Una favola a staffettaTC
"Una favola a staffetta"

 

Rakan, detto “il moro”,
corpo statuario e occhi da gabbiano, visse nell’ambito di un quadro indubbio di
menomazione mentale, assorto di un’idiozia sapiente, frullava su e giù nei mari
come un pesce vela e quando faceva ritorno in porto, rantolava sulle banchine
come fosse un agonizzante e si lasciava andare a racconti che avevano
dell’incredibile: Sinbad che inseguiva velieri di pirati nel Mare di Giava,
montagne che sputavano lava, e cicloni che divoravano isole intere in meno d’un
batter d’occhio, perfino bambini che mangiavano tutto senza fare capricci.
Egli, essendo un lupo di mare, sapeva quando si stava annunciando la bufera e
come si poteva navigare in mezzo alla burrasca senza perdere l’orientamento, ma
sapeva, soprattutto, tante fiabe e favole, anche perché contando nove porte
dalla sua abitazione – esclusa la porta della moschea – si arrivava a casa di
Shehrezad; più avanti, a distanza di trentatrè vesti, proprio nel bosco
sottostante la collina dei pipistrelli, abitava uno straniero di nome Pedros
Han, quando faceva l’immigrato in Armenia lo chiamavano Peter Pan. Una volta
l’hanno visto volare e qualcuno giurò di averlo visto piangere come i cigni
nelle fredde notti di inverno.

“Di dove sei?” gli aveva
chiesto Rakan mentre facevano la solita passeggiata al margine della foresta
assieme a Rondi e Pipsi lo strabico; sentì la risposta venire dai fiori e dalle
farfalle:

“La sua terra è un sogno
seminato in qualche parte del cosmo.”

Da quel giorno non gli
rivolse più domande imbarazzanti, dando ascolto al consiglio profetico di
Shehrezad:

“Se vorrai vivere la
bellezza del mondo, dovrai guardare dentro di te, ponendoti al di sopra della
nascita e della morte, la tua felicità è una rosa che ti attende in un’isola
lontana.”

Dopo un anno, nel settimo
mese lunare, Rakan sopravvisse ad una tempesta naufragando sulla costa di Rodi,
dove venne trovato, svenuto su degli scogli, da un pescatore povero che viveva
con la moglie e la figlia unica in una casetta di creta ammantata di fiori
selvatici.

“Sapevamo in anticipo del
tuo naufragio,” disse il pescatore accarezzando la sua barba candida.

“Sei arrivato in tempo.
Adesso possiamo partire tranquilli,” aggiunse sua moglie.

“Allora è lei?!” strillò
Rakan stringendo il cuore con entrambe le mani. Quindi Maria gli offrì il
calice con dentro il liquore scarlatto.

Quando il piccione
viaggiatore giunse al paese con la notizia, il sole spuntò dietro le nuvole
grigie e la fattucchiera offrì ai bambini zollette di zucchero.

Mamma Amina, come tutti i
giorni, si alzava all’alba, pregava verso La Mecca, poi si poneva ad impastare
la farina e infine prendeva le uova dal pollaio e usciva dalla casa per
barattarle con delle sardine, detersivo per panni e fiammiferi nella drogheria
dell’ebreo.

In quel giorno, mentre
affrettava i passi sulla strada sterrata vicino alla fattoria delle oche verdi,
le venne incontro il mugnaio, indossata una maschera di lupo in segno
scaramantico, che le disse allegro:

“Congratulazioni, mia cara
signora, Rakan ha sposato una ragazza greca … beato lui, dicono che è molto
bella.”

Mamma Amina, pensando subito
all’inferno e agli infedeli che finivano in pasto ad enormi calderoni pieni di
catrame bollente, trasalì e perse i sensi. Al suo risveglio, dopo che il
mugnaio le fece annusare un flacone che conteneva l’essenza di verbena e pino
marittimo, gridò con una smorfia battendosi le mani sul petto:

“Oh Dio mio … l’hanno
battezzato!”

Fu il giorno in cui si
appiccò il fuoco ai giacimenti di petrolio. Donne che ricamavano davanti alle
porte delle case con visi rattrappiti dalla brezza insidiosa della sera,
rimasero allibite nel vedere il canadair* scaricare cascate
d’acqua sulle lingue di fuoco che si innalzavano fino a toccare le nuvole;
cavalieri, fanti, e arcieri con tricicli invasero la piazza. Un guerriero
stretto in una pesante armatura, andato in malora, in un ultimo spasmo si
irrigidì prima di riprendere la via del cielo. Una ragazza che si trovava sul
posto disse senza scomporsi:

“È il furore di Dio.”

Nel frattempo, nel cielo,
stormi di rondini e pipistrelli con gridi sibillini e manovre acrobatiche
trasmettevano messaggi codificati a Pedros Han, il quale, dalla postazione
sulla cima del faro, coordinava l’attacco messo a punto con persone che si
erano prese la briga di tutelare l’ambiente.

“La maturità della
sofferenza scocca la scintilla,” disse Shehrezad sfiorando la mano sul viso
solcato da una fitta trama di rughe, mentre ragazze con dei gonnelloni a fiori
suonavano il flauto ascoltando il rumore del vento.

“Vi racconterò la storia di
un paese che d’estate, nelle pianure, i colori dei fiori sono così intensi e
puri da inebriare gli occhi e l’anima,” soggiunse annunciando la sua ennesima
favola.

D’altronde, l’assessore al
turismo, vestito da esploratore coloniale, parlò alla vigilia della catastrofe
– riferendosi a Shehrezad – di una bellezza prorompente che rifletteva la
seduzione del diavolo, rammentando con amarezza i giorni in cui faceva capo ai
feretri di operai seguiti da una decina di dolenti, allorché i contadini si
mettevano sulle ginocchia turbandosi di pensieri morbosi: sognavano di guidare
una ruspa, di vedere La vache qui rit** in faccia.

“Ebbene,” s’infuriava lui
allungando il collo dalla tribuna, “cosa volete ancora? o forse siete
inconsapevoli della prosperità costruita con tenacia e altrettanti dolori?
Abbiamo appena inaugurato un mattatoio rustico, una fabbrica di ganci da
macellaio, cooperative agricole che producono fagioli texani, mango messicani e
tulipani olandesi. Con il canale abbiamo unito il fiume al mare, in modo che,
tranne i turisti, anche i salmoni vengano a covare le uova da noi. Allora,
ditemi voi cosa si può fare più di così?! Si sa che a gomitate si arriva prima,
pensate che per realizzare certi obbiettivi, noi ci siamo impegnati a usare
calci e pugni!”

Il passare da un’illusione
all’altra non gli permetteva alcun entusiasmo, anche quando – per distrarsi –
assisteva alle scene di piumati ballerini e donne dalle circonferenze
corpulente che si tiravano tra di loro per i capelli nella via che ospitava il
più bel bordello mai visto nel Sahara; nemmeno quando andava assieme al sindaco
per divertirsi nel capannone dove si sgretolavano pezzi massicci di ghiaccio
rimorchiati dalle petroliere che facevano la rotta del Polo Nord. Egli avrebbe
provveduto in modo esaudiente il precipizio, ma come? Contorse le labbra con
una sfumatura di rammarico, poi sedette su una poltroncina molto sciupata che
si trovava sul marciapiede davanti alla porta serrata del barbiere, scrutò il
fiume che serpeggiava sulla sinistra e vi vide navigare relitti di case
trascinati dalla corrente e una barca della protezione civile sfrecciare sul
pelo dell’acqua che sventolava un’enorme bandiera; un rombo assordante lo fece sussultare,
per un po’, il sole rimase oscurato dalle ondate di rondini e pipistrelli.
Dopodiché regnò un silenzio eccitante. C’era poco da sperare, la sua mente
turbinava all’impazzata soltanto al pensiero di ciò che poteva succedere in
futuro, ma il paese era già delizia di predoni e briganti, ricettacolo di
mariuoli di ogni risma e rango; egli stesso gli aveva spianato la strada,
adesso, il profilo della città era illuminato con la luce del benessere che
stava bruciando a poca distanza da lui. All’improvviso sentì lo sforzo
scarseggiare, una freccia si era conficcata nel suo cuore, fu il primo a morire
dissanguato, successivamente, tanti sarebbero finiti al rogo.

Per le rondini fu la seconda
impresa storica: secoli fa, quando Abraha l’etiope mise La Mecca sotto assedio,
le sconfissero con la stessa tecnica, ma questa volta, anziché usare i ceppi
ardenti come munizioni, Pedros Han aveva preparato per loro centinaia di
bottiglie molotov come arma micidiale, che vennero lanciate durante il giorno
per colpire i bersagli con precisione. Naturalmente, un suggerimento del
genere, non poteva passare senza suscitare forte scetticismo, specialmente, da
parte dei pipistrelli: questi, dopo aver perso le piume per uno scherzo fatto
da re Salomone, non avrebbero gradito di perdere anche la pelle! Come sostenuto
dallo stesso Pipsi lo strabico – sventolando un braccio come se volesse
spiccare il volo, nel caso che Shehrezad tentasse di affidargli un compito
diverso dai soliti voli di ricognizione come stabilito nel piano operativo –
facendoci notare che già sarebbe stato un grosso sacrificio effettuare voli
alla piena luce del giorno. La fase più preoccupante durante la loro missione,
era il timore di cadere prigionieri in mano ai corvi che vigilavano sulla
recinzione del campo. C’erano voci quasi confermate di trattamenti speciali nei
loro confronti: di fatto avevano un menù a base di topi e pipistrelli surgelati
e mais cotto a vapore, ma le cose furono meno pericolose del previsto! I corvi,
dinanzi al grande falò che stava erodendo lo stabilimento, fecero una ritirata
troppo scomposta e disordinata.

All’alba del giorno
successivo, qualcuno annunciò l’avvicinamento di una scialuppa di salvataggio
che risaliva il fiume all’altezza della montagna di calcio, sostenendo che
fossero i babilonesi tornati per recuperare la statua della dea Fertile, perché
la siccità aveva ridotto la loro terra a campi aridi infestati di vipere e
scorpioni, dopo che, tre secoli fa, il conduttore del carro solare aveva
fermato la biga a ridosso dell’orizzonte. Un bambino dalla vista di falco,
strillò dalla gioia:

“È Rakan …, è ritornato
Rakan!”

La gente sparsa sulla
pendice della collina, corse ad arrampicarsi su degli alberi e degli spuntoni
di roccia per individuare meglio le due sagome che si trovavano sul bordo della
scialuppa. All’improvviso, un convoglio di berline nere spuntò sulla sponda
opposta del fiume:

“Sono quelli della
compagnia,” disse un ex operaio assumendo un’espressione vendicativa, ma
nessuno gli diede retta.

Tutti sembravano alienati da
una forza misteriosa, perché già da molti anni aspettavano con ansia
l’evolversi degli eventi e desideravano qualcosa di più sorprendente
dell’incendio per soddisfare il loro senso di intuizione. D’altronde,
ascoltando i loro pensieri trasmessi da megafoni allestiti negli angoli delle
strade, si notava, con chiarezza che la maggior parte di loro scommettevano su
Rakan, perché egli sapeva i segreti dei quattro elementi, il criterio di
qualsiasi forma di vuoto e il punto senza spazio, e per giunta, era stato
proprio lui ad inventare i nuovi modi di festeggiare le circoncisioni,
adottando giochi con fuochi artificiali e bancarelle di pop-corn e patate
fritte.

La gente rimase stupefatta,
quando fece esplodere le pareti tenebrose della notte in miriadi di schegge
scintillanti. Tuttavia, Rakan teneva un temperamento più tranquillo degli
altri, non tendeva a rompere le regole e non aveva nemmeno l’intenzione di
vincere i suoi scrupoli. A volte si sentiva piccolo, ma gli avvenimenti
provavano sempre il contrario, infatti, appena sceso dalla scialuppa, affidò
Maria a delle damigelle di corte di Shehrezad e incominciò un inseguimento
spietato contro i cani randagi, come faceva ritualmente, ogni volta che
rincasava.

I contadini, saggi e
prudenti per natura, commentavano la scena perplessi:

“Rakan è una pietra grezza
che aspetta solo di essere modellata!”

Il suo viso conservava
ancora un’acerba finezza di adolescente, come se si trovasse ammutolito dalla
sorpresa e dalla collera trattenuta da tempo indeterminato.

Dopo una corsa abbastanza
animata dietro i cani ormai esausti dalla fatica, si arrestò interdetto alla
vista di migliaia di fusti arrugginiti, sparpagliati su un’area di parecchi
ettari tra carcasse di autocingolati e camion bruciati. In fondo al campo,
sopra una passerella di latta che si estendeva davanti a una baracca ornata di
fiori fatti con carta pesta, era seduta Eva la comunista, un’esule che si era
rifugiata nel reame dopo la caduta del muro di Berlino.

Rakan sentì nell’aria
l’odore di un fuoco spento da poco tempo, e nello stesso tempo, l’eco di
smorfie e suppliche umane che orbitavano mosse dal vento intorno ai tralicci
giganti che poi in un baleno scomparvero d’incanto.

“Come avrai seminato, così
mieterai.”

Dietro il sorriso di Eva
c’era la percezione di una violenza immutabile, provocata da una inesauribile
tendenza a risolvere il caso; ma l’idea di prendere il colpevole con la pistola
fumante in mano traballò, perché se uno stringe un patto con il diavolo, sa a
cosa va incontro, invece quando si tratta di un essere sbalordito dal semplice
fatto di trovarsi nel mondo, allora la prospettiva di inciamparsi in mezzo al
guado è inevitabile!

Eva, dopo una breve
esperienza con Rakan, non era più intenzionata a costruire una fortezza di
commozione che sarebbe stata poi destinata a trasformarsi in una montagna di
ghiaccio. Si racconta che una volta, Rakan avesse fatto l’amore con lei su
lenzuola nere di satin avvolte da nuvole di profumi fragranti; mentre il
fonografo a tromba ripeteva la favola delle tre caravelle e del frutto magico.

Il giorno seguente Rakan
aveva trovato nella tasca della camicia un biglietto che gli ricordava di
comprare il latte, sotto, c’erano i versi di una poesia, ma lui si era
dimenticato di recarsi al supermercato, ora era fermo lì, li scrutava con
tenerezza e non sapeva esattamente come giustificare il suo atteggiamento.
Infine, si ricordò che le parole dell’amore sono fragili, rendendosi conto che
la realtà mai nata, era semplicemente un affresco di disperazione dove si
svincolavano vie e strade del tutto sconosciute.

“Cos’è scritto sul
cartello?” la sua voce assunse una tonalità circospetta e allarmata.

“Cercasi detective,” gli
rispose Eva invitandolo con un cenno ad entrare. Lui, per darsi un contegno,
ridacchiò fra sé, fece un sibilo con la sigaretta in bocca e varcò la
zanzariera appesa all’uscio della porta.

“Sbaglio o sei un tipo che
non sa nuotare?” dalla voce di Eva, che era sdraiata su un sofà di vimini,
trasparì una lieve punta d’ironia. Rakan si trovò ammutolito per la sorpresa,
deglutì per schiarirsi la gola, rimase per un po’ senza proferire una parola,
poi, affermò meravigliandosi:

“Sono un marinaio e so
nuotare molto bene!”

“Ma non in questo mare!” Eva
l’interruppe senza cambiare espressione: viso teso e occhi gelidi, e aggiunse:

“Così vuoi cambiare
mestiere?”

“Ora tu sei impertinente.”

“Lo ero anche prima. Vuoi
diventare un detective che va in giro portando al guinzaglio un cane? Allora
ricordati, prima di arrestare qualcuno devi leggergli i suoi diritti.”

Tanto l’effetto della risata
scaturita da Rakan fu superbo, che Eva apparve come se stesse per svenire, ma
all’ultimo minuto riuscì a controllarsi, si alzò di scatto e preparò due tazze
di tè alla menta e le mise sul tavolo con una grossa fetta di torta di cipolle
che piaceva molto a Rakan.

Eva sapeva che il piano
poteva fallire, ma la sua preveggenza indicava con fermezza la strada giusta:
Rakan doveva trovare il frutto magico nella terra dove avrebbero ormeggiato le
tre caravelle. La meta, in apparenza, era come un groviglio che da lontano
poteva apparire di un verde compatto, invece, man mano che ci si avvicinava
sbucavano muraglie di siepi e sentieri tortuosi.

Mentre i due si scambiavano
baci telematici, un lampo vermiglio solcò l’aria, un uccello del paradiso
atterrò sul davanzale della finestra e annunciò l’arrivo delle tre caravelle.
Rakan fu assalito da figure scure, sentì nel cervello un suono simile al
gorgoglio di un torrente, osservò Eva stonato, mentre strappava la pergamena
dal becco dell’uccello e poi le si accostò per leggere il testo: c’era un
diagramma che dimostrava come la compagnia riteneva fossero andate le cose , e
ancora dodici versi di poesia parlavano di tenebre che sarebbero discese dal
cielo lasciandosi dietro una scia di lampi e tuoni e infine il silenzio di Dio.

Per convincere Rakan a
salire sul bordo della mongolfiera, fu necessario l’intervento di Shehrezad e
Pedros Han. Ma soprattutto il contributo di Eva che mise in evidenza la sua
sensualità, sfilando nuda sul prato tra le chiazze di greggio.

“Non conosco questa terra,”
disse Rakan con voce suadente.

“Allora vai e portaci il
frutto magico,” replicò la folla.

S’accorse che anche Maria
era fra loro: le scorse lampi di luce negli occhi.

“Descrivetemelo!” chiese con
ardore.

“È rosso come il fuoco,
fragrante come il timo montano, delizioso come i gelsi e gli albicocchi.”

‘Sarebbe un errore tentare
di essere ciò che non sei,’ pensò preoccupato e chiese un’altra volta:

“Siete sicuri che non si
tratti di mele?”

Un gemito raggiante si
scontrò con l’aria aumentando la sua esasperazione:

“Nooo …”

Guardò le stelle che
palpitavano dietro colonne di fumo nero.

“Portaci anche la ricetta,”
erano le ultime parole che aveva sentito mentre la terra si allontanava sotto i
suoi piedi.

Rakan, seduto sul bordo della
navicella, trascorse sei giorni e sette notti parlando ai delfini e recitando
preghiere arcaiche con voce tremante, prima che la mongolfiera atterrasse alle
pendici del Vesuvio.

Nella luce rosea e grigia
della sera, vide una colonna di uomini che marciavano verso nord, scortati da
soldati in tuta mimetica e con i visi anneriti con la pece. Dai loro bisbigli
che echeggiavano nell’aria mescolati con la polvere giallastra sollevatasi a
furia di calpestare il terreno, aveva individuato almeno otto idiomi, fra gli
altri: il cinese, l’albanese, lo swahili, l’arabo e perfino l’urdu.

Dopo un’attesa di mezz’ora,
lo presero in consegna tre ragazzi e lo portarono via in un’auto decapottabile.
Egli, sopraffatto dalla sorpresa e dalla stanchezza, si rassegnò a un dolce
sonno.

D’un tratto si trovò scalzo,
correva fra le spire di fumo grigio che si levava dalle rovine ancora ardenti,
e un fascio di luce solcava il buio della notte. Rakan ebbe l’impressione di
volare nel fondovalle e una dolorosa intuizione di un freddo che insidiava i
suoi sentimenti.

“Ecco il macigno …, lassù …,
devi portarlo …, verso la cima …, tutti i giorni … fino alla morte … la morteee
…”

La voce orribile svanì nel
nulla: ‘una visione gioiosa’ commentò dentro di sé, ma era talmente inferocito
che scattò un ‘nooo…’ agghiacciante e aprì gli occhi impaurito. Trovò davanti a
sé un uomo dai capelli color  stoppa,
pettinati in modo da nascondere l’incipiente calvizie: aveva occhietti
sfuggenti che esprimevano avidità e malizia. Gli si rivolse con un cenno
spavaldo ordinandogli di alzarsi. Rakan lo seguì in silenzio.

“Ecco il tuo alloggio,” gli
disse l’uomo indicandogli un anfratto tramutato in camera con cucina, e
proseguì come in sogno:

“Mille lire a cassetta,
quarantacinque cassette al giorno.” Gli mancò poco per aggiungere: “Fino
all’eternità.”

Dopo la scomparsa dell’uomo,
Rakan aprì la finestra e batté le palpebre stupito. Era la prima volta che
contemplava un campo composto da solo due colori: rosso e verde.

“Ehi … come si chiama questo
frutto?” chiese a un bracciante del Burkina Faso che passava di lì piegato
sotto il peso di una cesta grossa.

“Pomodoro, imbecille, perché
non sei andato a San Tammaro? Ti avrebbero pagato 1100 lire a cassetta.

Al termine della terza
stagione, Rakan fece ritorno a casa nascosto nella stiva di un mercantile
portoghese. Non si sa con certezza se visse felice e contento, ma la gente del
reame, da quel giorno, bada a non far appassire il soffritto più del previsto e
a unire il mazzetto di basilico e lo spicchio d’aglio quando i pomodori
cominciano a disfarsi: proprio come è descritto nella ricetta che Rakan aveva
spedito a Shehrezad – assieme ai semi del frutto magico – mediante un alto
dirigente della FAO.

 

* Aereo
antincendio.

** Tipo di formaggio francese.

 

 


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