Parole di esodi eterni: per conoscere e capire

Percorsi di esistenze segnate da esodi, dall’ab-bandono forzato delle
famiglie, dall’impatto con paesi stranieri dove le speranze soffocano nelle
delusioni, nella nostalgia, nella disperata ricerca di uno spazio in cui
sentirsi individuo, diritto fondamentale dell’uomo.

La bella poesia di Gezim Hajdari, poeta albanese premiato anni fa dal
concorso Eks&Tra, oggi uno dei massimi poeti in Italia, riassume con
straordinaria efficacia, in pochi versi, il senso di frustrazione che spesso
ac-compagna la vita dell’immigrato: “Piove sempre / in questo / paese /
forse perché / sono straniero.”

Non c’è ascolto per lo straniero nell’ “altro”, chiuso nel suo mondo di
precarie certezze, di immotivate paure con cui ha segnato interiori confini. È
compito anche della letteratura, e soprattutto della letteratura di
immigrazione, contribuire a cancellare i confini, portando alla conoscenza.

Dovrebbero crescere, anche nelle scuole, dove sempre più numerosi sono
i figli degli im-migrati, le iniziative che possano contribuire alla scoperta
di culture diverse, scoperta che è arricchimento, stimolo di riflessione.

Sempre più numerosi sono i racconti e le poesie degli immigrati, che
scrivono non sol-tanto delle loro esperienze nei paesi in cui giungono, ma
storie di luoghi e tradizioni a noi sconosciute, racconti fantasiosi che
trag-gono spunto, comunque, da un vissuto sofferto.

“Il telefono del quartiere” di Gabriella Ghermandi, nata ad Addis
Abeba,  è un rac-conto che pare dipinto
nell’aria di una città africana. La scrittura della Ghermandi rende visibili i
colori, l’atmosfera, la luce. I perso-naggi, legati dalla comune attesa di una
“voce”, nell’unica casa in cui c’è il telefono, si muovono al ritmo di una
“fantasia” afri-cana. Con la stessa efficacia si dissolve, at-traverso le
parole, giorno per giorno, l’estra-neamento dell’immigrato al proprio paese
dopo tanti anni di permanenza nei luoghi dove ha dovuto emigrare. Il senso profondo
di appartenenza non è mai scomparso.

“L’uomo non ritorna mai nel grembo di sua madre ma ritorna ben
volentieri nel grembo natale”: ricordo questo proverbio africano, trascritto in
un bel racconto di Kossi Komla-Ebri, scrittore del Togo premiato dal concorso
Eks&Tra.

La mia personale esperienza di scrittrice italo-eritrea, poiché tale mi
considero, mi rende più partecipe al sentimento che può legare un immigrato sia
alla terra d’origine che a quella di accoglienza. Ma il mio pensiero, quando
torno nella mia luminosa città, dalla gente che sento anche mia è: “Sono
tornata a casa.”

È un richiamo forte in cui emerge, anche, la partecipazione e la
solidarietà per paesi di guerre dimenticate, di carestie, di siccità, di
pulizie etniche, dove spesso il restare è impossibile e l’andarsene
estremamente dolo-roso. Paesi lasciati, dal mondo, alla loro sorte.

“Naufragio”, altro racconto di intensa suggestione, si riallaccia al
mito dell’esodo eterno. Nulla è cambiato da quando Enea lasciò Troia in fiamme
fuggendo con il padre e il figlio. Enea che approda nella terra straniera è il
naufrago d’oggi fuggito da impossibili sopravvivenze.

Tutti i racconti e le poesie andrebbero citati. Insieme formano un
grande mosaico, una carta dei mondi ignorati, lontani e vicini. Vicini a noi
ogni giorno, nello sguardo di un bambino fermo al semaforo, della prostituta
smarrita nell’inganno e nella disperazione, di un giovane che pensava a un
lavoro decoroso e finisce prigioniero di minacce e ricatti nei commerci di
droga. O di chi ce l’ha fatta, con molta fatica, e ripercorre le tappe di un
lungo cammino, partendo dai luoghi dell’infanzia dove i vecchi tessono,
attraverso i proverbi, i canti, le gesta dei padri, le tante storie
dell’umanità.

 

 

 

 

 

 


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