Ospitalità italiana e letteratura immigrata

 

I frammenti di una
nuova cultura cominciano a manifestarsi. Si cerca. Si improvvisa. Si
sperimenta. L’importante, è farsi sentire, anche se poche persone tendono
l’orecchio. Bisognerà aspettare diversi anni per sapere se assistiamo
all’emergere di una cultura o al prodursi di espressioni frettolose molteplici
e disordinate, testimonianze di un male di vivere, perfino di un’impossibilità
di vivere in condizioni di rifiuto o di oblio.
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Così Tahar Ben Jelloun
descrive nel suo libro dal titolo Hospitalité française, pubblicato nel
1984, la nascita di una letteratura che narra la Storia e le storie degli
immigrati in Francia. Gli anni seguenti alla pubblicazione del testo di Ben
Jelloun hanno visto il proliferare in Francia di testi scritti da immigrati che
raccontano i loro conflitti e problemi filtrandoli attraverso gli occhi di
diverse generazioni. La stessa situazione, presente in Francia all’inizio degli
anni ottanta, si riscontra dieci anni più tardi in Italia. Scrittori come
Oreste Pivetta e Mario Fortunato si sono infatti chiesti quali saranno gli
sviluppi di una letteratura degli immigrati in Italia dopo le prime
pubblicazioni di testimonianze autobiografiche all’inizio degli anni ’90. In un
suo recente articolo, Pivetta sottolinea che la sua collaborazione con Pap
Khouma alla scrittura di Io, venditore di elefanti (1990),  gli era parsa come una storia isolata,
un’esperienza di clandestinità di un immigrato. Infatti, Pivetta scrive:

Quando raccontavo con Pap Khouma la sua
storia di venditore senegalese in Italia, nei tempi della clandestinità,
credevo che la vicenda si sarebbe presto esaurita, che la legge Martelli
potesse sistemare tutto, che il nostro libro sarebbe stato dimenticato.
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Lungi dall’essere
un’esperienza isolata, il libro sulla 
migrazione di un Senegalese tra Dakar, Costa D’Avorio, Francia ed
Italia  è stata solo una delle tante
testimonianze date alla stampa e che hanno portato alla luce il complicato
mondo dei movimenti migratori, che le recenti leggi sembrano incapaci di
regolare equamente.

Io,venditore di elefanti fa parte di quella che
potremmo chiamare una prima fase della letteratura di immigrazione scritta in
italiano. Gli iniziali frammenti autobiografici emergono come testimonianze,
descrivono vicende individuali che presentano le differenze e molteplicità di
identità all’interno della “massa” di immigrati. La storia di Pap Khouma, ma
anche quelle raccontate, e spesso scritte a quattro mani in collaborazione con
uno scrittore o giornalista italiano, da Saidou Moussa Ba, da Salah Methnani,
da Mohamed Bouchane, da Nassera Chohra, da Maria Viarengo, Mohsen Melliti ed
altri offrono al lettore italiano rappresentazioni di diverse identità di
immigrati, che trasgrediscono alle generalizzazioni ed essenzializzazioni che
li hanno spesso demonizzati. Questa prima fase, testimonia “il male di vivere”,
come dice Jelloun, l’ “impossibilità  di
vivere in condizioni di rifiuto e di oblio”. Inoltre emerge in questi testi
un’ibrida rappresentazione del passato e del presente, che raccoglie parte
delle tradizioni della cultura di origine e le fa coesistere con quelle
italiane.

Nel caso di La promessa di
Hamadi
(1991), scritto da Saidou Moussa Ba e Alessandro Micheletti, il
romanzo viene introdotto da un canto che vuole tradurre e presentare in
italiano la tradizione orale senegalese dei Griot.

Immigrato (1990), di Salah Methnani e
Mario Fortunato, descrive la complessità della vita di chi giunge in Italia
pensando di trarre vantaggio dalla propria formazione culturale, da una laurea
in lingue che gli permette di esprimersi correttamente in italiano, ma viene
ricacciato nella generica condizione di immigrato, una nazionalità vera e
propria che funge da comoda etichetta di discriminazione.

Descrivere e dare un nome a
questa prima espressione dell’esperienza di migrazione è un atto problematico e
limitante, ma si vuole, in questo caso, sottolineare l’importanza di queste
prime voci che hanno creato precedenti ed un sentiero ripercorribile per altre
narrazioni di alterità. Mario Furtunato ha recentemente affermato che le storie
narrate dagli immigrati sono:

 

esperienze pre-letterarie che hanno valore sociologico.
Sono messaggi in bottiglia, che arrivano da una realtà underground ancora in
formazione. Ci vorranno altre generazioni, un’assimilazione della lingua, dei
suoi stilemi narrativi, più profonda. E da qui forse avremo sorprese
importanti, perché non è escluso che l’italiano, aprendosi a delle nuove
elaborazioni, risulti più ricco, più eccentrico. O più povero.
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Vi è un tipo di approccio alla
letteratura che la vede come parte integrante di studi culturali che
abbracciano letteratura, arte, politica, musica e studi sociali. In tale
contesto si possono felicemente collocare i testi degli immigrati, che sono
interessanti proprio per il valore innovativo al di là di limitati discorsi di
estetica, poiché tracciano un importante legame tra varie categorie culturali
ed offrono un ritratto eloquente dell’Italia contemporanea. Recentemente,
alcuni degli scrittori immigrati hanno anche incominciato a scrivere
indipendentemente da rapporti di collaborazione con esperti linguistici. A
questo sviluppo della letteratura immigrata ha contribuito anche il concorso
letterario Eks&Tra la cui prima edizione è avvenuta nel 1995. Tra i testi
presentati emerge la tendenza da parte degli autori di abbandonare un
autobiografismo diretto e di ventriloquizzare la propria voce, parlando in
prima persona, ma vestendo i panni di altri immigrati. Tahar Lamri, il
vincitore della sezione prosa, narra la storia di un uomo nato in Francia da
genitori algerini, che ritorna in Algeria, nel paese che ha dato i natali alla
sua famiglia, ma che lui non ha mai conosciuto. Questo racconto tratta dei
problemi che riguardano una seconda generazione di immigrati, che in Italia non
ha ancora voce, ma che ha scritto la propria storia in paesi come la Francia.
Questa storia di un beur, cioè di un figlio di immigrati algerini in
Francia, scritta in italiano, collega le vicende migratorie che caratterizzano
l’Italia di questi anni ad un discorso europeo e collega, insieme ad altri
racconti e romanzi, anche la letteratura degli immigrati scritta in italiano
alle tradizioni già esistenti all’estero.

Non si tratta quindi di
ipotizzare un possibile “impoverimento” della lingua o letteratura italiana, ma
piuttosto di ipotizzare la riscrittura delle relazioni tra quella italiana ed
altre letterature europee, da cui giungono anche i modelli letterari a cui si
ispirano gli immigrati che scrivono. Per esempio, Pap Khouma racconta di
essersi in parte ispirato al libro in tedesco dal titolo Ganz Unten
(tradotto in italiano con il titolo Faccia da turco). Questo libro è
stato scritto da un giornalista tedesco, Gunther Walraff, che travestitosi da
turco aveva passato un lungo periodo nella comunità turca. Pap Khouma scrive la
sua esperienza di senegalese in Italia ispirandosi al racconto di uno scrittore
tedesco. Walraff ha finto di essere turco per poi scrivere la sua esperienza in
tedesco, la quale viene letta da Khouma in traduzione italiana o francese per
poi scrivere in italiano la propria storia. L’esempio dell’incrocio di diversi
modelli narrativi e influenze culturali rappresentato da Pap Khouma ha
raggiunto un successo commerciale notevole che rivela un interesse da parte del
pubblico italiano per “le storie degli altri”.

Nel suo libro intitolato Pantanella,
Canto lungo la strada
(1992), Mohsen Melliti ha presentato una coralità di
testimonianze di immigrati da diversi paesi, ospitati e poi espulsi da quella
città dentro la città, che era la fabbrica di pasta abbandonata della
Pantanella a Roma. Melliti racconta la propria storia solo indirettamente,
attraverso le voci di altri immigrati. Lo ha fatto anche in un suo romanzo
molto recente, I bambini delle rose (1995), che narra la storia di due
giovani venditori di rose, una cinese e l’altro Rom, per le strade di Roma.

Nell’antologia Le voci
dell’arcobaleno
(1995), anche Cristiana de Caldas Brito, Paul Bakolo
Ngoi,  Mohamad Khalaf, e Yousef Wakkas
raccontano sé stessi attraverso le storie di altri. Nel suo “L’immigrata”, Paul
Bakolo Ngoi descrive la vita di una donna immigrata in Italia; Mohamad Khalaf,
iracheno, costruisce il suo racconto intorno alla figura ed alle vicende di
Mamadou Bamba, venditore ambulante nero, e Yousef Wakkas, siriano, inizia il
suo racconto epistolare con una lettera inviata dalla Nigeria, in cui narra le
vicende tragiche di un uomo, emigrato in Italia da dove viene espulso per reati
che non ha commesso, ma che figurano a suo carico perché in possesso di un
passaporto falso, acquistato nel tentativo di rimanere in Italia. Parlare del
racconto di Christiana Caldas Brito dal titolo “Ana de Jesus” vuol dire anche
aprire una parentesi sulle voci femminili che sono comparse nel panorama della
letteratura immigrata in Italia. Le storie e la Storia delle donne immigrate in
Italia emergono più lentamente rispetto a quelle maschili come quasi sempre avviene
nelle storie letterarie ed è avvenuto in quella italiana.

Volevo diventare bianca (1993) di Nassera Chohra, Andiamo
a Spasso
(1990) di Maria Viarengo, Lontano da Mogadiscio (1994) di
Shirin Ramzanali Fazel, Con il vento nei capelli (1993) di Salwa Salem
sono scritti da donne che o hanno avuto una esperienza privilegiata di
migrazione oppure vivono in Italia da molto tempo. Bisognerebbe discutere di
questioni di genere all’interno sia delle culture occidentali che
non-occidentali, dei livelli di educazione delle donne immigrate e spesso del
loro isolamento in ambiti domestici, per analizzare in dettaglio le ragioni di
questo ritardo nell’emergere di testimonianze femminili. Il concorso
Eks&Tra spera anche di facilitare la presenza di tali voci, dato che
richiede frammenti narrativi e non il lavoro più complesso della  creazione di un intero romanzo. Infatti,
Vida Bardiyaz, Inés Ventura, e Venecia de Oleo Pineda  sono presenti con poesie ne Le voci dell’arcobaleno,
insieme ai racconti di Christiana de Caldas Brito, di Aura Pieleanu
Paraschivescu, e di Rosete de Sá.

“Ana de Jesus” è il monologo
di una collaboratrice domestica brasiliana in Italia. Non è un racconto
autobiografico, dato che l’autrice non ha avuto tale esperienza; è lo specchio
di un mondo femminile visto dall’esterno, ma la cui cultura di origine è ben
conosciuta dalla scrittrice, anch’essa brasiliana. La storia di Ana de Jesus
abilmente introduce il linguaggio ibrido creato dall’incrociarsi delle trame
grammaticali del portoghese e di un italiano parzialmente acquisito. È una
grammatica trasgressiva, che introduce la “grammatica” dell’emigrazione e del
silenzio, quello che riempie gli spazi domestici della solitudine di Ana.

La trasgressione linguistica e
le innovazioni dei ritmi e temi narrativi di un’altro scrittore, Yousef Wakkas,
sono stati sottolineati da Armando Gnisci, uno dei membri della giuria del
premio. Vincitore del primo premio per la prosa nella seconda edizione del
concorso Eks&Tra, Wakkas traccia in “Una favola a staffetta” varie storie
che si intrecciano e raccontano di ripetute migrazioni espresse in brani
narrativi diversi, appunto a staffetta. Si conclude con una migrazione a
rovescio, un ritorno “a casa”, che ibridizza gli usi e i gusti della patria
visti in tono ironico:

 

Non si sa con certezza se visse felice e contento,
ma la gente del reame, da quel giorno, bada a non appassire il soffritto più
del previsto e a unire il mazzetto di basilico e lo spicchio di aglio quando i
pomodori cominciano a disfarsi, proprio come è descritto nella ricetta che
Rakan aveva spedito a              Shehrezad
…

 

Quelle concrete tradizioni
riportate in patria, quei pomodori, rappresentano una schiavitù del lavoro
nella campagne del sud dell’Italia e diventano, riportate nella terra di
origine, simboli tangibili della memoria e tradizione di migrazione.

I brani in prosa raccolti in
questa antologia, Mosaici d’inchiostro (Fara Editore, 1996),
rappresentano una recentissima produzione letteraria degli immigrati in Italia.
Emerge tra i pezzi premiati e non, non tanto il tema del razzismo e degli
scontri aperti con gli italiani, ma piuttosto una doppia solitudine. È una
solitudine cercata, come nel caso di “La solitudine” di Mohamad Khalaf, e non
solo una solitudine subita, da emarginato. Questa ricerca di un esilio dentro
l’esilio è un tema ricorrente in altre letterature, come per esempio quella
afroamericana, e racconta il desiderio di individuare uno spazio sicuro,
lontano dagli sguardi, dalle domande e dai giudizi  sulla propria diversità. Il racconto di Anty Grah intitolato
“Cronaca di un’amicizia”, secondo premiato in questa edizione del concorso
letterario, narra di un’amicizia femminile tra due continenti, Africa ed
Europa. La solitudine francese di una donna della Costa d’Avorio è vista
attraverso gli occhi di un’altra donna più giovane, che guarda all’amica come a
un modello da seguire, per poi scoprire le esperienze di quest’ultima nel mondo
della prostituzione, il modo più veloce per procurarsi quei soldi che
pagheranno più tardi la scuola di legge. La narrazione di Anty Grah crea il
complesso profilo del mondo dell’emigrazione femminile e cerca di sfatare le
facili riduzioni in ruoli stereotipati per le donne che si spostano dal
continente africano all’Europa. La conclusione della vicenda della protagonista,
Aïta, ne è la dimostrazione, dato che Aïta riesce a mutare la propria sorte
ritornando al paese d’origine, e a ridefinire la propria identità, dopo aver
acquisito la desiderata laurea in legge.

È il ritorno, infatti, che
sempre più compare come tema nella letteratura 
dell’immigrazione: è presentato a volte come difficile, a causa di una
mitizzazione di ciò che si è lasciato alle spalle, e del mancato raggiungimento
degli scopi che ci si era prefissi una volta in Italia, come nel racconto “La crociera”
di Amor Dekhis. In questo caso, i problemi burocratici nell’ottenere il
passaggio in nave per l’Algeria sembrano indicare difficoltà non soltanto
legate a ragioni pratiche: è l’impossibilità a ritornare ad un’identità
separata dall’esperienza della migrazione, è la comprensione della propria
distanza e diversità sia da un passato in una cultura e tradizione ora
geograficamente lontane, che da un presente in una terra a cui si può
appartenere solo parzialmente. Abitare uno spazio “Tra” mondi, tradizioni,
lingue, culture è il tema al centro della letteratura migrante e quindi parte
anche del titolo di questo concorso che la vuole rendere visibile.

Lo spazio d’ombra tra mondi ed
identità diverse emerge nella poesia di Gezim Hajdari, poeta già affermato
nella sua lingua d’origine, l’albanese, che aveva già nella precedente edizione
del premio letterario, ermeticamente espresso in poesia la propria storia di
migrazione:

 

                   Piove sempre

                   in questo

                   paese

                   forse perché sono

                   straniero.

 

Vincitore del primo premio per
la poesia nel concorso di quest’anno, Hajdari costruisce l’immagine dell’Ombra
come alter ego, che diventa la personificazione dell’alterità in un
paese non proprio, soffocata in un silenzio eloquente. Questo silenzio, invece,
diventa per Mohamad Khalaf lo spazio della memoria che non si può cancellare. I
ricordi diventano però un monologo intimo circondati dall’oblio, come esprime
il titolo della sua poesia: “Dal silenzio all’oblio”, i cui temi ci riportano
alla citazione iniziale di Tahar Ben Jelloun che ha aperto questa mia breve
introduzione.

Le poesie di Gladys Basagoitia
Dazza rappresentano l’esperienza della scrittrice con un tocco di ironia. I
suoi ritratti autobiografici raccontano la pluralità delle identità da lei
acquisite come donna e come immigrata, che sente profondamente la separazione
irreparabile con chi è rimasto nel Perù da lei lasciato tempo fa. Clementina
Sandra Ammendola racconta la propria esperienza, soprattutto per creare un atto
di resistenza contro quelle teorie e dibattiti creati dall’alto sugli immigrati
e la loro esperienza. La sua richiesta in “Per fare teoria” è di lasciare che i
frammenti della Storia e delle storie di immigrazione provengano da chi le ha
vissute.

I limiti dei processi di
teorizzazione, cioè spesso del guardare dall’esterno le esperienze di
migrazione ed esilio, appaiono evidenti nei brevi segmenti narrativi di
Jadranka Hodzic, le cui storie hanno ricevuto un premio speciale. Dolorosamente
autobiografiche, le sue pagine narrano dell’ impossibilità del ritorno, della
tragedia dell’esule che non appartiene a nessun luogo e a nessuna lingua, ma
solo a qualche pezzo di carta ufficiale; della colpa di chi se n’è andato
lasciandosi alle spalle la violenza quotidiana, ma allo stesso tempo
portandosela dietro come dramma interno, irriducibile, che a volte, come nel
caso di Jadranka Hodzic, porta al suicidio. Di questa impossibile congiunzione
tra memoria, violenza, ed un futuro tra estranei che non hanno condiviso la sua
personale e drammatica esperienza, eloquentemente ci parla la scrittrice anche
nel suo secondo brano in cui è l’atto di sopravvivere, che viene descritto come
impossibile, poiché anche se la guerra, la violenza e la sopraffazione non
hanno coinvolto un “territorio globale”, 
hanno però segnato un “tempo globale”, da cui la fuga è impossibile.

La dura realtà
dell’immigrazione e dell’esilio emerge quindi da queste testimonianze che
documentano  la creatività, la storia, e
le condizioni di vita degli immigrati. Lo spazio letterario così creato è
un’entità ibrida che invita all’analisi da parte di critici letterari, di
storici e esperti sociali, ma soprattutto del mondo politico.  In un suo recente articolo, anche il vescovo
di Caserta, Raffaele Nogaro, sottolinea la necessità di creare una realtà
diversa  per gli immigrati, poiché “la
recente sanatoria, disastrosa sotto il profilo legale, ha procurato soltanto
intimidazioni e ricatti ed ha peggiorato la situazione del fenomeno
migratorio.”4

Ci ricorda anche dei naufragi,
delle morti per annegamento nel raggiungere l’Italia con mezzi di fortuna,
della morte di Ismaila Diallò, ucciso dal suo datore di lavoro, dell’incendio
doloso del ghetto di Villa Literno, e di chi ha tratto vantaggio dalla miseria
degli altri. Da un lato Raffaele Nogaro chiede al nuovo governo una legge equa
ed “organica sull’ immigrazione” nel rispetto dei diritti umani, dall’ altro
Jadranka Hodzic e Clementina Sandra Ammendola ci invitano a porre domande
costanti su come si parla di migrazione e a ridefinire il ruolo di osservatore,
incluso quello di chi è coinvolto in questo progetto di premio letterario; un
premio che ha come scopo quello di cedere la parola e lasciar raccontare, per
poi aprire il dibattito sulla memoria dell’immigrazione al pubblico di lettori
di questa inevitabilmente limitata raccolta di molte Storie.

 

1  Tahar Ben
Jelloun, Ospitalità francese, Roma­-Napoli: Theoria, 1992, 100.

2  Oreste
Pivetta, “Multiculturalismo, voci di razza”, 
Effe, primavera 1996, n. 2, 8-11.

3  Questa
affermazione di Mario Fortunato è contenuta in Adriana Polveroni, “L’immigrato
racconta in italiano”, L’Unità, 26 aprile, 1995.

4  Raffaele
Nogaro, “Barbarie”, Il manifesto, 27 aprile 1996, 1.

 

* Assistant professor – French and Italian Department,
Dartmouth College USA. Ha scritto articoli su donne scrittrici, letteratura e
migrazione. Ha pubblicato il libro: Public history, private stories: italian
women’s autobiography
 (1996).

Editore speciale di un numero di Italian studies in
Southern Africa
 (vol. 8 n. 2,
1995), dedicato a “Margin at the Centre: African Italian Voices”.

 

 

 

 


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