Mamadou Bamba

 

A passi affaticati si
dirigeva, come ogni pomeriggio da molti mesi, verso il solito bar, quello “Da
Graziella”, per rilassarsi un poco. Ma a Mamadou Bamba, che passava tutta la
sua giornata girando e rigirando per le stradine della città in una caccia
spietata, se così si può dire, al cliente spesso distratto o indifferente
all’offerta, ci sarebbero volute almeno tre ore di riposo: magari una bella
doccia per togliersi di dosso il sudore della stanchezza, i pensieri grigi
accumulati da anni e poi il fardello, sempre più pesante, di sentirsi non solo
diverso ma anche un piacevole “oggetto” da osservare: sì, da osservare più che
da ammirare.

Qualcuno (o qualcuna) non
esitava a volte, pure per una semplice curiosità, a toccare il venditore
Mamadou Bamba. Toccavano il dorso della sua mano, i suoi capelli corti e crespi
e le sue piccole orecchie. C’era perfino chi tentava di carezzare, ma solo con
un gesto rapido e incerto, la sua guancia.

Al bar, Bamba non voleva
perdere neanche un minuto di tempo. Anche se non aveva un orario fisso di
lavoro né un padrone rompiscatole a cui dover giustificare ogni ritardo. Le tre
figlie del titolare del bar, tutte insieme, a colpi di scherzi e di battute
ironiche, lo tormentarono per più di mezz’ora.

Volevano sapere ogni
aspetto, ogni particolare della sua vita da quando era nato fino al suo arrivo
in Italia. E così, dalle domande nascevano altre domande. Poiché quando si
tratta di uno straniero la gente dimostra sempre di avere un’insaziabile e
particolare curiosità.

Grazie però al suo nome così
infantile e fiabesco, Mamadou Bamba, detto anche Bambola, era divenuto agli
occhi delle ragazze ancora più simpatico della sua scura ed allegra faccia.
Egli non si stancava mai, né di ascoltare le stesse frasi, ogni giorno ripetute
in modo diverso, né tantomeno di ridere mostrando, come desideravano sempre gli
altri, i suoi denti candidi e regolari.

Quando entrava nel bar
posava i suoi prodotti, come gli piaceva chiamarli, sotto un tavolino,
ordinando quasi sottovoce una birra. Voleva liberarsi, e per lui questo era
quasi un sogno, da tutti gli oggetti per lo più inutili che ornavano
involontariamente il suo corpo: collane, accendini, cassette e portachiavi.
Voleva camminare senza tutta quella robaccia, sorridere alle ragazze, non per
“costringerle” a comprare qualcosa da lui o a dargli le solite mille lire, come
accadeva spesso, ma per ricevere da loro un diverso e sincero sorriso. Non uno
di quelli che otteneva a valanga ogni giorno.

Tutti quei sorrisi, in
sostanza, gli sembravano uguali: di pietà! E lui, senza averlo svelato quasi a
nessuno, odiava profondamente quella gratuita pietà.

Di tanto in tanto Graziella,
la cassiera, la più vecchia delle tre sorelle, usciva da dietro il banco per
dare un’occhiata a quegli oggetti strani che Mamadou Bamba vendeva. Le sue mani
frugavano instancabilmente nello zainetto dell’africano. Graziella lo faceva
spinta – così almeno immaginava Bamba – da una sorta di confidenza. Anche i
suoi occhi, pure sempre stanchi di battere scontrini e di preparare conti, non
cessavano mai di ammirare la bocca carnosa, come un frutto, del senegalese.

Mamadou Bamba sapeva ed era
in fondo quasi convinto che nemmeno Iddio, che ha creato così facilmenle i
sette cieli, era in grado di abbattere i vari muri tra lui e le altre Grazielle
di quella città. Sapeva inoltre che la maggior parte della gente da lui non
desiderava proprio nulla, tranne che divertirsi e passare il tempo con uno che
masticava ed allungava le parole usando spesso gesti incomprensibili. In
compenso gli veniva offerta ogni tanto una birra.

Comunque gli toccava,
spesso, di essere trascinato nella conversazione non solo dalle tre sorelle, ma
anche da questo o da quel cliente, che non perdeva mai l’occasione di
raccontargli con enorme retorica i fatti politici del giorno e dimostrargli di
conoscere quasi tutto sulle donne, sul totocalcio e sui vini.

Manifestava il suo disagio
smettendo di ridere, guardando con ansia solamente la strada e i passanti.
Questo, per gli altri, per chi aveva un minimo di sensibilità, avrebbe dovuto
significare il dovere di ritirarsi. Ma non accadeva sempre così. Per esempio,
le tre ragazze, con un pizzico di aggressività, ma anche di ironia, non lo
mollavano fino a che i suoi occhi cominciavano a lampeggiare di tristezza.
Usciva dal bar quasi scappando. Ma appena fuori dimenticava.

 

Mamadou Bamba sapeva volare,
perché aveva un cuore alato. Ma ogni cielo, appena lui batteva le ali, gli
sembrava sbarrato di nebbia gelida e di buio fitto. Non aveva perciò neppure il
coraggio, e neanche il tempo sufficiente, di sognare una Graziella, una
qualsiasi. Tutte quelle donne che incontrava quotidianamente e che avevano la
bocca disegnata a forma di rosa o di grappolo d’uva gli parevano come astri
inafferrabili, vaganti in un lontano e proibito universo.

Eppure erano, come lui,
esseri umani di carne ed ossa.

Entrando nel bar, un giorno,
venne sorpreso dal clima festoso e soprattutto dall’insolita e un po’ esagerata
eleganza con cui Graziella si era presentata al lavoro.

Timido, come quasi tutti gli
stranieri, Bamba non poté fare altro che stare zitto aspettando che fosse
qualcun altro a fornirgli l’occasione di parlare.

Incominciò intanto a
distribuire sorrisi, quasi contagiato dalla felicità degli altri e nello stesso
tempo mostrando i suoi bei denti, cosa che faceva piacere a tutti. Si diresse
poi a passi lenti verso un tavolino in un angolo, sempre lo stesso di ogni
pomeriggio, e si sedette senza che i suoi sguardi abbandonassero Graziella che
si muoveva in mezzo agli astanti come una regina.

– Oggi è il mio compleanno,
sai?

– È il tuo…

Mamadou Bamba non finì la
sua frase. Graziella lo interruppe subito:

– A pranzo abbiamo
festeggiato. Ho messo via anche per te una fetta di torta.

E di corsa aprì il frigo,
che era a portata di mano, e tirò fuori una bella torta. Bamba, per un istante,
smise di sorridere cercando di formulare mentalmente una frase di augurio per
Graziella che, chinando un po’ il capo, posò davanti a lui anche un bicchiere di
spumante.

– Grazie – mormorò.

Era emozionato! In quella
nobile ed unica parola Bamba aveva versato tutti i suoi sentimenti e tutta la
sua gratitudine. Sorseggiando lo spumante pensava a un’infinità di cose. Quante
cose belle avrebbe potuto vedere se la sua vita avesse percorso un’altra rotta!

Gli venne offerto, ma lui
non si ricordava più da chi, un secondo spumante e poi un terzo.

Bamba, con gli occhi
sorridenti più della bocca, cercò di offrire con un po’ di galanteria qualcosa
a Graziella. Sparse sul tavolino tutto il contenuto della sua borsa e,
alzandosi in piedi, le disse:

– Graziella, ti regalo una
dozzina di accendini, va bene?

– Accendini! – commentò un
cliente ad alta voce, e aggiunse:

– … ma se Graziella non ha
mai fumato in vita sua.

A un tratto, Bamba credette
di avere individuato tra le merci un oggetto 
adatto alla padrona di un bar. Alzò all’altezza del  viso una cassetta ancora chiusa, e disse:

– No accendini, per me no
problem. Allora ti regalo Nino D’Angelo, è un napoletano in gamba!

Tutti scoppiarono in una
fragorosa risata. Rideva persino un nuovo arrivato, anche se non sapeva di che
cosa si trattasse: gli era bastato vedere Bamba in piedi che sventolava in aria
la cassetta. Solo Graziella, più matura e forse anche più umana degli altri,
non rise. Accettò, con occhi umidi, la cassetta.

Il venditore raccolse
nuovamente le sue chincaglierie e le spinse, con disprezzo, sotto il tavolino.
Gettò poi uno sguardo triste, come un segnale di resa, all’uscita del bar:

– Vado a fare due passi – disse,
senza rivolgersi a un interlocutore preciso.

Uscì accompagnato da occhi
silenziosi. “Voglio vivere!”, pensò appena fu in strada. Chissà magari perché
quella era una delle poche volte in cui Bamba non aveva addosso nessun oggetto
da vendere.

Provò una strana sensazione,
come se si fosse tolto dai polsi una grossa catena. Si rese conto, forse per la
prima volta in vita sua, che il “vivere” era qualcosa di ancora più
affascinante dell’essere vivo solo fisicamente.

I due passi che avrebbe
voluto fare diventarono centinaia. Camminava guardando i passanti con evidente
orgoglio, quasi volesse sfidarli. “Vedete! io non vendo niente! Sto
passeggiando! Sono come voi anzi, uno di voi!”, pensò tra sé.

Si fermò, senza sapere il
perché, sul ponte di S. Martino. Piegò il suo corpo snello osservando, con lo
stupore di un bambino, il suo viso scuro rispecchiato sull’acqua sporca del
Sile.

Senza badare a niente e a
nessuno, Bamba mormorò ancora:

– Voglio vivere. Voglio
vivere.

Ma le sue parole, anziché
raggiungere lo spazio e diffondersi poi nel cielo clemente, urtarono contro due
uomini, giovani e robusti. Senza una parola o un semplice saluto, uno dei due
gli chiese con tono severo:

– Hai un documento?

– No, sei clandestino, vero?
– aggiunse l’altro.

– Mi pare che tu sia anche
ubriaco!

Bamba non era per niente
sorpreso della loro indesiderata presenza, ma piuttosto indignato dal fatto che
quei due intrusi, così improvvisamente, avessero sentito le sue parole “voglio
vivere”. Quelle parole, semplici e del tutto legittime, continuarono,
nonostante la paura, a scorrere nel suo sangue. Con mani confuse, senza
guardare in faccia i due poliziotti in borghese, Bamba frugò inutilmente nelle
sue numerose tasche. Non aveva addosso nessun documento.

Dinanzi agli sguardi
trionfanti e nello stesso tempo minacciosi di quei due, si convinse che essere
straniero, soprattutto nero, era una sorta di disgrazia, o una punizione del
destino. Mai avrebbe creduto che la sua pelle scura sarebbe stata la causa di
tutti i suoi guai in Europa. In quell’istante desiderò perfino di morire, di
sparire dalla faccia della terra.

“A uno straniero”, disse a
sé stesso “non è permesso cantare, immaginare, fantasticare, piangere,
impazzire o buttarsi nel fiume. Lo straniero, purtroppo, vale molto meno di un
foglio timbrato in un qualsiasi ufficio.”

Solo quando passarono
davanti al bar “Da Graziella” Mamadou Bamba riprese il suo coraggio e, con un
braccio teso come una lancia, indicò il bar. I poliziotti in borghese si
scambiarono uno sguardo di circostanza. Poi tutti e due fissarono l’africano
con assoluta indifferenza, e dissero insieme:

– Allora, negretto! Ci
prendi in giro?

Graziella, dopo aver
osservato attentamente la scena attraverso il vetro, capì tutto. Fece quasi un
salto spalancando la porta del bar e uscì con in mano un foglio grigio alzato,
come fosse la bandiera di un comandante che si arrendeva:

– Eccolo qui il suo permesso
di soggiorno! – esclamò con voce rassicurante.

 

 

 

 


Scarica il racconto