvocato d’Ufficio disse:
– Sulla convalida
dell’arresto, nulla da eccepire. Per quanto riguarda la misura cautelare,
chiedo un misura meno afflittiva, quale possa essere: gli arresti domiciliari,
o l’obbligo della firma dalla Polizia giudiziaria.
– Ma dove, avvocato? –
chiese il giudice – in una casa abbandonata?!
Ma ancora con queste cose?!
L’avvocato, senza insistere
troppo, disse:
– Mi rimetto al Giudice.
Imputato, avvocato ed
interprete uscirono dalla stanza: il Giudice doveva deliberare in Camera di
Consiglio.
Venti minuti più tardi il
Giudice per le Indagini Preliminari era pronto a dare atto, sbrigativa-mente,
che aveva convalidato l’arresto ed applica-to la misura cautelare in carcere
nei confronti del “sedicente Bilouli Mohamed, per i reati a lui ascritti, come
in epigrafe”. Poche parole, quasi di routine, che avrebbero avuto notevoli
ripercussioni sulla vita ed i progetti del “sedi-cente” in questione.
Lo fecero firmare. Questa
volta l’interprete non aveva nemmeno tradotto: gliene passavano tanti, ogni
giorno e tale misura era diventata di consue-tudine. E poi era molto impegnato
ad ossequiare il giudice, sperando di avere come parcella il mas-simo delle
vacanze previste per un giorno di lavoro.
L’Avvocato dava intanto il
proprio biglietto da visita a Mohamed chiedendogli, in un francese
maccheronico, di nominarlo difensore di fiducia, al Modello 12 del Carcere ed
informandosi se aveva parenti o amici in grado di pagarlo, perché il processo
si sarebbe fatto e c’erano delle spese da sostenere!
– Ed al processo cosa
succederà? – chiese Mohamed
– Faremo un patteggiamento,
subordinato alla sospensione condizionale. E tu uscirai dal carcere. Lo faremo
il giorno dell’Udienza in Tribunale. In breve, tu riconosci di essere colpevole
e loro ti rimettono in libertà.
– Ma io sono innocente!
– Che vuoi fare, è così! Tu
vuoi uscire dal carcere, no?
– Ed il permesso di soggiorno?
– Ma tu vuoi troppe cose!
Una volta condannato non potrai più avere il permesso di soggiorno. Ma che te
ne importa? Comunque non ci puoi fare niente: il giudice ha convalidato il tuo
arresto. Per la legge tu non sei innocente! Ne parliamo dopo. Tu nominami! Così
potrò venirti a trovare e farti uscire dal carcere. Ciao.
Per una dialettica da due
soldi e per essersi trovato nel luogo e nel momento sbagliati, Mohamed doveva
così rinunciare al sogno di costruirsi una nuova vita. Di avere un’esistenza
all’ombra della legalità, onesta. Ora sarebbe rimasto clandestino e, di
conseguenza, sarebbe stato rinviato di nuovo, non più in Francia, ma in
Algeria. Aveva così in una fuggevole parentesi di incomprensione, perso
contemporaneamente il suo sogno, tre milioni di lire e la possibilità di
continuare a vivere in Francia, pur se illegalmente, in attesa di una possibile
sanatoria francese.
Era tornato di nuovo al
punto di partenza. E questa volta senza alcuna prospettiva. Mohamed si
chiedeva: “Dio mio, Perché?”