Un giorno da stella cadente

 

– Alì. Alì svegliati. Alì…

Era la voce di Parvin, la
ragazzina più graziosa del quartiere. Io ero sdraiato sull’erba, in cima alla
collinetta nel parco, con gli occhi chiusi verso il cielo, prendevo il sole ed
un po’ di fiato. Mehdi stava spingendo, riportando su, verso di noi, il
copertone di una ruota da camion. Era ormai a pochi passi quando aprii gli
occhi e vidi Parvin che mi eclissava il sole come una bellissima luna mentre i
suoi  lunghi capelli venivano
accarezzati da un soffio di vento; lì, in piedi, mi tendeva la mano aiutandomi
ad alzarmi. Toccava a me ora acciambellarmi dentro il copertone e farmi
spingere giù per la collinetta del parco. Parco si fa per dire; era diviso
dalla strada trafficata da un semplice muretto di venti centimetri circa ed era
l’unico pezzetto di spazio verde nel raggio di cinque chilometri, e fortuna che
c’era un santuario lì altrimenti, avrebbero spianato la collinetta per
costruire le case pure lì. Mi alzai, e sedetti, sistemandomi dentro il
copertone con le ginocchia quasi in bocca e le braccia tese, impugnandone il
bordo interno.

– Spingetemi forte, forteee…

Non avevo ancora finito di
dirlo che cominciai a vedere il mondo girarmi intorno, ma non come quando ti
gira la testa che tutto gira orizzontalmente. Gira-va tutto verticalmente.
Vedevo il cielo, la strada in fondo alla collinetta, l’erba sul suolo, Parvin
in cima che urlava saltellando e di nuovo il cielo. A tutta velocità arrivai in
fondo alla collinetta vicino al ciglio della strada. Sentivo la voce di Parvin
che gridava – ALZATI… – e quelle urla soffocarsi sempre di più nel rumore del
viavai delle automobili a tutto gas nella strada a cui andavo incontro. Tentai
di buttarmi sulla sinistra, il copertone cadde lateralmente con me dentro e
scivolò sull’ultimo pezzetto d’erba prima del muretto, poi lo colpì
violentemente causandomi una violenta autoginocchiata in bocca e quindi si
raddrizzò come niente fosse continuando la sua corsa lungo il muretto, prese in
pieno una pietra e saltò dall’altra parte, continuando imperturbato la sua
corsa come un’auto fatta di una ruota sola, con un solo passeggero al suo
interno, e cioè io, e si esibì davanti alle macchine che arrivavano nel senso opposto
a tutta velocità.

In quel preciso istante,
mentre tutte le auto, dotate di quattro ruote e un clacson, mi strombazzavano,
vidi sulla mia destra il professore di corano e religione, seduto al posto di
guida della sua macchina, avvicinarsi sempre di più. Sembrava che non mi
vedesse proprio. La ruota continuò la sua corsa dirigendosi verso il lato
destro della strada e tagliandogli la strada.

Sembrava che ormai ce
l’avessi fatta, ma lo spigolo destro della macchina del professore mi diede un
colpo tale che la ruota, invece di cadere o continuare la sua corsa, restò
diritta in piedi e comincio a girare su sé stessa come una trottola. Ora sì che
mi girava la testa orizzontalmente, mi sembrava di fare la danza dei dervisci.
A ogni giro vedevo arrivare sempre più vicino un camion con le ruote dotate
dello stesso tipo di copertone nel quale mi trovavo. Sembrava un mille piedi
che correva a recuperare una zampetta persa. Solo che il camion non si fermò
per fare lo stesso e colpì violentemente il copertone con me ancora dentro
facendoci volare…

– Alì. Alì svegliati. Alì…
ALZATI.

– Ah. Meno male, era solo un
sogno.

– Vorrai dire un incubo.

– Sì, sì – mi strofinai gli
occhi e mi sedetti sul bordo del letto.

– Cosa hai sognato di così
brutto? Hai tutta la fronte bagnata di sudore. Ma guarda, hai bagnato anche il
cuscino – e prese il mio cuscino e lo posò sul davanzale della finestra al
sole.

– Maa.

– Che c’è?

– I sogni sono veri, cioè si
possono avverare?

– Dipende.

– Da cosa?

– Da quello che hai mangiato
prima di andare a dormire – e rise.

– Cosa c’entra?

– I sogni che sono veramente
tali – mi guardò sorridendo – si avverano, mentre, se mangi tanto e vai subito
a dormire – e mi pizzicò la guancia sinistra – capita che si facciano poi dei
brutti sogni che non sono veri e propri sogni.

– Ma il mio sogno non era
poi così brutto-brutto.

– Se hai detto che era un
incubo.

– Non l’ho detto io, l’hai
detto tu.

– Allora cos’era? – si
sedette accanto a me e mi accarezzò i capelli.

– Da un lato era bellissimo.
C’era Parvin nel sogno.

– Ah. Ecco.

– Era sulla collinetta del
parco con noi. Mi aiutava ad alzarmi…

– Chi? Parvin!?

– Sì. Era bellissima. Lì, in
piedi.

– Va be’. Mi sa che avevi
mangiato veramente tanto, ora basta va’ a lavarti la faccia – e si alzò per andarsene.

– Maa.

– Che c’è ancora?

– Come bisogna fare perché
un sogno si realizzi? – e la invitai con le mani a sedersi accanto a me.

– Io da bambina – mi spiegò
– quando facevo dei bei sogni li scrivevo tutti e poi d’estate quando si andava
al mare… Hai presente la casa del vecchio Amir di fronte al fiume? – feci sì
con la testa. – Lì di fronte alla sua casa c’è un enorme masso, ti ricordi, no?
– feci un altro cenno con la testa chiedendomi cosa c’entrasse. – Bene, io mi
mettevo lì in piedi su quell’enorme masso e leggevo ad alta voce il mio sogno
al fiume e poi con il foglio costruivo una barchetta e la mettevo nel fiume.
Tutti i sogni che raggiungevano così il mare si realizzavano.

– E perché lo leggevi ad
alta voce?

– Perché così se la
barchetta dei sogni non arrivava fino al mare ci pensava il fiume a
raccontarglieli.

– Se il fiume può raccontare
il sogno al mare allora perché facevi la barchetta?

– Perché il fiume è poco
affidabile, per far vedere che esiste fa un gran chiasso e così magari non ti
sente, o non ti ascolta, perché è stufo di fare sempre la stessa strada e
vedere le stesse cose e pensa di cambiare il percorso; ma sa bene di essere
troppo affezionato alla sua strada e perciò dorme, oppure succede che ha tanti
di quei sogni da raccontare al mare che si dimentica del tuo. Per essere quasi
sicuri che il sogno arrivi al mare devi scriverlo e farci la barchetta. Hai
capito?

– Sì. Ma io non voglio che
si realizzi tutto il sogno. Solo la prima parte.

– Allora scrivigli solo la
parte che vuoi, ma ricordati di leggerlo ad alta voce al fiume che spesso in
questa stagione è magro, pigro e dorme. Comunque adesso basta, sbrigati che
devi ancora prepararti la borsa. Hai già salutato il tuo professore?

– Sì, stamattina.

– E Parvin? Le hai già detto
che vai via per una settimana?

– No. Non ce l’ho fatta a
dire che…

– Devi dirglielo, se no ti
aspetta tutto il pomeriggio e si preoccupa.

– Sì. Pensavo di dirglielo
prima di partire.

– Comunque sbrigati sono già
le due. Tuo padre passa a prenderti per le tre.

Di corsa andai a lavarmi la
faccia e scrissi la prima parte del sogno, fino all’immagine di Parvin che
urlava e saltellava per incitarmi, piegai il foglio e me lo misi in tasca.

– Vado a salutare Parvin –
urlai, aprendo la porta di casa.

– E la tua borsa, quando la
prepari?

– La farò quando torno.

– Ho capito.

– Lo giuro – dissi chiudendo
la porta.

– Ricordati solo che tuo
padre verrà a prenderti per le tre – la sentii urlare in sincronia con il
rumore della porta che si chiudeva.

Attraversai la via correndo
fino al portone della casa di Parvin. Mi alzai sulla punta dei piedi e suonai
al suo citofono. Aspettai un po’ e suonai di nuovo.

– Chi è? – era la voce della
madre.

– Buon giorni signora sono
Alì. Sono venuto a salutare Parvin perché fra un ora…

– Sali! – e mi aprì il
portone.

Attraversai il cortile di
corsa guardando alle finestre del secondo piano dove ero diretto e vidi la
tenda muoversi.

Salii i due piani di corsa
fino all’ingresso, bussai alla porta, e comparve la madre di Parvin. Si vedeva
benissimo, dai suoi occhi e dalla sua faccia gonfia, che la mia visita l’aveva
distolta dal riposo pomeridiano.

– Buon giorno signora. Sono
venuto a salutare Par-vin perché fra un’ora…

– Parvin è in soggiorno.

Entrai in casa, mi tolsi le
scarpe e lei chiuse la porta facendola sbattere. Feci la faccia da innocente
come chi è stato indotto dalle circostanze a commettere un reato che altrimenti
non avrebbe mai commesso e dissi:

– Grazie. Mi dispiace… Se
avessi saputo che dormiva non l’avrei…

La madre di Parvin era già
sparita dietro la porta della sua camera.

Guardai la moquette verde
che copriva tutto il pa-vimento e camminai sulla punta dei piedi fino
all’ingresso del soggiorno (totale passi: due), bussai in modo impercettibile
alla porta e poi l’aprii.

Lei era lì. Contro luce, con
i raggi del sole che le creavano l’aureola tutt’intorno.

Lei era lì. Con i suoi
capelli che venivano accarezzati da un soffio di vento artificiale di un
vecchio ventilatore rumoroso.

Lei era lì. Con lo sguardo
di chi sta aspettando da tutta una vita.

Lei era lì. Come un angelo a
cui avessero staccato le ali, impedendole di volare per sempre. Lei era lì.
Seduta sulla sua sedia a rotelle e mi guardava immobile.

– Ciao – dissi chiudendo la
porta dietro a me con i gesti al rallentatore cercando di fare meno rumore
possibile.

– Ciao. Oggi sei in
anticipo. Hai svegliato mia ma-dre, lo sai?

– Lo so – lo dissi facendo
di nuovo la faccia da innocente.

– Anche lei lo sa – me lo
disse con un sorriso da complice che io malignamente ricambiai con piacere.

– È che fra un’ora … – non
mi fece finire la frase.

– Dai giochiamo a scacchi.
Ti faccio vincere – non ero mai riuscito a batterla, a meno che lei non
l’avesse voluto, e quando lo voleva arrivava fino ad una mossa dallo scaccomatto
e poi sbagliava apposta per farmi vincere suggerendomi le mossa da fare.

– No. Non ho voglia di
pensare adesso – dissi un po’ ferito nell’orgoglio. – Giochiamo a Monopoli. Coi
dadi ero un mago a fare uscire il numero che volevo.

– Ma non ce la facciamo a
finire la partita. Non devi partire alle tre?

– E tu come sai che parto?

– L’ho sentito dire da tua
madre stamattina, quando è venuta a provarsi il vestito.

– Ah sì – abbassai la testa
e fissai la moquette.

– Vado a trovare il padre
adottivo di mia madre.

– Chi, quello delle poesie?

– Sì. L’anno scorso mi ha
dato ottocento Tuman per otto poesie di Haafez che ho imparato a memoria. Cento
Tuman per poesia.

– È un sacco di soldi. Cosa
ci hai fatto?

– Un po’ me li ha presi mia
madre dicendomi che li metteva sul mio conto, ma secondo me intendeva il suo,
il resto l’ho speso per comprare libri di poesia, perché da grande voglio
diventare come lui. Pensa è talmente colto che ha due paia di occhiali, uno per
vedere e uno per leggere. Anch’io volevo un paio di occhiali, ma il medico da
cui mi ha portato mio padre ha detto che ci vedo benissimo e non ne ho bisogno.
Allora ho deciso…

– Quanto tempo stai via?

– Per una settimana, poi
vengono i miei a prendermi – e tutto eccitato dissi:

– Pensa, il viaggio d’andata
lo faccio da solo, in pullman.

– Perché non me l’hai detto
che andavi via? – non le importava niente del fatto che avrei viaggiato da
solo.

– Non lo so. Sarà perché
abbiamo parlato per tutta l’estate di andare al Mar Caspio insieme, e ora io ci
vado da solo.

– È da stamattina che ti
stavo aspettando per dirti che sei un TRADITORE.

– Non me ne volere, ti
prego.

– No. Sei un traditore e
basta. Non ti parlerò mai più in vita mia.

– Dài Parvin non fare così.
Giuro che da grande ti ci porterò. Appena avrò la patente, tra qualche anno. Lo
giuro.

– Sì tra otto anni. Lo sai
che io non ho mai visto il mare, no?

– Sì, lo so.

– E non avevamo detto che
saremmo andati insieme e tu me l’avresti fatto vedere?

– Sì, te l’ho promesso e lo
manterrò.

– Allora sei un TRADITORE
perché ci vai da solo – girò la sedia a rotelle con un veloce gesto delle mani
sincronizzate in movimenti opposti, e mi diede le spalle guardando fuori
attraverso la tenda. Io guardai di nuovo la moquette e mi avvicinai a lei.

– Ci devo andare. Stasera il
nonno mi aspetta. È la notte delle stelle cadenti: questa sera, l’anno scorso,
ho fatto compagnia al nonno per vederle. Mi ha detto che non aveva mai visto in
vita sua tante stelle cadenti come quella sera e perciò anche quest’anno mi vuole
con sé. Dice che ne sono cadute tante perché c’ero io.

 Mi avvicinai e le accarezzai i capelli, lei non fece nessun
movimento. Girai la sedia un po’ verso di me e mi inginocchiai prendendole la
mano e dissi:

– Giuro che un giorno ti ci
porterò!

Sembrava una scena di uno di
quei film indiani strappalacrime visti al cinema il giovedì pomeriggio. Lei
indietreggiò con la sedia e dopo una piccola virata si mise dietro al tavolo
dove era pronta la scacchiera per iniziare una partita.

Mi sedetti di fronte a lei e
mossi di due caselle in avanti il pedone che stava di fronte al mio re.
Giocammo la partita quasi senza dire una parola, solo qualche suggerimento da
parte di Parvin che io seguivo senza esitare.

Mi tirò addosso il suo re,
come faceva ogni volta che perdeva, o per meglio dire ogni volta che mi faceva
vincere, e capii che mi aveva perdonato.

Sentii suonare il campanello
e poi la voce della mamma di Parvin che diceva:

– Non vuole salire? Va bene,
lo faccio scendere subito. 

Spostai la tenda e vidi mia
madre che apriva la porta del cortile e guardava verso di noi. Venne la mamma
di Parvin con la faccia addormentata come quando ero arrivato e mi riferì
l’ordine di scendere immediatamente.

Salutai Parvin con un bacio
sulla guancia senza badare né alla presenza di sua madre né al pensiero che
potesse esserci del peccato in quel gesto e corsi verso la porta. Mi fermai
prima di uscire dalla stanza e le dissi:

– Quando torno ricordami di
raccontarti un sogno che ho fatto.

– Che sogno?

– Te lo racconto quando
torno. Devo raccontarlo prima al fiume che lo racconterà poi al mare.

Lei ovviamente non capì il
senso delle mie parole e vista la mia fretta non mi trattenne.

– Portami un regalo.
Ricordatelo.     

– Va bene, addio.    

– Addio – la sentii quasi
gridare con un nodo alla gola.

 

– Tieniti questi venti
Tuman, saranno più che sufficienti per cinque giorni. Ma non comprarti delle
schifezze come al solito, ti fanno solo male.

Li presi e li misi in tasca
facendo con la testa un cenno di obbedienza e di approvazione.

– E ricordati che il nonno è
molto malato, perciò non mitragliarlo con le tue solite domante sparate a
raffica.

– Va bene.

– E da’ un bacione da parte
mia alla nonna. Mi raccomando fa’ tutto quello che ti dice e fa’ il bravo
ragazzo. Hai capito?

– Sì. Sì, ho capito. Mi dici
sempre le stesse cose, lo sai che sono un bravo ragazzo.

– Certe volte proprio no.

– E quando?

– Adesso va’ che tuo padre
ti sta aspettando in macchina. Quando verrò a prenderti porterò l’elenco delle
volte che non sei un bravo ragazzo. Su, dammi un bacio.

Glielo diedi con un forte
abbraccio.

– Così. Fa’ molta
attenzione. Dio… è la prima volta che vai in giro da solo e non sei ancora
nemmeno un mezzo uomo – e mi diede una botta in testa:

– Addio.

– Addio.

Presi la borsa e mentre
correvo verso la porta mi chiesi cosa diavolo ci avesse messo dentro mia madre.
Lei mi seguiva con passi veloci e la sentivo pregare a voce alta in arabo. Lo
faceva sempre ogni volta che uno di noi usciva di casa, fosse per un viaggio,
per una passeggiata o semplicemente per andare a scuola. Finita la preghiera,
lei poi soffiava, muovendo la testa in modo da descrivere dei cerchi di fronte
a sé.

Fuori c’era mio padre in
piedi con la portiera della macchina aperta. Era nella stessa posizione in cui l’avevo
lasciato quando ero entrato in casa per prendere la borsa, l’unica differenza
era nella sua sigaretta ormai bruciata fino al filtro e dalla quale tentava di
tirar fuori ancora una boccata di fumo.

– Dài che siamo in ritardo.
L’autobus non sta mica ad aspettare che arrivi tu per partire.

Io non riuscivo più a
parlare per la fatica fatta per portare la borsa fin lì.

– Dài dammi la tua borsa che
la metto nel baule – e mi rubò dalle mani la borsa. – Ma cosa ci hai messo
dentro? Del piombo.

Io guardai e indicai con gli
occhi mia madre che era appena giunta sulla porta.

– Va bene andiamo. Mise la
borsa nel baule e salì in macchina e rivolgendosi a mia madre disse:

– Ci vediamo stasera.

– Addio. – Urlai verso mia
madre mentre la macchina era già in moto, la seguii con gli occhi e agitai la
mano verso di lei fino all’incrocio, e poi la vidi sparire dietro le mura della
casa che costituiva l’angolo della via.

– Come mai quest’anno non
sei voluto andare a trovare mio padre?

– È che non ho tempo
quest’anno; le lezioni di lettura coranica mi obbligano a studiare tutti
giorni. Devo perfezionare la velocità di lettura badando bene alle pause
imposte. Il professore dice che se non faccio molti esercizi finisce che per il
concorso vengo scartato già alla domanda d’ammissione. Per i concorrenti arabi
è molto più facile perché leggono nella propria lingua e conoscono il
significato delle parole, mentre per noi che non parliamo l’arabo è molto più
difficile, soprattutto per gli accenti.

– Va be’. E adesso questa
settimana che vai a trovare l’altro nonno non perdi tempo?

– Lo so ma glielo avevo
promesso l’anno scorso. E poi mi eserciterò con il nonno che sa parlare anche
l’arabo.

Mio padre non ribatté ma si
limitò a incrociare le sopracciglia e muovere la testa su e giù come uno che ha
capito la motivazione ma non la condivide.

All’ingresso della super
strada c’era una folla di gente in piedi incurvata sui finestrini delle
macchine che procedevano lente con il finestrino aperto.

– Adesso siediti bene che
carico qualche passeggero – ordinò mio padre. Mi misi a sedere tutto composto.

– Stazione Nord – mi urlò
nell’orecchio destro il padre di una famiglia composta da quattro persone e due
borse.

– Venti Tuman – chiese mio
padre.

– Ma questo è solo un
bambino – disse indicando il figlio più giovane che era molto più grande di me,
almeno come diametro – ci sediamo tutti dietro per quindici Tuman.

– Va bene – acconsentì mio
padre.

Mentre la famigliola stava
cercando di trovare il modo per sistemarsi sul sedile di dietro si avvicinò un
signore di corsa ed urlò:

– Stazione Nord?

– Cinque Tuman – urlò questa
volta mio padre.

– Va bene – salì e si
sedette accanto a me.

Durante tutto il tragitto
fino alla Stazione Est io rimasi in silenzio e ascoltai i soliti discorsi che
si fan-no quando un gruppo di sconosciuti è obbligato a percorre un tragitto
insieme e cioè: di quanto è aumentato il prezzo dei trasporti che nemmeno si
trovano, il prezzo del pane, del latte, eccetera. Con le solite frasi di
introduzione tipo: “Quando ero bambino io il pane costava…” oppure “Mi ricordo
che solo sei mesi fa…”, concludendo che di anno in anno si andava peggiorando.
Mio padre invece si lamentò, come al suo solito, per il prezzo della benzina,
del meccanico e dei pezzi di ricambio, anche questi introvabili.

All’ingresso della stazione
dei pullman mio padre cambiò la banconota da cinque Tuman del viaggiatore
solitario con quella da venti Tuman del capo branco baffuto. Dopo di che
cercammo un posteggio all’interno di un parcheggio a pagamento che sembrava un
campo di battaglia dopo un bombardamento di missili e gas nervino.

Mio padre prese la borsa dal
baule della macchina e ci incamminammo verso il mio autobus schivando con un
atteggiamento di perfetta insensibilità tutti i mendicanti e venditori ambulanti
che affollavano il nostro percorso. Trovammo il pullman con le porte ancora
chiuse e i passeggeri che si riparavano dal sole sotto qualsiasi cosa facesse
ombra e si dissetavano con bevande di vario genere, tè bollente compreso. Tutte
le borse erano già sistemate nello scompartimento apposito sul lato destro, il
che indicava che l’autista era andato a riposarsi o mangiare qualcosa mentre il
suo aiutante era lì a sistemare i bagagli dei passeggeri nell’ordine in cui
dovevano poi essere scaricati. Mio padre lo individuò e gli diede la mia borsa
dicendogli dove dovevo scendere, e poi diede un’occhiata all’autobus e ci fece
un giro attorno dando dei calcetti alle gomme che dormivano immobili.

– Va bene. Ha le gomme
buone. Vedrai che viaggerai tranquillamente. Ti ho preso il posto dietro al
guidatore così puoi guardare la strada e non ti sentirai male come ti capita
sempre.

Tirò fuori il biglietto da
venti Tuman appena incassati e ne aggiunse un altro da dieci:

– Tieniti questi trenta
Tuman.

– Sono troppi, la mamma mi
ha già dato altri venti – lo dissi con la testa chinata di lato. Però non
poteva più tirarsi indietro e questo io lo sapevo. Allora fece il cenno con la
mano tesa in segno di insistenza:

– Prendili, non si sa mai –
e aggiunse: – Ma mi raccomando non comprarti delle schifezze che ti fanno solo
male, lo sai.

Finalmente arrivò il
guidatore-boss, salì dalla porta a lui riservata e aprì le altre porte
d’ingresso. Mio padre andò vicino al finestrino per parlargli e quello scese
dal pullman.

– Questo ragazzo deve
scendere al caffè Djamshid, lì ci sarà a prenderlo suo zio.

– E se non c’è?

– No!? – rispose
raddrizzando la schiena e tirando su la testa chiedendosi se poteva accadere
una cosa del genere. – Verrà sicuramente – disse, rassicurando l’autista e sé
stesso.

– Un’altra cosa – continuò
mio padre – il ragazzo soffre durante i viaggi in pullman, soprattutto nelle
curve, gli ho preso il posto dietro a voi, così può guardare la strada per non
sentirsi male.

– Va bene. Non si preoccupi
– fece una pausa e continuò – lo farò scendere al caffè Djamshid – poi
guardandomi mi disse rassicurandomi – vedrai che sarà un bel viaggio, io non ho
l’abitudine di andare forte, sta’ tranquillo.

Non so perché, ma sentivo
che lo diceva per tranquillizzare mio padre e non me.

Dopo baci e abbracci e
raccomandazioni da parte di chi partiva e di chi accerchiava il pullman e
sarebbe rimasto lì finché il mezzo non fosse scomparso dalla vista, il viaggio
iniziò con due colpi di clacson. Tutte le teste erano rivolte verso i cari
lasciati alla partenza, esclusa per fortuna quella dell’autista, e con le mani
sventolanti dai finestrini si ricambiava il saluto e l’augurio di buon viaggio.

Smisero tutti
contemporaneamente quando il pullman sobbalzò a causa di un pietrone che le ruote
a destra non avevano evitato, causando il fraternizzare dei passeggeri che si
chiedevano scusa a vicenda per le gomitate, ginocchiate, e addirittura le
cadute libere a tutto peso di quelli che non si erano ancora sistemati per
restare in piedi a salutare in modo più affettuoso. Accanto a me c’era un
signore che non gradì molto la mia volata sul suo fianco.

Mi sedetti per bene e vidi
l’autista tirar fuori gli occhiali per metterseli, maledicendo a bassa voce
satana.

Un signore a metà del
pullman, come in tutti i viaggi, urlò: “Per la salute del guidatore e il buon
esito del viaggio salutiamo il profeta”, e si levò un coro di voci di tutti i
presenti che salutava il profeta e i suoi discendenti.

Appena fuori città il
pullman si fermò perché invece di andare dritto sculettava a zig zag. Il
guidatore ordinò al suo vice di scendere a dare un’occhiata, questi appurò che
si era bucata una gomma. Allora aprì le porte, maledicendo ad alta voce satana,
ci fece scendere e ci raccomandò di non allontanarci.

Ci vollero circa tre quarti
d’ora per l’operazione e mi venne in mente che avevo dimenticato di prendere i
libri di poesie che mi ero comprato per farli vedere al nonno. Salimmo in
pullman e il viaggio riprese. L’aiuto guidatore prese, appesa ad un bauletto frigo
che era accanto al suo sedile, una grossa caraffa rossa di plastica dalla quale
tirò fuori un bicchiere con le stesse caratteristiche, aprì la porta del
bauletto frigo e vi immerse la caraffa riempiendola d’acqua. Versò un bicchiere
e lo diede al guidatore che lo bevve tutto d’un colpo, ne versò un altro e fece
lo stesso anche lui, poi si alzò e mi chiese se avevo sete. Così bevvi anch’io,
restituii il bicchiere e lui continuò a fare la stessa domanda a tutti i
passeggeri camminando lungo tutto il pullman.

– Come ti chiami ragazzo? –
mi chiese il guidatore voltando leggermente la testa verso destra.

– Alì.

– Anche uno dei miei figli
si chiama Alì.

– Sì? È un nome molto
comune. Ho letto che è il nome più diffuso dopo Mohammad.

– Lo credo, sono i nomi del
profeta e del primo Imam.

Dopo un po’ riprese:

– Di’, hai mai visto il lago
di Sale?

– Sì, ma da lontano. Lo vedo
ogni volta che vado a trovare il mio nonno paterno. Subito dopo la città santa
di Qom.

– Io l’ho visto da vicino
sai? Prima di fare questa linea facevo la linea che porta fino ad Isfahan. Una
volta ho bucato due gomme lì, nel deserto, subito dopo la città santa, nel
punto più vicino al lago di Sale e siccome ci volevano un paio d’ore per
cambiarle tutte due, ho detto al mio aiuto di occuparsene lui, ho mollato lì
tutti i passeggeri e ho preso a camminare verso il bianco, candido sale, che
copriva per chilometri tutta la spiaggia del lago. È stato il giorno che ho
patito di più il caldo e la sete nella mia vita. Non ce l’ho fatta ad arrivare fino
al mare. Dalla strada sembrava vicinissimo ma poi più camminavo e più lo vedevo
lontano, e pensare che io di distanze me ne intendo. Alla fine ho deciso di
tornare indietro. Però che esperienza!

– Deve essere stato
bellissimo.

– Sì, lo sarebbe stato, ma
accidenti al caldo che faceva – e indicandomi il paesaggio disse – e pensare
che a quattro ore di macchina c’è tutto questo paradiso di verde.

Mi raccontò poi di vari
viaggi che aveva fatto, su e giù per tutto il paese. Capii che faceva quel
mestiere da quando aveva circa quattordici anni. Prima come aiuto e poi si era
comprato il pullman. E siccome era stufo di dormire quasi sempre fuori casa, si
era fatto mettere su questa linea che in una giornata gli permetteva di fare il
giro. Mi disse che guadagnava di meno però era più felice.

Dopo un po’ di strada, quasi
tutta dritta ne abbiamo imboccata una che assomigliava all’impronta di un
serpente lasciata sulla sabbia e saliva tutta l’enorme montagna che dovevamo
oltrepassare per arrivare a destinazione. Dopo poche curve ci fermammo davanti
a un caffè per una rinfrescatina.

Scendemmo e ci mettemmo
tutti in fila davanti all’unico bagno disponibile per i clienti situato dietro
il caffè, escluso il guidatore, ovviamente, al quale era concesso di utilizzare
il bagno dei gestori in quanto portatore dei clienti.

Man mano che la gente usciva
dal bagno il caffè si riempiva. Anch’io feci come tutti gli altri ed entrai nel
caffè. Diedi un occhiata in giro, mentre quasi tutti i passeggeri, bambini
compresi, si facevano servire un bel tè bollente con lo zucchero in cristalli
che veniva sciolto in bocca, portato alla temperatura di fusione dal tè, bevuto
con veloci risucchi. Eccezione solo per qualche bottiglia di cola di vario
genere.

Io optai per una bottiglia
di yogurt-liquido-frizzante-bello-fresco.

Dopo un quarto d’ora, le
clacsonate dell’aiuto guidatore annunciarono la ripresa del viaggio che iniziò
quando il guidatore prese posto. Il viaggio riprese così, come le infinite
curve che dovevamo superare, e con queste l’andar su e giù nello stomaco del
mio yogurt-liquido-frizzante-bello-fresco. L’aiuto guidatore vide il pallore
della mia faccia e riferì al guidatore, il quale gli ordinò subito di fornirmi
un sacchettino di plastica per le mie eventuali eruzioni. Lo presi con un po’
di vergogna e lo tenni aperto davanti a me fissando la strada che proseguiva
serpeggiando e scompariva tra rocce, alberi e nuvole basse.

– Sai che l’anno scorso ho
visto una macchina, proprio in questa curva davanti a noi – in quel punto e me
lo indicò – precipitare giù nel burrone. Mi sono fermato, ma ormai non c’era
più niente da fare, una famiglia di sette persone, tutti morti escluso un
neonato.

Fissai il punto e mi
immaginai la scena. Per fortuna quella curva l’avevamo passata indenni. – Dimmi
un po’ cosa hai preso lì al caffè?

Non feci in tempo a
rispondergli che si riempì mezzo sacchettino del mio
yogurt-liquido-frizzante-bello-fresco. Al primo piazzale il guidatore fermò il
pullman e mi fece scendere per prendere una boccata d’aria e così mi liberai
anche dal sacchettino imbarazzante. Risalii in pullman con tutti i passeggeri
che si informavano della mia salute. Riprendemmo il viaggio e continuai a
fissare la strada senza più aprire bocca e mi addormentai.

   – Alì. Alì svegliati. Alì…

Era la voce del guidatore.
Aprii gli occhi e lo vidi in piedi davanti a me. Guardai fuori, eravamo al
caffè Djamshid. Scesi dal pullman e la luce del sole, indecisa se sorgere o
tramontare, mi abbagliò. Guardai bene e vidi mio zio, il figlio naturale di mio
nonno, seduto sul tappeto che copriva tutta la veranda all’ingresso del caffè
Djamshid che beveva un tè. Salutai il guidatore e il suo aiutante che mi
recuperò la borsa e il pullman ripartì con qualche passeggero che mi sventolava
la mano in segno di saluto.

Trascinai la borsa fino in
mezzo al piazzale e chiamai lo zio che mi vide e mi venne incontro. Mi
abbracciò e mi diede quattro baci sulle guance, due per parte. Sollevò la borsa
e mi disse di aspettarlo in macchina, poi si diresse di corsa al caffè per
pagare il conto. Mi raggiunse ansimante dopo aver sistemato la borsa sul sedile
di dietro.

– Ma cosa hai messo dentro
quella borsa? pesa un quintale.

– Non lo so, me l’ha
preparata la mamma.

– Un uomo della tua età che
si fa preparare la borsa ancora dalla mamma! – e sorrise.

– No, è che ero andato a
salutare un amica e così…

– Come si chiama già?
Parvaneh?  

– No. Si chiama Parvin –
arrossii. – Tu, zio, come fai a saperlo?

– Ehi, cosa credi? sono
informatissimo io – e mi lanciò uno sguardo da furbastro.

– Dai chi te l’ha detto?
scommetto che è stata la mamma.

– Sì, un po’ tua mamma… un
po’ tuo papà… e un po’ mio padre – e rise.

– Non ci credo. Il nonno mi
aveva promesso di non farne parola con nessuno.

– Sì, ma sai com’è. Quando
si vuole bene troppo a un nipote si finisce a parlare sempre di quello e così
senza volerlo si raccontano i suoi segreti. Dimmi, come sta tuo padre? Si
lamenta sempre del prezzo della benzina, dei meccanici e dei pezzi di ricambio?

– Sì non parla d’altro. È il
suo argomento preferito, lo sai.

– E i tuoi fratelli come
stanno?   

– Tutti bene. Credo. Sono
via già da due settimane. Sono andati a trovare l’altro nonno.

– Sì lo so. Dimmi: come ti
senti dopo aver viaggiato per la prima volta da solo, come un uomo – e rise sotto
i suoi baffi.

– Non lo so. Ho dormito per
quasi tutto il viaggio – era meglio non scendere nei particolari.

– Ah il mio primo viaggio.

– Zio per favore. Lo conosco
a memoria. È come se l’avessi fatto io quel viaggio.

– Sempre schietto tu. Non
cambierai mai. Se c’è una cosa che hai preso da mia sorella è di dire sempre
quello che pensi. Con l’età capirai che certe volte per allungare la propria
esistenza è meglio non pensare, figuriamoci parlare – e divenne silenzioso e
pensieroso come uno che sfoglia la propria vita pagina per pagina, senza
fermarsi né troppo a lungo né troppo poco su quello che ha fatto, occasioni che
ha perso, errori che ha commesso e prezzo che ha pagato.

– Dimmi zio tu ’sta sera sei
dei nostri a guardare le stelle?

– No purtroppo. Vi
raggiungerò prima che voi torniate a casa però. Ho già portato il nonno al
vecchio tempio e vi ho sistemato tutto. Dovete stare lì, mangiare e guardare
solo le stelle finché non arrivo io. Poi torniamo a casa e giochiamo al gioco
della rima, che consiste nel dire una poesia che inizi con l’ultima lettera
dell’ultima rima della poesia dell’avversario, continuando finché uno rimane a
corto di poesie.

– Sai che l’anno scorso non
sono riuscito a battere il nonno neanche una volta.

– Mio padre quando è a corto
di poesie se le inventa.

– Come qualcuno che conosco
molto bene – dissi indicandolo col dito e gli occhi semi chiusi.

– Io nel dubbio vi ho sempre
portato l’autore.

– Sì ma non puoi inventarti
una poesia ed attribuirla alla nonna che ti dà sempre ragione. Se alla volpe
chiedon chi t’è testimone, risponde la mia bella coda. In ogni modo
quest’estate batterò sia te che il nonno, ho imparato un sacco di poesie.

– Vedremo – lo disse
ridendo, poi intonò una poesia musicata di Araghi che cantammo assieme fino a
casa dove mio zio mi aiutò a portare la borsa e se ne andò.

Salutai la nonna con tanti
reciproci baci sulle guance e fui interrogato sullo stato fisico-mentale di
ciascun membro della mia famiglia; bevemmo un tè, dopo di che lei sollevò la
mia borsa per andare a disfarla e disse:

– Accidenti quanto pesa,
cosa mai ci avrai messo dentro?

– Sono curioso di saperlo
anch’io. Me l’ha preparata la mamma.

– Vediamo cosa c’è dentro
per pesare così tanto – ed aprì la borsa.

Con felicità scoprii che mia
madre mi aveva riempito la borsa di tutti i miei libri di poesia imballati nei
vestiti. Svuotò la borsa, separando i libri dai vestiti e disse:

– Te li lascio qui così
quando torni stasera li fai vedere a tuo nonno.

– Benissimo – mi alzai in
piedi. – Se non hai niente in contrario io vado a raggiungere il nonno.

– Ti ricordi la strada fino
al tempio?

– Sì, la conosco come le mie
tasche – la rassicurai.

Salutai la nonna, uscii di
corsa dalla casa e mi diressi verso la casa del vecchio Amir. Lì, salii
sull’enorme masso che era di fronte a casa sua e guardai il fiume. Estrassi il
sogno che avevo scritto, intonai la voce e lo lessi ad alta voce al fiume;
fatto questo, costruii una barchetta con il mio sogno, scesi dal masso e lo
posai nell’acqua del fiume e lo aiutai a prendere il largo con un bastone che
trovai lì. Mi girai per andare a raggiungere il nonno e vidi avvicinarsi il
vecchio Amir.

– Dimmi ragazzino sei figlio
di Shirin per caso?

– Salve. Sì. Si ricorda di
me? sono Alì. Il più piccolo.

– È che ti ho visto sul
masso a leggere un biglietto; costruirci una barchetta e buttarlo nel fiume.
Questo lo faceva sempre anche tua madre. Non fosse stato per i tuoi capelli
corti avrei giurato che fosse tua madre vent’anni fa. Ma cosa leggevi al fiume?

– È un segreto tra me, mia
madre e il fiume. Non posso dirglielo.

– Ah. Allora non dirmelo se
è un segreto – e rise. – Sei venuto a trovare il nonno con papà e Shirin?

– No. Sono venuto da solo.

– E i tuoi lo sanno?

– Certo. Mi hanno mandato
loro. Loro verranno venerdì. Io sono venuto prima a vedere le stelle cadenti
con il nonno, come l’anno scorso.

– Ah, già. Stasera è la
serata giusta. Però non credo che ne cadranno tante come l’anno scorso.

– Io credo di sì. Dal
vecchio tempio si vede benissimo.

– Ah, già. Il vecchio
tempio. Tuo nonno ha speso un capitale per comprarlo e restaurarlo. Non ho mai
capito il perché. Il terreno lì non è neanche coltivabile, è tutta pietra. Va
bene – riaccese la sua pipa. – Va’ da tuo nonno, ora, che ti starà aspettando –
fece un tiro alla sua pipa che s’era già spenta e continuò – di’ a Shirin,
quando arriva, di passare a salutarmi.

Salutai il vecchio Amir e mi
diressi verso il vecchio tempio. Il vecchio tempio era situato in cima alla
montagna che sovrastava il paese e da lì si vedevano tutti i paesini vicini e
tutte le montagne che circondavano la zona fino al mare. Era un tempio
zaratuista di dieci metri per dieci, fatto di quattro colonne rettangolari che
si incurvavano verso il centro del soffitto unendosi ad un’apertura circolare
di circa due metri di diametro dalla quale si vedeva il cielo. In
corrispondenza di questo poi, sul pavimento, c’era una colonna alta un metro
circa, cava dentro come un bicchiere, che serviva per accenderci il fuoco.

Raggiunsi finalmente il
vecchio tempio attraversando le viuzze in salita con le case tutte costruite in
terra e paglia, distanziate l’una dall’altra, giusto per potere percorrere i
sentieri o a piedi o seduti sopra un quadrupede.

Il nonno era seduto fuori su
un tappeto, prendeva l’ultimo sole della giornata e leggeva con un paio di
occhiali appesi al petto e un altro sorretto dal naso che vennero scambiati di
posto appena si accorse che mi stavo avvicinando e mi riconobbe subito. Corsi
da lui mentre tentava faticosamente di alzarsi. Lo salutai e lo aiutai a
mettersi in piedi. Mi baciò sulle guance, interrotto da colpi di tosse e mi
disse:

– È brutta la vecchiaia. Non
riesci più neanche ad alzarti da solo.

Poi continuò, esaminandomi
con gli occhi:

– Ti sei fatto un uomo
ormai.

Felice per quello che mi
aveva detto, lo aiutai a sedere e mi sistemai accanto a lui per guardare il
panorama.

– Sei arrivato finalmente.
Credevo avessi perso il pullman.

– No è che il pullman ha
bucato subito dopo la partenza e così siamo arrivati tardi.

– Perché ci sono anche i
tuoi? – mi chiese stupito.

– No sono venuto da solo.

– Il primo viaggio da solo,
ehi – mi diede una pacca sulla spalla e mi strinse a sé guardandomi.

– Sì.

– Come è stato?

– Mi sono sentito male sul
pullman.

– Ah, i tuoi genitori.
Lasciarti venire qui da solo.

– Ma se prima mi hai detto
che ero già un uomo ormai.

– Non si smette mai di
crescere. Ricordatelo! – pensò un po’, poi continuò: – Quando torniamo a casa
ricordami di farti leggere un pezzo dell’Amleto di Shakespeare, atto primo,
scena seconda. No, no, scena terza. Sono consigli paterni di Polonio al figlio
Laerte per il suo primo viaggio.

– Come fai a ricordarti di
tutte queste cose nonno?

– Se permetti sono stato il
primo a tradurre le opere di Shakespeare in persiano. Mi sono rimaste stampate
nella mente ormai.

– Non lo sapevo – dissi
stupito e ammirato – deve essere stato difficile.

– Lo è stato di più farle
pubblicare e farle mettere in scena.

– E perché?

– Perché non tutta la
cultura occidentale piaceva all’epoca, tant’è vero che l’Amleto me lo hanno
censurato in tanti di quei punti che alla fine non sembrava più neanche l’opera
che avevo tradotto. Col tempo poi la gente ha imparato a guardare senza più
vedere le cose che conviene non vedere; tutti spettatori e mai testimoni dei
fatti, così queste opere sono state pubblicate e sono andate in scena. Ma ora
basta parlare di queste cose, ci conviene accendere il fuoco e mangiare
qualcosa prima che faccia completamente buio.

Così abbiamo acceso il fuoco
e ci siamo messi a mangiare i panini che aveva preparato la nonna, fatti con il
formaggio di Tabriz, cetrioli, uva e verdure varie, il tutto avvolto da uno
strato di pane sottilissimo come una donna appetitosa in chador.

– Parvin come sta?

– Sta bene. Se l’è presa con
me oggi perché sono venuto qui. Sai, lei non ha mai visto il mare e io le avevo
promesso che un giorno l’avrei portata a vederlo.

– Se il prossimo anno vuoi,
puoi invitarla qui. Troveremo anche il modo per portarla in giro.

– Nonno, mi racconti come
hai fatto a sposare la nonna?

Rise un po’ e mi disse:

– Non ti sembra troppo
presto per pensare al matrimonio?

– No – risposi imbarazzato –
è che sono curioso di saperlo.

– Mi ero appena diplomato e
dovevo partire per due anni per il servizio militare prima di poter fare
l’università. Tua nonna era mia cugina; posso dire che l’ho vista nascere. I
miei allora decisero di chiedere la sua mano per me. Andammo a casa di mio zio
con tanto di regali e dolci. La tradizione vuole che se la ragazza accetta la
proposta serve il tè, altrimenti vuole dire no. Tua nonna quel giorno non ci
servì il tè.

– Parvin non potrebbe mai
servirmi del tè – arrossii per quello che avevo detto, ma non ci avevo pensato
prima di dirlo, era venuto fuori così, spontaneamente.

– Aspetta prima di correre
così lontano.

– Dimmi nonno, come è
successo che poi ha acconsentito.

– Io le scrissi una lettera,
anche perché l’amavo indipendentemente dalla decisioni dei miei genitori, lei
fece sapere a mia madre che era d’accordo e così ci fidanzammo e ci sposammo
dopo la laurea.

– Cosa avevi scritto in
quella lettera?

– Sentimenti, promesse e
suppliche – e rise di gusto. – Sai, se non si riesce a sciogliere l’acciaio con
il fuoco, si riesce con le parole, questo da sempre.

Guardai il vecchio tempio
illuminato dal fuoco che avevamo acceso e gli chiesi come mai l’avesse comprato
e restaurato.

– La prima volta che sono
andato a Persepoli rimasi affascinato da quella costruzione che era lì da
duemilacinquecento anni, sopravvissuta ad Alessandro Magno che le aveva dato
fuoco, alle invasioni di arabi, mongoli e turchi. Quando entrai nelle mura
della città-castello, tutta costruita con il marmo, rimasi amareggiato nel
vedere scolpiti su quel capolavoro secolare le firme e le frasi-ricordo di
turisti inglesi, francesi e occidentali in genere. Nessuno gli aveva impedito
di sfigurare, quello che, malgrado le guerre e la natura, è uno dei più
affascinanti capolavori architettonici. Così decisi che dovevo proteggere il
vecchio tempio dei zaratuisti che vedi e la comunità degli zaratuisti mi
ringraziò per questo, visto che nessun musulmano aveva fatto una cosa simile
prima d’allora – e si sdraiò soddisfatto.

– Ho visto una stella
cadente – urlai io, mentre scrutavamo il cielo.

– Esprimi subito un
desiderio.

– Desidero… – pensai un po’
– …che ogni volta che esprimo un desiderio questo si avveri.

– Ma così non vale.

– Allora desidero che si
avveri la prima parte del sogno che ho fatto oggi – ed immaginai Parvin che mi
tendeva la mano invitandomi ad alzarmi.

– Ho visto una stella
cadente – urlò questa volta mio nonno indicandomi dove l’aveva vista. Desidero
vedere l’ultima alba della mia vita.

– L’ultima alba? – chiesi
perplesso.

– Sì. Vedi, è lo spettacolo
più bello che ci sia. È la vita, il principio. Vederla è come nascere di nuovo.
Il sole che sale piano, piano – guardava il cielo e lo accarezzava con la mano
aperta:

– Il colore del cielo che
cambia, da scuro diventa chiaro per diventare poi azzurro. È bellissimo. Toh,
un’altra stella cadente.

Continuammo ad esprimere un
desiderio per ogni stella cadente che i nostri occhi scrutatori intercettavano
finché di colpo ci addormentammo tutti e due. Quando aprii gli occhi vidi tre
stelle cadenti contemporaneamente scorrere nel cielo e scomparire nel buio.

Mi sedetti e vidi una
lanterna dondolante avvicinarsi per la stradina. Guardai il nonno sdraiato
accanto a me che dormiva con gli occhi semichiusi. Lo chiamai, toccandolo, ma
non si svegliò. Appoggiai la testa sul suo petto per sentire il cuore e si
mosse. Mi alzai subito.

– Ci siamo addormentati –
gli dissi aiutandolo a sedere.

– Guarda, credo che lo zio
sia venuto a prenderci. Peccato che ci siamo addormentati.

– Non ti preoccupare ci
rifaremo il prossimo anno. Dormire è riposarsi, non è perder tempo. Si vede che
avevamo bisogno di riposo. Ricordati, cerca di vivere sempre per i ricordi e
mai di ricordi. Anche essersi addormentati è un bel ricordo.

La lanterna ci raggiunse
dondolando in aria, sostenuta dalla mano di mio zio sul dorso di un cavallo.

– Salve. Vi siete divertiti?
– scese e continuò: – Mi sono fatto dare il cavallo dal vecchio Amir per
riportarvi a casa – e ci venne incontro.

Arrotolato il tappeto e
raccolto tutto il resto, mio zio aiutò il nonno a salire sul dorso del cavallo
poi mi sollevò in aria lamentandosi del mio peso e mi sistemò davanti al nonno,
precedendoci a piedi e facendo luce lungo la stradina, con il tappeto sulle
spalle e la lanterna in mano. Io mi sentivo il protagonista di un film western.

Arrivati a casa andai subito
a dormire nella cameretta denominata “camera di Alì”. Prima di addormentarmi mi
venne in mente che mi ero dimenticato di far vedere i libri di poesia al nonno.

 

Corro su per la montagna. Il
cielo è biancastro; color alba. Mi fermo e guardo giù dalla montagna dove c’è
mio nonno che mi saluta, sventolandomi il braccio, con la mano aperta. Prendo
un po’ di fiato e guardo la cima della montagna. Ci sono quasi. Riprendo a
correre. La salita è sempre più aspra. Sento le gambe che mi fanno un male
incredibile, le sento pesantissime, è come se qualcuno mi tenesse la gambe
impedendomi di correre. Devo farcela. L’ultimo sforzo, mentre sento le gocce di
sudore calarmi dalla fronte sugli occhi che iniziano a bruciare.

Sono in cima, mi fermo e
guardo giù, mio nonno è sempre lì che sventola il braccio con la mano aperta e
mi saluta. Mi giro dall’altra parte. Vedo il sole che è all’altezza dei miei
piedi. Ci metto un piede sopra e spingo in modo che non sorga. Niente da fare è
più forte di me. Ci salgo sopra, ma quello non ne vuole sapere e mi solleva
come un ascensore. Con i piedi sul sole mi allungo e abbraccio la cima della
montagna cercando di fermarlo aggrappandomi a lui. È tutto inutile, continua a
salire.

Il sole, sale, sale. Non ce
la faccio più. Sento tutti i muscoli del mio corpo che vengono tirati e il
sangue che mi sale in testa. Le mie mani cominciano a scivolare mentre sono
ormai in una posizione completamente capovolta. Non resisto più: maledetto
sole, non sorgere! Ti prego. Non resisto. Non resisto.

Mi libero i piedi. Do una panciata
contro la montagna. Il sole, come niente fosse continua a salire. Sempre
aggrappato alla cima con le braccia mi trascino e guardo giù verso la valle.
Mio nonno è sempre lì che mi saluta sventolandomi il braccio con la mano
aperta, poi si gira e se ne va.

 

– Alì. Alì svegliati. Alì…

Apro gli occhi. È la voce di
mia nonna. Mi siedo sul letto. Sono tutto sudato. Dalla finestra entra un
debole raggio di sole. Mia nonna si siede sul letto accanto a me. Mi accarezza
i capelli e mi asciuga il sudore sulla fronte senza dirmi niente. La guardo
negli occhi, sono rossi color sangue.

– Il nonno è morto?

– Sì – scivola sul suo viso
una lacrima.

– Ha visto l’alba
stamattina?

– Sì – mi fissa negli occhi
e mi fa un cenno di sorriso piena di tristezza, poi mi avvicina a sé.
L’abbraccio forte e nascondo la mia faccia tra i suoi bianchi capelli sciolti
sul petto e dondolando piangiamo insieme.

 

Alla memoria del Dott. Valal 1994

 

 

 

 

 

 

 

 


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