Solo allora, sono certo, potrò capire
– Ecco, siamo arrivati.
Quaranta dinari – disse il tassista, senza voltarsi.
Jean-Marie pagò e scese dal
taxi giallo, tutto ammaccato, meravigliandosi di essere arrivato sano e salvo.
Rimase per un momento sul
marciapiede a guardare il vecchio aeroporto: una costruzione irregolare e senza
carattere.
Una folla immensa gli
nascondeva la parte bassa dell’edificio. Spostò lo sguardo su una fila di
palme, dal tronco imbiancato a metà, che corre al di là del parcheggio. Ebbe un
tuffo al cuore e si sentì d’un tratto come avvolto da un manto di solitudine.
Si lisciò i capelli e si
avviò lentamente verso l’aeroporto. Si sentiva perso in mezzo alla folla. Si
aprì un varco e entrò nell’edificio.
Si avvicinò al banco Air
France e andò ad allungare la fila dei viaggiatori. Scrutò per un po’ i volti,
ma si convinse alla fine che erano tutti del luogo.
Porse il biglietto alla
ragazza mora, dai capelli lunghi e lucidi, che gli consegnò, pochi minuti dopo,
la carta di imbarco. Aveva pochi bagagli, una borsa a tracolla e una valigetta
Samsonite.
I condizionatori d’aria
accompagnavano il rumore provocato dai viaggiatori: parole, passi, grida,
pianti e urla di bambini, ma non riuscivano a lottare contro il caldo torrido.
Notò che le porte di vetro e alluminio erano spalancate. Mise la carta di
imbarco nella tasca della camicia e salì al primo piano. Si diresse verso un
bar scorbutico, nascosto in un angolo buio, e chiese una aranciata. Il barista
appoggiò la bibita sul banco appiccicoso e aggiunse con un tono secco:
– Non abbiamo bicchieri.
Jean-Marie bevve soltanto
una sorsata della dolcissima aranciata, ebbe subito sete ma non osò chiedere
dell’acqua.
– Berrò sull’aereo – disse
fra sé.
Lasciò il bar e andò a
sedersi in una hall adibita a sala d’attesa. Da qualche parte nel soffitto
c’era una fuga d’acqua. Larghe chiazze si stendevano in mezzo alla sala e sotto
le sedie. Si sedette ed estrasse dalla borsa il giornale locale “El Moudjahid”.
Non riuscì a concentrarsi
nella lettura e si mise a guardare i viaggiatori in gruppi, con grappoli di
bambini e donne velate che stavano o appoggiati al muro o seduti per terra.
Nessuno sulle sedie. Un uomo sulla quarantina con occhiali da vista del tipo
fondo di bottiglia, e dai tratti marcati, si avvicinò, scrutò l’ambiente e
infine si sedette vicino a lui. Alcuni minuti dopo si voltò, lo squadrò per un
attimo e disse:
– Mi scusi, le dispiace
guardarmi i bagagli, devo assentarmi un momento, anche se non credo questi
buzzurri capaci di rubare, comunque
Jean-Marie annuì e l’uomo si
sentì in dovere di precisare:
– Sa, vado a prendere un
panino al bar. Il bar fa schifo, ma il pane di questo paese è buonissimo. Se lo
vuole ne porto uno anche a lei.
Jean-Marie rispose di no,
l’uomo si alzò e andò verso il bar. Un gruppo di bambini bisticciava, porgendo
in mano delle automobiline ad un gruppo di adulti appoggiati al muro, poco più
lontano.
Jean-Marie fissò una ragazza
vestita con maglietta e gonna, in piedi dall’altra parte. Aveva l’aria triste e
i capelli disordinati, poi la sua attenzione fu attirata dall’uomo con gli
occhiali, che stava tentando di scavalcare un gruppo di bambini che gli
sbarravano la strada. Avevano disegnato sul pavimento, laddove le pozzanghere lo
consentivano, un complicato gioco con del gesso e occupavano “la terra ferma”,
si disse Jean-Marie.
L’uomo arrivò alla sua
altezza, Jean-Marie spostò la sua borsa a tracolla dalla sedia.
– Grazie – disse l’uomo
sedendosi. – Vuole un po’ del mio panino? Fanno dei panini troppo grandi.
Senza aspettare la risposta,
tese la mano a Jean-Marie guardandolo negli occhi e si affrettò ad aggiungere:
– Mi chiamo Akli e sono in
partenza per Parigi.
Jean-Marie allungò una mano
esitante e disse con un sorriso confuso:
– Piacere. Jean-Marie.
Jean-Marie Ben Arjoun, anch’io torno a Parigi.
– Ah! Lei è un immigrato.
Cosa ha la mamma francese? – chiese Akli.
– No, no i miei genitori
sono entrambi algerini.
Dopo un breve silenzio,
Jean-Marie aggiunse:
– Dice per il nome, vero?
L’ha voluto mio padre, perché per lui faceva parte dell’integrazione, secondo
lui
nostra, e, soprattutto, “mia” nella cultura francese. Lo sa una delle
tante illusioni degli immigrati
– Ma l’arabo lo parli? Ti
dispiace se ti do del tu?
– No, no, affatto. Magari
parlassi arabo! – rispose Jean-Marie.
– Ma cosa te ne fai di
quella lingua: vedi io sono nato qui in questo paese, però, come avrai capito
dal nome, sono berbero, sono andato a scuola qui e mi hanno obbligato ad
imparare l’arabo. Adesso faccio di tutto per dimenticarlo. A casa ho sempre
parlato berbero, a scuola l’arabo, ho sempre pensato in francese e adesso sogno
in svedese, ma non credo affatto che la nostra situazione linguistica sia da
invidiare. A mio figlio
lo sai ho anche un figlio dalla svedese, avevo deciso
di non insegnargli né l’arabo né il berbero, ma dopo dieci anni che veniamo in
questo paese, ha imparato tutte queste lingue e adesso sogna di studiare lingue
orientali, ma dico, sarà mai possibile che uno possa studiare queste lingue che
non servono a niente? Avessimo una memoria illimitata! Io sono del parere che
uno dovrebbe usare la sua memoria per cose utili, eh? dico bene?
– Ma
io non sarei
d’accordo. A me pare di scorgere persino nelle tue parole, diciamo di rabbia,
una grandissima nostalgia per le tue radici, ma mentre tu le conosci queste
radici io invece non ne so niente e perciò sono ancora più disperato di te, non
so se mi capisci: è difficile! io non ho mai parlato arabo, non ho mai saputo
niente del mio paese, però mi sono sempre sentito attratto da questa terra –
disse Jean-Marie.
Akli lo guardava sbigottito,
tenendo stupidamente il suo lungo panino in mano.
– È la prima volta che vengo
qui – aggiunse Jean-Marie.
Questa frase detta con
disinvoltura, tirò fuori Akli dal suo imbarazzo, tanto che cominciò subito a
dare dei morsi nel suo panino. Pane e merguez con salsa piccante.
– Io invece è l’ultima volta
che vengo qui, in questo paese di merda. Ogni anno dico che non tornerò mai
più, e ogni anno ci torno. Però venivo solo per mia madre. Ora è morta,
l’abbiamo seppellita quindici giorni fa. Questa volta è l’ultima. Non tornerò
mai più qui.
– Condoglianze
– disse
Jean-Marie a bassa voce, poi aggiunse:
– Anche tu abiti in Francia?
– No, no, io abito in Svezia
da quindici anni. Come dicevo prima, sono sposato con una svedese. Sì insomma
sono venuto per dire addio a mia madre. È per questo che sono venuto da solo.
Non ho mai capito mia moglie, lei ama follemente questo paese. Io lo odio. Hai
visto che bagni ci sono in questo aeroporto? Hai visto il bar? Farebbero schifo
anche a un maiale! Non hanno neanche i bicchieri. Roba da matti! In un
aeroporto! Ti rendi conto? Lo specchio della nazione. Poi hai visto il banco? È
talmente sporco e appiccicoso che potrebbero usarlo anche come acchiappamosche.
Che roba! Poi peggiora di anno in anno
– Ma in fondo è il nostro
paese, poi quelle cose non sono tutto
– disse timidamente Jean-Marie, che si
sentiva un po’ assalito dalla confidenza di Akli.
– Io non ho paese. Il mio
paese è il mio corpo. Il mio paese è dove sto bene. Sicuramente non questo
merdaio. A te lo posso dire, sei quasi straniero: io odio gli arabi. Quando
c’erano i francesi qui, non c’era mica tutta questa sporcizia, poi abbiamo
avuto l’indipendenza e questi sono i risultati.
– Ma è meglio la libertà,
anche con la sporcizia, che il colonialismo – osò dire con prudenza.
– Frottole. Ideali. Noi
dovevamo stare con l’Europa. Avevamo tutto da guadagnare. Cosa c’entriamo noi
con l’Africa, con i Sovietici, con Cuba? Niente. Poi quale libertà? Un milione
e mezzo di algerini morti per niente e i partigiani sopravvissuti sono stati
trattati così male che si sono subito pentiti di aver fatto la guerra contro i
francesi – disse Akli che sembrò ar-rabbiato sul serio, poi cominciò a dare dei
morsi nel suo panino scuotendo la testa, come travolto da chissà quale
travaglio interiore.
Quando ebbe finito di
mangiare, si voltò verso Jean-Marie e gli disse a bruciapelo:
– E tu, perché sei venuto
qui?
Jean-Marie si schiarì la
voce e mosse il corpo sulla sedia, poi accavallando le gambe guardò Akli nei
cerchi dei suoi occhiali grossi e rispose:
– La mia storia è un po’
lunga. Sono venuto a fare visita, anche se veramente non conosco nessuno in
questo paese. Come le ho
ti ho già detto prima, per me è la prima volta, ma
sicuramente ritornerò qui. Questo paese mi piace moltissimo.
Akli aprì la bocca per
parlare, ma fu interrotto da una voce metallica che annunciava attraverso gli
altoparlanti qualche cosa di incomprensibile.
Akli tese l’orecchio,
mettendosi di sbieco sulla sedia, allungando il collo ma guardando sempre
Jean-Marie accanto a lui. Un vocìo si alzò nella sala prima della fine
dell’annuncio, seguito da un movimento prima lento poi frenetico della folla di
uomini, seguiti da sciami di bambini.
– Hai capito che cosa hanno
detto? – disse Akli e senza aspettare la risposta aggiunse:
– Merda! Mille merde di
merde di paese! Hanno annullato il volo per Parigi, quello di adesso, delle
15.50, il nostro. Non ho mai visto una cosa simile nella mia vita. Ma come
possono annullare un volo dopo aver dato le carte di imbarco? Aspettami qui che
vado a informarmi meglio.
Jean-Marie non rispose
nulla. Pensò di non aver nulla di urgente da fare a Parigi, ma lo preoccupava
il fatto di non aver molti soldi e non saper dove alloggiare fino al prossimo
volo, chissà quando.
Akli se ne andò e
Jean-Marie, sollevato, rimase seduto a guardare la sala d’attesa, dove erano
rimaste soltanto alcune donne avvolte nei loro veli. Dieci mi-nuti dopo poté
leggere sulla faccia dei viaggiatori, che ora tornavano strisciando i piedi,
una profonda rassegnazione, e fu contento di non essersi agitato inutilmente.
Poi vide Akli che arrivava nella sua direzione. Sembravano agitate persino le
pieghe dei suoi pantaloni blu.
– Hanno detto che il
prossimo volo ci sarà soltanto domani. Bisogna conservare la carta di imbarco
perché servirà domani. Lo sai ci sarà un volo supplementare. Speriamo bene.
Perché in questo cesso bisogna conoscere qualcuno persino per salire sugli
aerei. Mi hanno raccontato che ci sono stati non so quali terroristi che hanno
dirottato un aereo, e allora hanno dovuto chiudere gli aeroporti. I soliti
palestinesi. Col cazzo che libereranno la loro terra se ci impediscono di
viaggiare. Ma tu ce l’hai un posto dove andare a dormire, questa notte? Disse
Akli parlando a scatti.
– No. Ci stavo pensando
adesso. Prenderò un taxi e andrò a cercarmi un albergo in città. Rispose
Jean-Marie senza convinzione con un tono molto stanco.
– Se vuoi puoi venire con
me, a casa di mio fratello. Un posto di sicuro c’è, però vado a telefonargli
per essere più sicuro – disse Akli, cercando una cabina telefonica. Appena
localizzata se ne andò senza curarsi di ciò che diceva Jean-Marie.
Questi vedendo Akli
precipitarsi verso il telefono, alzò la mano poi la lasciò cadere sulle
ginocchia. Non sapendo cosa fare, si alzò e rimase in piedi.
Pochi minuti dopo Akli tornò
con un largo sorriso stampato sul volto, andò a prendere la sua valigia dalla
sedia, e disse:
– Abbiamo risolto il
problema. Tu vieni con me: no, non protestare. Un albergo a quest’ora, in
questo paese, non lo troverai mai. Andiamo.
Fuori, il caldo afoso era
soffocante. Nell’aria si sentiva odore di mare. Akli andò verso un taxi, dentro
il quale il tassista, il berretto sugli occhi, lo sportello aperto e i piedi
nudi fuori dalla macchina, sonnecchiava. Akli si porse verso di lui, gli chiese
di portarli in città, ma all’improvviso una lite scoppiò fra i due. Jean-Marie,
senza riuscire a capirne il motivo, vide Akli agitato, prenderlo per il braccio
e trascinarlo verso un altro taxi, dicendo:
– Ma guarda te quel figlio
di puttana!
Salirono su un altro taxi,
giallo, e Akli disse, rivolgendosi all’autista:
– El Biar, per favore.
I sedili erano bollenti.
Jean-Marie non osava appoggiare la schiena. Teneva le mani sul poggiatesta
dell’autista. I tre uomini erano silenziosi e si sentiva soltanto il rumore del
motore diesel. La strada fiancheggiata da una lunga fila di palme sembrava non
voler finire. C’era poco traffico. Dei vapori si alzavano dall’asfalto.
L’orizzonte sembrava liquefatto e incerto. A tratti sembrava a Jean-Marie di
vedere delle chiazze d’acqua sulla strada. Il nero dell’asfalto e l’azzurro
sbiadito del cielo gli stancavano gli occhi. Gli occhiali da sole erano rimasti
nella borsa ma non aveva nessuna voglia di cercarli. Forse per non dare
l’occasione al suo compagno di intavolare un discorso con questo caldo.
Jean-Marie aveva sonno ma non voleva dormire. I capelli neri dell’autista erano
pieni di forfora, che era stata seminata anche sulle spalle. “Indossare una
camicia marrone con questo caldo”, pensò Jean-Marie.
D’un tratto le palme
lasciarono il posto ad una campagna desolata. Si vedevano delle serre scoperte,
oppure con brandelli di plastica attaccati alle assi. Le serre scoperte erano
molto tristi. Ed anche questa campagna. Ma in lontananza si vedeva un’altra
campagna più sorridente, con in mezzo delle case bianche. Poi le serre tristi
lasciarono il posto a dei terreni incolti. La terra era rossa e ricordava a
Jean-Marie i campi da tennis. Poi ancora un po’ di campagna, che lasciò,
infine, il posto al mare sulla destra.
All’improvviso apparve
maestosa la città. Vestita di bianco come una sposa. Aggrappata alle colline e
capeggiata da una costruzione moderna, triangolare, non certo bella, che si
alzava in cielo, in mezzo ad una pineta. Jean-Marie rimase a bocca aperta di
fronte a questa apparizione, gli sembrò di vedere un alone attorno alla città
seduta ad anfiteatro a guardare le onde del mare. L’autista voltò a sinistra e
la città scomparve lasciando il posto ad una desolata periferia. Un immenso
cantiere con dei ponti, delle strade, dei palazzi in costruzione. Jean-Marie si
sentiva profondamente insoddisfatto. Ora si vedevano soltanto delle collinette
rosse che fiancheggiavano la strada a sei corsie. Arbu-sti di rosmarino
piantati sulle collinette profumavano l’aria.
La macchina uscì dalla
strada larga e imboccò delle stradine che serpeggiavano sulle colline. Delle
bellissime case, ora di uno stile moresco, ora coloniale, finirono per
sostituire i melanconici palazzi popolari nuovi.
Poi la città riapparve sotto
la collina. In lontananza il porto sonnecchiava, il mare immobile. Poi
scomparve dietro delle case e dei giardini.
Akli dormiva. Jean-Marie era
in agguato. D’un tratto vide una possente cattedrale che si stagliava
nell’azzurro del mare, e alla sua sinistra, una collina abbastanza alta alla
quale erano aggrappati dei palazzi bianchi e quadrati, delle case che
sembravano minuscole ed una costruzione moderna, della quale aveva visto
fotografie ma non si ricordava se fosse un albergo oppure un palazzo
governativo.
La città scomparve ancora
un’altra volta e la macchina entrò in una pineta con un condominio cilindrico.
All’uscita della pineta, la strada ricominciò a scendere, per risalire e
scendere ancora. Akli si svegliò e disse all’autista qualche cosa facendo cenno
con la mano. L’autista voltò a destra poi a sinistra e si ritrovarono in un
quartiere di villette e di palazzi abbastanza alti, avvolti in un bosco di
oleandri e di bougainvillee. Jean-Marie lesse su un cartello “Cité des
Asphodeles”.
Scesero dal taxi e andarono
a bussare alla porta di una villetta, sul lato opposto della strada. Jean-Marie
si teneva dietro Akli. Una bellissima donna, coi capelli corti, neri e
ondulati. Il viso fine dai tratti regolari, venne ad aprire sporgendo un corpo
molto elegante fuori dalla porta per salutare Jean-Marie, in un bel sorriso che
fece scintillare al sole una fila di denti regolari, candidi, porgendo una
graziosa mano affusolata.
Entrarono nella casa,
attraversando un giardinetto, nascosto dietro l’alta recinzione che chiudeva la
villetta. Poi un’altra porta e si trovarono dentro un corridoio buio e molto
fresco, che conduceva in un ampio soggiorno molto luminoso, arredato con mobili
semplici e di buon gusto.
– Questa è mia cognata
Yasmina, che vuol dire gelsomino – disse Akli ridendo e abbracciando Yasmina.
Poi si volse verso Jean-Marie e aggiunse:
– È l’unica araba alla quale
voglio bene – continuò ridendo: – Yasmina, questo è Jean-Marie. Come vedi siamo
rimasti senza volo.
– Volete bere qualcosa? Vi
preparo un caffè? Avete mangiato? – disse Yasmina con una voce molto gradevole.
– Jean-Marie non vuoi
niente? Neanche un caffè? Devi prendere qualcosa. È un’offesa per un arabo,
entrare a casa sua e non prendere niente. Dài, fai come a casa tua. Forse
preferisci fare il bagno prima? – disse Akli.
– Prenderò un caffè.
Signora, complimenti avete una bellissima casa – disse Jean-Marie.
– Grazie – disse Yasmina,
poi si rivolse verso Akli e aggiunse:
– È molto piacevole ricevere
dei complimenti di tanto in tanto. Qui non li fa nessuno. Non siamo abituati.
Mentre Yasmina parlava,
Jean-Marie sperava che gli regalasse un sorriso come quello che aveva fatto
quando arrivarono. Ma la donna scomparve in cucina, senza sorridere, seguita da
Akli.
Il silenzio del tardo
pomeriggio estivo, era totale nel soggiorno. Jean-Marie, seduto sulla poltrona
si sentiva in pace. Gli sembrava di guardare la serenità di quella casa
materializzarsi sotto i suoi occhi, su quei mobili, su quelle pareti, su quelle
tende. Cercò di annusare l’aria, ma i profumi di quella casa gli erano
totalmente sconosciuti.
Akli ritornò nel soggiorno e
si sedette sul divano. Poi arrivò Yasmina con il caffè fumante. Un vassoio a
fiori, due tazzine, una caffettiera e una zuccheriera di rame, decorata con una
stella dentro una mezza luna.
Appena finito il caffè, un
uomo sui trentacinque anni, capelli castani, occhi chiari, naso aquilino e dal
corpo pesante, entrò nella stanza.
– Ah, ecco mio fratello –
disse Akli alzandosi e abbracciando il fratello.
Jean-Marie si alzò.
– Questo è mio fratello
Brahim. Brahim, questo è Jean-Marie di cui ti ho parlato al telefono. Siamo
ri-masti senza volo! – Akli era tutto eccitato parlando col fratello.
– Piacere – disse Jean-Marie
stringendo la grossa mano di Brahim.
– È la prima volta che
Jean-Marie viene qui. È figlio di immigrati; prima mi ha detto che ha una lunga
storia. Magari ce la racconterà questa sera. Cosa ne dici Jean. Va bene se ti
chiamo Jean? – disse Akli.
– Sei sempre un grande
chiacchierone, eh Akli? – disse Brahim. – Lascia il signor Jean-Marie se vuole
andare a farsi la doccia, è di là, Jean-Marie, di fronte, poi la seconda porta
a sinistra.
Jean-Marie che era ancora in
piedi, si ricordò di aver lasciato la valigia nel corridoio. Si sentiva confuso
da tutte le attenzioni di questa famiglia che in fondo non lo conosceva
neanche. Fu contento di essersi ricordato della valigia, e, rompendo il
silenzio nel quale era piombato, disse:
– Penso di aver lasciato la
valigia nel corridoio. Lì dentro ho l’asciugamano e il sapone
Ma fu interrotto subito da
Yasmina che era entrata in quel momento nel soggiorno:
– No, no l’asciugamano
pulito c’è già nel bagno, e anche il sapone, lo sciampo e tutto ciò che occorre.
Della valigia me ne occupo io, gliela metterò nella sua stanza. Ma non c’è
bisogno di disfarla. Nella stanza ho messo anche un pigiama nuovo. Lo sa, un
pigiama arabo, molto fresco. È taglia unica, le andrà sicuramente bene.
Jean-Marie si scusò e andò
in bagno. Si sentì a disagio mentre chiudeva a chiave la porta del bagno.
Accarezzò i due asciugamani a fiori, appoggiati sulla vasca e si diresse verso
lo specchio. La vista del suo volto gli ricordò la sua stanchezza. I suoi occhi
grigi, di solito luminosi, erano un po’ spenti, le poche rughe del suo viso
allungato molto accentuate. I capelli castani un po’ in disordine.
– Ah ecco il nostro Jean
messo a nuovo! Avevi proprio bisogno di un bagno! Adesso ci vado anch’io! –
esclamò Akli vedendo arrivare Jean-Marie sorridente.
– Venga a sedersi qui vicino
– disse Brahim, accendendo la televisione. Poi aggiunse:
– Qui non è come da voi.
Abbiamo soltanto un canale, da prendere o lasciare, e per giunta siamo invasi
da telenovele egiziane – disse
scoppiando in una risata grassa e sgradevole.
– Uno o più canali a volte è
la stessa cosa, dipende dei programmi – rispose Jean-Marie.
– No, ma dicevo così per
dire. Comunque noi qui abbiamo un solo canale, però tutti hanno l’antenna
parabolica, che i nostri fondamentalisti barbuti chiamano la “paradiabolica” –
disse Brahim sempre ridendo.
Poi rimasero in silenzio. La
televisione trasmetteva, appunto, una telenovela egiziana. Sfilavano immagini
di uomini in lacrime, di donne che supplicavano in ginocchio uomini che non
sorridono mai, e ogni tanto, una specie di psichiatra intento a ipnotizzare
delle donne, facendo dondolare davanti ai loro occhi dei portachiavi ed altri
oggetti dondolanti.
Jean-Marie, guardava la TV
senza capire una parola, ma si divertiva a guardare le immagini che diventavano
progressivamente nitide, man mano che l’oscurità calava piano piano nel
soggiorno. Quando l’ultima luce fissò il quadro della finestra, la stanza
immobile e i suoi mobili acquistarono un colore rossastro, la stanza era
abbracciata da uno splendido chiaroscuro, accentuato dalla danza delle immagini
sull’occhio dell’apparecchio televisivo. Nel momento in cui Jean-Marie strinse
gli occhi per vedere meglio questo gioco di luce e ombra, Yasmina, irruppe
nella stanza, accese la luce e disse:
– Fra un po’ è pronta la
cena. Vado a chiamare Akli. Cosa starà a fare in bagno tutto questo tempo non
lo so.
Le ultime parole le disse
andando via.
Venti minuti dopo, erano
tutti riuniti attorno al tavolo. Jean-Marie si meravigliava dell’abbondanza dei
piatti, sapientemente disposti. Tutto era messo lì: la zuppa, la carne,
l’insalata, il dolce, la frutta; altrettanto erano abbondanti i colori e i
profumi. L’aria della stanza era satura degli odori di cardamomo, cumino,
carvi, pepe e di altre spezie.
Jean-Marie bevve la
profumatissima chorba, assaporò lentamente la tenerissima carne di pollo alle
olive, riprese dell’agnello dolce spruzzato di acqua di fiori d’arancio.
Mangiava in raccoglimento aiutato dal silenzio degli altri.
Gli sembrava di essere in
viaggio, nel viaggio del ritorno a sé. A un certo punto alzò la testa dal
piatto e vide che tutti lo guardavano soddisfatti. Allora interruppe il
silenzio e disse:
– Non ho mai mangiato così
bene in vita mia, sto divorando questi piatti
– poi si confuse di fronte ai
sorrisi ricevuti come risposta alle sue parole.
– Tutta salute – disse
Yasmina – mi fa piacere che apprezzi la nostra cucina.
– C’è solo Akli che non è
soddisfatto di questo paese, ma non credo che la svedese gli faccia da mangiare
così bene – aggiunse Brahim.
– A me questo paese fa
schifo. Jean-Marie è la prima volta che viene qui e capisco benissimo che abbia
fame di sapori piccanti e di profumi che ha senza dubbio sempre desiderato
conoscere. Io invece sono saturo di queste cose, poi ormai mi sono abituato
all’insipidità svedese.
– È vero, io ho sempre
voluto venire qui. Adesso che ci sono devo dire che questo paese, malgrado
tutti i suoi problemi, è semplicemente meraviglioso – disse Jean-Marie.
– Perché non è mai potuto
venire prima? Io conosco tanti immigrati che mandano sempre i loro figli, da
piccoli, ogni anno, a passare le vacanze qui. Prendi un po’ di baklawa, è un
dolce al miele e mandorle – disse Brahim.
– No grazie, sono veramente
pieno. La mia storia è un po’ lunga come ho detto a Akli, ma
– disse
Jean-Marie, poi si voltò verso Yasmina che aveva alzato la mano per attirare la
sua attenzione.
– No la sua storia ce la
racconta quando torno con il caffè. Voglio sentirla anch’io.
– Ma che cosa è questo dare
del lei che avete tutti. Ormai Jean ha mangiato il nostro sale, vi potete dare
del tu, no? Siamo ormai al caffè e non avete ancora abbandonato le formalità? –
disse Akli alzandosi.
– No, Jean-Marie, lascia:
sparecchieremo dopo o domani. Non importa. Vai a sederti – si affrettò a dire
Yasmina vedendo che Jean-Marie si accingeva a pulire e accatastare i piatti.
Andarono a sedersi.
Jean-Marie e Brahim sul divano, Akli sulla poltrona e pochi minuti dopo Yasmina
venne con il caffè, lo servì e prese un pouf di cuoio lavorato, di fattura
marocchina e si mise di fronte agli uomini.
Tutti guardavano Jean-Marie
che si schiarì la voce, prese in mano la tazzina e disse:
– Prima devo ringraziarvi
per tutte le vostre attenzioni. Beh la mia storia non è poi così interessante.
– Ce la racconti lo stesso! –
disse Akli.
Jean-Marie non sapeva dove
cominciare, un’aria di attesa piombò sulla stanza. Aprì la bocca ma non disse
niente, depose la tazzina sul tavolino. Poi sorrise e in tono scherzoso disse:
– Mi chiamo Jean-Marie Ben
Arjoun, questa storia comincia tanti anni fa
Tutti scoppiarono a ridere.
Akli si avvicinò e chiuse il pugno portandolo sotto il mento di Jean-Marie a
guisa di microfono. Risero di nuovo.
Jean-Marie si fece serio e
proseguì:
– No sul serio. La mia
storia è seria. Ecco, non conosco questo paese, perché semplicemente mio padre
me lo ha sempre impedito. Diceva che questo paese non valeva la pena di essere
visto
– Aveva ragione – lo
interruppe Akli.
– No invece non aveva
ragione, non esiste al mon-do paese che non valga la pena vedere. Anche il
paesaggio più monotono ti svela un segreto, può colpirti al cuore. Comunque mio
padre faceva il tassista a Parigi. Io non so se è vero che ognuno si sceglie il
proprio mestiere in base alle proprie paure, nel senso che il medico, per
esempio, ha paura delle malattie, lo psicologo della pazzia e così via, so di
certo che mio padre era contentissimo del suo mestiere. Girare in lungo e in
largo la città gli dava la convinzione di essere perfettamente integrato. Si
vantava sempre dicendo: “I diecimila ettari di Parigi sono il mio regno”. E non
voleva assolutamente che io frequentassi figli di immigrati. Diceva sempre che
aveva paura per me. Mi ricordo, una volta ho invitato una ragazza, che avevo
conosciuto sul treno, era più bionda di una finlandese. Ma lui appena l’ha
vista ha capito che non era francese. È andato su tutte le furie, ha fatto una
terribile scenata. Come avrà fatto a sapere che era d’origine libanese, non me
lo sono mai spiegato. Comunque da quel giorno l’ho odiato.
– Ma tua madre che cosa diceva?
– chiese Yasmina.
– Mia madre era di una bontà
straordinaria. Forse tutti i figli giustificano così le madri deboli, o forse
mi sono convinto di questo, perché volevo scappare di casa dopo quel fatto, ma
la bontà di mia madre me l’ha sempre impedito. Almeno ho sempre pensato così.
In altre parole mia madre non aveva nessuna volontà di fronte a mio padre. Gli
obbediva e basta. Senza dubbio, non si era mai posta domande. In fondo è una
donna semplice.
– Adesso non voglio
annoiarvi con la mia storia, e non sto a raccontarvi tutti i dettagli. Sarebbe
troppo lungo. Un giorno mio padre ebbe un ictus, ma in un momento di lucidità,
poco prima della morte, ci riunì, chiese perdono a tutti per non so quali colpe
e chiese, con molto calore, di essere sepolto nel suo villaggio natale: “Non
voglio essere sepolto nel paese degli altri”. Queste furono fra le sue ultime
parole. Il suo villaggio è nelle vicinanze di Ghardaia, ho dovuto prendere
tutti mezzi di trasporto, mulo e cammello compresi, per arrivarci.
– Akli mi diceva
all’aeroporto che il suo paese è il suo corpo. Mi dispiace ma non ci credo.
Ognuno di noi è legato a qualche cosa: un’immagine, un ricordo, un sapore
dell’infanzia o dell’infanzia dei suoi genitori. I paesaggi di questo paese mi
sembrano familiari, certi paesaggi che vedo per la prima volta sono così nitidi
nella mia memoria, che non mi spiego il fatto. Forse è il presente che diventa
per me passato all’istante, perché ho bisogno di inventarmi una storia, delle
radici. Non lo so. Fatto sta che mi sono innamorato dello squallore e della
tristezza di quel villaggio, con le sue case di terra, la sua nudità, le sue
piste sonnolente sotto il sole, i suoi sudici bambini con le candele al naso, i
suoi ciuffi d’erba secca in mezzo ai sassi, i passi furtivi delle donne. Poi
oggi, la vostra ospitalità. Tante cose. Qualcosa, scusate la citazione, mi ha
colpito il cuore e mi ha sconvolto la mente. Che cos’è tutto questo? una
reazione a mio padre? È probabile. Ma ormai è morto che cosa conta il suo
divieto? Il destino? Non sono fatalista. Ho bevuto a sazietà alla sorgente
cartesiana per esserlo. Mi ci vorrà forse un po’ di tempo e molta distanza per
poterlo capire. In tutto questo groviglio ho capito una cosa sola: adesso torno
a Parigi, sistemo le mie cose e poi vengo a stabilirmi definitivamente qui.
Solo allora, sono certo, potrò capire.