Tutto ebbe inizio in una
fredda mattina d’autunno di circa nove anni fa, però solo adesso sento che
potrei riuscire a parlarne… Perché solo adesso? Forse per la necessità di
rispondere alle domande del piccolo Ali che prima o poi vorrà sapere tutto del
padre, o forse perché essendo tornata in Italia, negli stessi luoghi che furono
teatro della mia tragedia, sto cercando di liberarmi da quelle catene di dolore
che mi hanno a lungo tenuta prigioniera. Vorrei ritrovare sul mio volto e nel
mio cuore quella serenità di una volta, che conservavo anche nei momenti
infelici e di sconforto che caratterizzano ogni percorso di vita umana, ora
cancellata da una perenne espressione triste. Vorrei, come si dice oggi
“pensare positivo”. Certo sono riuscita molte volte a ridere per amore di mio
figlio, per farlo crescere felice, ma era un riso senza anima, una sorta di
ghigno sulle labbra senza luce negli occhi, senza gioia nel cuore.

Non ho mai saputo nascondere
la mia sofferenza, e neanche al telefono non ho potuto ingannare nessuno:

– Come faccio a credere che
stai bene con quella voce abbattuta? – mi diceva, perspicace, il mio
interlocutore di turno.

– So che è difficile per te
Fatima, ma dopo cinque anni dovresti già esserti ripresa! – aggiungeva.

Avevo lasciato in Italia
pochi ma fidati amici cui tenevo molto. Era un affetto sincero e ricambiato, ed
anche se capivano i miei silenzi disapprovavano all’unanimità il mio modo di
reagire.

“Non devi chiuderti in te,
Fatima… Vieni a tro-varci, ne parleremo insieme… Siamo veramente preoccupati
per questo cordoglio che non finisce più!” ripetevano al telefono, nelle
lettere, sempre e con ostinazione. Alla fine ho ceduto. Ho lasciato sciogliere
come neve al sole tutte le ragioni che mi portavano a rifiutare ed ho preso
l’aereo con Ali per l’Italia.

L’incontro di stasera è per
me una vera ancora di salvezza; ricordare Rachid insieme alle persone che
l’hanno conosciuto e che con lui hanno stretto un rapporto profondo avrà per me
il gusto agrodolce di un elisir di vita.

Siamo in un paesino del
nord, nella bella cucina della casa che Leila ha recentemente ereditato dai
suoi nonni materni. Il fuoco brucia lentamente nel camino, l’atmosfera è intima
e familiare. Lella, che sta servendo gli aperitivi, è stata ribattezzata Leila
dai suoi cognati quando ha sposato Ahmed, un cugino di Rachid. Costui è seduto
su una poltrona, e fuma tranquillamente una sigaretta. Ha tagliato a zero i
suoi capelli neri e ricci e questo lo ringiovanisce abbastanza. Accanto a lui,
Abdul e Diam del Senegal parlano piano in wolof. Entrambi sono altissimi, ma
Abdul ha la carnagione chiara e i lineamenti fini; è un classico peul e lo si
può definire bello. Diam invece è del nero più scuro, con delle labbra rosa che
formano uno strano contrasto. I miei occhi incontrano quelli dei coniugi
Donata, al mio fianco e ci scambiamo un sorriso affettuoso. Erano i miei
giovani vicini di casa. Luisa, dai lunghi capelli castani e di piccola statura,
nasconde sotto l’apparente dolcezza un carattere forte e deciso. L’ammiravo
molto perché era una di quelle persone che prendono la vita come una continua
sfida, e avrei voluto assomigliarle. Suo marito la assecondava in tutto e non
ho mai capito se era per il fatto che fosse del tutto soggiogato o per mancanza
di carattere. Ci osserva senza pronunciare parola, mentre lei m’intrattiene su
quello che ha fatto negli ultimi anni e che le lettere non sono bastate a
raccontare. I nostri figli, Nicolò il suo, un vivace decenne, ed Ali, il mio,
otto anni non ancora compiuti, giocano insieme e si rincorrono per tutta la
cucina e il salotto che formano insieme un’unica grande sala, indifferenti ai
nostri richiami:

– State attenti a non farvi
male!

– State attenti  a non rovinare niente!

Volevo vestirmi
all’occidentale, poi ho optato per un caftano di un verde così scuro da
sembrare blu turchese.

– Il verde è il colore della
speranza – ho pensato, con una punta di ottimismo.

Mentre Leila serve delle
fettine di pane tostato con burro e salmone, ho una stretta al cuore sentendo
Diam esclamare:

– Povero Rachid! L’abbiamo
aspettato tanto quella mattina!

– È vero! – conferma Abdul –
non sapevamo più cosa fare. Continuavamo a guardare le porte della stazione,
convinti che da un momento all’altro sarebbe arrivato.

Si riferiscono a quella
tragica mattina, che per anni ho cercato di rimuovere dal mio conscio, senza
peraltro trarne alcun beneficio. Sulle parole è calato un silenzio
imbarazzante. Mi sono fermata a metà nell’atto di imboccare un fettina di pane,
aspettando che i battiti del mio cuore si fermino, e tengo gli occhi bassi per
nascondere la mia emozione. Il silenzio si prolunga, alzo gli occhi: tutti mi
stanno guardando. Aspettano che io dica qualche cosa. Vogliono la prova che potrei
reggere alla valanga dei ricordi. So che per me è arrivato il momento di
affrontare il passato. Metto il panino nel suo piattino, e comincio, con la
voce leggermente tremante, guardando Abdul e Diam di fronte a me, dall’altra
parte del tavolo rotondo d’ebano della cucina calda di Leila.

– Anch’io, come voi, ho
aspettato tanto quella mattina… – faccio una pausa, e lotto ancora con quella
parte che vorrebbe ostinatamente tacere, ed anche se stento a crederci, vinco,
e le parole adesso escono leggere come il vapore acqueo al di sopra di una
cascata.

– Era un sabato mattina.
Avevo ottenuto dalla signora Delia dalle Rose da cui lavoravo come donna di
servizio fissa il congedo per la maternità, che cominciava da quel giorno.
Rachid, uscendo, aveva in programma degli acquisti per il pranzo, e in seguito
sarebbe venuto alla stazione ferroviaria a prendervi. Erano le otto. Abitavamo
fuori città, perciò prima della fermata dell’autobus percor-revamo un pezzo di
strada lungo mezzo chilo-metro, sinuoso e pericoloso per l’alta velocità delle
macchine, con la dovuta cautela. Rachid, in linea di massima, avrebbe dovuto
impiegare un’o-ra e mezza per andare e tornare. Ho cominciato a preoccuparmi
alle dieci e mezza. Ho pensato ad uno sciopero dei treni, però al telegiornale
non era stato menzionato. Continuavo a guardare la strada dalle finestre del
mio appartamento, invano – taccio.

Ho superato me stessa e ciò
nonostante avverto nello stomaco un bruciore, e nella gola quel senso di
soffocamento che precede talvolta le lacrime. Luisa, con sollecitudine,
interviene.

– Era proprio una brutta
giornata! Mi ero recata dal parrucchiere. Il tempo non era dei migliori, quindi
affrettavo il passo. Tornando a casa verso le undici e un quarto, ho visto le
macchine della polizia sotto al nostro palazzo. Non ho pensato un attimo che
fosse per Rachid. Salendo le scale però, ho sentito le urla di Fatima ed ho
immaginato il peggio.

Mi rivedo alla finestra, con
gli occhi inchiodati alla strada. Passano velocemente alcuni cittadini,
imbacuccati nei loro cappotti di stagione. C’è un vento che fa tremare alberi e
arbusti e spazza via le foglie gialle d’autunno dalla strada, facendole
volteggiare nell’aria; ma non forte abbastanza da spingere lontano il cumulo
delle nuvole grigie del cielo. Proseguo il filo dei miei pensieri ad alta voce.

– Ho udito le sirene e visto
arrivare le macchine della polizia. Le guardavo distrattamente. Im-mersa nei
miei pensieri. Poi è suonato il citofono, e quando ho risposto, hanno detto:
“Polizia, signora ci apra!”. Mi sono sentita mancare. In un attimo, erano alla
mia porta. Tre uomini: “È lei la signora Abdallah?”, mi ha chiesto uno di loro.
Ho acconsentito con un cenno del capo. “Mi rincresce, ho l’ingrato compito di
darle una brutta notizia. Suo marito ha perso la vita, investito da una
macchina. Abbiamo un mandato di perquisizione”. Questa ultima frase, l’ho
ricordata solo dopo vedendo i suoi colleghi frugare nei cassetti, perché sul
colpo, ho perso il controllo di me e mi sono messa ad urlare a più non posso, e
sarei caduta addirittura se l’ufficiale non
mi avesse sostenuta.

– Ho fatto le scale di corsa
e appena Fatima mi ha visto, ha urlato: “Luisa, oh Luisa, mio marito è morto!
Rachid è morto!”. E piangeva così forte, e ho guardato la sua pancia, ho
pensato al suo bambino, e mi sono messa a piangere anch’io. “Abbia coraggio” le
dicevo, cercando di mettere della convinzione nelle mie parole, cosa non
facile.

– Il dolore e la gioia sono
universali – interviene il marito di Luisa, Valerio, uscendo dalla sua estrema
riservatezza, con sorpresa generale.

– Il modo di manifestare la
gioia è lo stesso ovunque, con feste, danze… mentre per quando riguarda il
dolore, c’è molta differenza. Noi occidentali lo interiorizziamo, e ci rechiamo
ai funerali nascondendo gli occhi dietro occhiali scuri. Adolescente, ho
seguito una volta mio padre medico in un paese dell’Africa centrale. In un
villaggio, ci siamo imbattuti in una cerimonia funebre. Ho visto delle donne
strapparsi i vestiti, disfarsi i capelli, e stramazzare per terra, una scena
che mi è rimasta impregnata nella memoria per molto tempo, per il suo carattere
eccessivo.

– Eh sì! – dice Abdul a
difesa di quelle piangitrici dell’Africa
centrale. – Sappiamo tutti dell’ineluttabilità della morte, però ci
sorprende sempre.

Il loro intervento distende
notevolmente l’atmosfera. Leila si alza. Ha una lunga gonna nera di velluto,
una camicia bianca di seta, calza delle babbucce ricamate con fili d’oro
comprate a Marrakech. Sforna un’appetitosa torta salata. Chiamiamo i bambini che
nel frattempo si erano tranquillizzati davanti al televisore a visionare dei
cartoni animati. Tagliamo la loro parte a pezzettini, e se ne tornano in
salotto. Mentre mangiamo, mi rivedo quella drammatica mattina piangendo fra le
braccia di Luisa, che mi fa accomodare sul divano del mio salotto. I poliziotti
prima di andarsene mi hanno lasciato un mandato di comparizione. Luisa risponde
la telefono che sta squillando. Sono Abdul e Diam, che chiedono di Rachid. Lei
spiega loro rapidamente la situazione e promette loro di mandare qualcuno a
prenderli. Poi chiama Ahmed e in seguito Valerio.

In meno di un’ora, arrivano
tutti, con l’aria incredula e sconcertata: Ahmed e Leila con Abdul e Diam,
Valerio dopo qualche minuto. Ahmed tira nervosamente lunghe boccate di fumo
dalla sua sigaretta.

– Ma cosa cercavano in
questa casa? – esclama.

– E perché ti convocano alla
centrale di polizia per domani? È troppo strano!

Gli altri mi guardano afoni.
Chiedo di rimanere da sola e insisto fermamente, malgrado le loro proteste.
Rimasta sola, mi avvicino nuovamente alla finestra, e scruto la via, come se
aspettassi ancora qualcuno. In realtà, è proprio così:

– Questo è un tremendo
incubo, non può essere! Hanno sbagliato persona, il mio Ahmed non può
abbandonarmi così!

Le mie lacrime mi bagnano la
guancia. Il cielo non si è sbarazzato delle nuvole grigie, ma il vento si è
placato. La strada è vuota, e vuoto e lasso è il mio corpo. Con le gambe
tremanti e ribelli al cammino, riesco a raggiungere la nostra camera e crollo
sul letto matrimoniale.

– Fatima, vuoi un’altra
fetta di torta? Fatima! – la voce di Leila mi porta bruscamente al presente.

– Scusa, Leila?

– Chiedevo se gradivi
un’altra fetta di torta.

– No, grazie. Sono a posto
così.

– A che pensavi così
intensamente? – chiede Leila, impensierita.

– Ancora e sempre a quel
maledetto giorno – rispondo. – Quando siete andati via, mi sono sdraiata sul
mio letto, ed ho realizzato quanto poco conoscevo Rachid. Lo so, vi sembrerà
paradossale, ma è la semplice verità. Eravamo nati e cresciuti nello stesso
quartiere di Casablanca. Cominciai però a notarlo con altre prospettive verso i
quindici anni, quando lui ne aveva diciannove. Lo immaginavo come mio sposo
ideale. Non era bellissimo, ma emanava un certo fascino, che unito ad intraprendenza,
spirito d’avventura ed estrema curiosità verso il mondo lo rendevano
irresistibile agli occhi di molte donne. Andò all’università, e dopo cinque
anni tornò con un laurea in tasca. Fui sbalordita quando venne a chiedere la
mia mano ai miei genitori. Non pensavo che m’avesse mai notata! Ero lusingata,
ma avrebbe anche potuto chiedere il mio parere prima! Così era fatto, intrepido
e impetuoso. Desideravo prolungare il fidanzamento, ma egli volle il matrimonio
immediato. La ragione di tanta fretta? Voleva andare in Europa, in Francia
precisamente. All’ambasciata, gli fu negato il visto.

– Per quale motivo? –
domanda Luisa.

– Non lo so. Ma ne ero
felice. Immaginavo che avremmo trascorso più tempo insieme. Illusione. Il
matrimonio fu celebrato sotto la sua spinta, e una settimana dopo mi annunciava
di avere ottenuto il visto per l’Italia. Nessuno riuscì a convincerlo di
rimandare. Era di una caparbiaggine! “Vedrai”, mi diceva, con il viso
illuminato dall’entusiasmo, “vado e di sicuro troverò un buon lavoro con la mia
laurea in ingegneria. Saprò dimostrare cosa valgo, mi farò molti soldi, poi ti
faccio venire a raggiungermi. Non ti devi preoccupare, andrà tutto bene!”.
Scuotevo la testa, scettica, ed esprimevo con franchezza le mie riserve, che
lui puntualmente abbatteva con qualche espediente: “Le donne sono troppo
timorose”, “Chi non rischia niente nulla ottiene”, “La vita appartiene a chi si
alza presto”. Fu così che una mattina all’alba s’imbarcò in una nave diretta in
Italia.

Parlo piano, cerco le
parole. Non è per niente facile ripercorrere questo passato, quella parte della
mia vita di cui sono stata più che altro una protagonista passiva. Bevo un
sorso d’acqua dal mio bicchiere. Leila decide di preparare del tè alla menta.

– Mi scuserete se non sarà
così buono come lo fanno in Marocco!

– Ma non ti preoccupare! –
dice Ahmed, suo marito. – Lo apprezzeremo lo stesso.

– In Senegal non siamo da
meno nella sua preparazione! – tiene a precisare Diam.

Tutti sorridono, tranne me.
Non ci riesco proprio, sono tesa.

– Rachid era così vago nelle
sue lettere! – dico – Non mi ha mai spiegato che mestiere faceva, come viveva.
Le sue telefonate erano brevi e fugaci, lo sentivo sfuggente. Mandava dei soldi
per le festività: la fine del ramadan, la nostra grande festa che chiamiamo Aid
el kabir, l’anniversario della nascita del profeta. Dopo due anni, mi ha
mandato la prima lettera esauriente da quando era andato via, con allegato il
mio biglietto d’aereo per raggiungerlo. “L’Europa non è come immaginavo”,
diceva, “sei mia moglie e ho bisogno di te al mio fianco. Vieni, ti prego. Mi
sono finalmente stabilito”. Poteva parlare di stabilità, lui che aveva cambiato
dieci volte indirizzo. L’ho raggiunto, pur non sapendo cosa avrei trovato qui.

– Ti ha mai parlato dei
lavori che abbiamo fatto insieme? – mi chiede Diam.

– No, mai.

– Non posso biasimarlo,
avendo provato anch’io quel senso di smarrimento e di scoraggiamento che
s’impossessa di te quando vedi i tuoi sogni infrangersi l’uno dopo l’altro per
la durezza della vita quotidiana. Abbiamo incontrato Rachid in una città del
sud, ed insieme, abbiamo vissuto alla meglio, lottando contro la tentazione di
farci reclutare dalla malavita. Ci siamo poi spostati al centro e siamo stati
assunti nelle piantagioni di pomodoro.

– Un’esperienza massacrante
– lo interrompe Abdul con una smorfia di stizza. – Ci alzavamo all’alba e
dovevamo lavorare senza sosta per riempire le casse, dal cui numero dipendeva
la nostra paga. Le piante di pomodoro sono basse, e si stava chinati tutto il
giorno. Avevamo accettato uno stipendio magro, provocando involontariamente la
rabbia di alcuni italiani che non potevano accontentarsi di così poco e furono
licenziati. Appiccarono il fuoco alle nostre baracche, e ci salvammo appena in
tempo. Avemmo in seguito una controversia con il datore di lavoro, che si
rifiutava di regolarizzare la nostra assunzione a norma di legge. Ci spostammo
nelle piantagioni di tabacco, seguendo il consiglio di un amico.

– Uno sbaglio. La paga era
più alta ma ritro-vammo le stesse condizioni. Rachid era diventato taciturno,
permaloso. Una sera ci disse che l’indomani sarebbe andato al nord: “Non posso
rinunciare ai miei sogni, non adesso. Tenterò ancor ed ancora, fino al
successo. Ho promesso a me stesso, e a Fatima”. Parlava sempre di te, Fatima.
Ti voleva bene.

– Grazie, Diam. Non ho mai
dubitato di lui, del resto. Le vostre testimonianze mi sono preziose come l’oro
in quanto completano il quadro della sua vita, che ho potuto fare solo dopo il
passaggio in polizia. Rammento ancora il mio sgomento quando varcai la soglia
del suo appartamento, dopo che era venuto a prendermi in aeroporto. I muri
erano anneriti dall’umidità e dalle stufe difettose, i mobili polverosi e a
pezzi, la camera da letto sembrava una discarica, per non parlare del bagno e
della cucina. Ero delusa, amareggiata, e non lo nascosi, affermando che a
Casablanca, anche i poveri vivevano più decentemente e più dignitosamente.
Presa dall’ira, gli rinfacciai i suoi misteri, la sua testardaggine e tutto
quello che mi tenevo dentro da quando era andato via.

– E lui come si difese? –
chiede Valerio, scuotendosi dal leggero torpore che si è impadronito di quelli
di noi che ascoltano.

– Non si difese affatto, per
la mia più cupa disperazione.

– Lavorava troppo, non lo si
vedeva mai! – dice Leila.

– È vero – confermo. – Nove,
dieci ore, a turno non prestabilito. Chiamavano molte volte la sera prima per
informarlo che doveva fare la notte dell’indomani. Una sera, mi disse che si
riteneva fortunato perché aveva una casa e un lavoro: “Bisogna apprezzare
quello che la vita ci offre, ho degli amici che non hanno né casa né lavoro”,
furono le sue testuali parole.

– E la vita di coppia,
com’era? – chiede Luisa.

– Ci vedevamo solo durante
il fine settimana, in quanto dopo tre mesi avevo trovato anch’io
un’occupazione. Andavo dalla signora Delia dalle Rose, di cui vi ho parlato
all’inizio, dal lunedì fino al sabato, a tempo pieno. In pratica, vivevo da
lei. Quando tornavo a casa il sabato, facevo i lavori, e cucinavo alcuni piatti
nostri per Rachid: il cuscus, il tajine, una sorta di stufato di pesce, o la
nostra minestra di lenticchie, la harira, di cui mio marito era particolarmente
goloso. Poi parlavamo, di futuro soprattutto. La domenica pomeriggio era
dedicata agli amici.

– Ci è rimasta una spina nel
cuore, Fatima. Non abbiamo mai capito perché dopo il decesso di Rachid la
polizia ti convocò alla centrale e dovetti ritornarci il giorno dopo. Sei
tornata precipito-samente in Marocco, e in seguito, non hai mai gradito che si
toccasse l’argomento.

Chi ha parlato è Ahmed, il
cugino di mio marito. Tutti mi guardano con accresciuta attenzione, attendono
la chiave dell’enigma. Chi sa quante volte, trovandosi insieme, hanno cercato
di scovare nel passato degli elementi che potessero giustificare l’intervento
della polizia. E chi sa quante volte hanno fallito nell’impresa.

– Il capitano di polizia
incaricato del mio caso fu abbastanza gentile da mandare due agenti a scortarmi
con una macchina. Quella era una mattina buia e pioveva a raffiche. La visibilità
stradale era scarsa, s’intravedevano solo le luci dei fari delle macchine, o
delle insegne dei negozi. Osservavo tutto quello attraverso le mie lacrime,
guardando senza veramente vedere. Non facevo altro che pensare a quanto fosse
tutto vano, inutile ed insensato sulla terra. Pensavo a mio marito il cui corso
della vita si era fermato a ventisette anni, pensavo al mio bimbo, già orfano
prima di nascere, pensavo alla mia vita in un paese non mio, per certi versi
molto ostile all’integrazione. Che futuro mi aspettava? “Per uno straniero che
sale di un gradino, cento altri rimangono nella m…”, mi aveva detto un giorno
Rachid, commentando l’impresa di un suo amico, che era riuscito a farsi strada
nella ditta dove lavorava. Il mio senso di perdita si accentuò quando arrivai
alla polizia.

“ Il capitano era un
cinquantenne dalla bonaria fisionomia e dall’aria comprensiva. Ispirava fiducia
al primo contatto. Il suo approccio, pur molto cauto, mi mandò in panico. Mi
chiedeva però semplicemente di parlargli della vita lavorativa di Rachid e dei
suoi problemi legati alla stessa.

“ Rispondevo di non saperne
nulla.

“ “Signora, mi dica quello
che sa di suo marito”. “So solo che lavorava in una ditta”. “Allora, lei ignora
che suo marito non lavorava da due mesi.”

“ Ero sconcertata.
Un’improvvisa vampata di calore mi fece arrossire e tremare tutta.

“ “Devo supporre che lei
ignori anche il fatto che suo marito ha deposto dai carabinieri due denunce per
minacce di morte, per aggressione, e che perciò il vostro telefono era sotto
controllo?”

“ A sentire queste parole,
mi sembrava che un meteorite fosse esploso nella mia testa. Continuavo a
fissare il capitano, pietrificata.

– Mamma mia! A noi Rachid
non ha mai detto niente – esclama Leila.

– Potevamo essergli d’aiuto
– dice Ahmed, assai sconvolto.

– È incredibile come le
circostanze possano fare cambiare le persone! – constata Diam.

– Mi ritengo una persona
riservata, ma non fino a questo punto – aggiunge Valerio, scuotendo
negativamente la testa.

– Cosa ti disse il capitano?
– chiede Leila.

– Mi disse: “Inutile che la
trattenga qui. Dovrò interrogare delle persone e vedere come impostare il
caso.” Un terribile sospetto si faceva strada, insinuante come un serpente,
nella mia mente: “Vorrei capire il senso di tutto questo, capitano”, ebbi il
coraggio di dire, “lei pensa che l’incidente di cui è rimasta vittima mio
marito non è stato fatalità?”

“ Il capitano rispose: “Nel
mio mestiere, signora, va valutata ogni ipotesi, tenendo conto dei contesti.
Suo marito l’anno scorso abitava con malavitosi, di cui alcuni sono stati
arrestati ultimamente chi per omicidio, chi per spaccio di droga, chi per
attività di contrabbando. Un mese fa, suo marito ha sostenuto in tribunale una
causa contro il suo ultimo datore di lavoro, conclusasi in suo favore, e
scatenando l’ira dei dirigenti della ditta. Poi suo marito viene investito da
un’automobile e il conducente non si ferma. Lo stiamo cercando, ma non abbiamo
testimoni sul luogo della tragedia.”

“ “La spavalderia è il
coraggio dei ricchi, mentre per noi poveri sono la fede e la speranza il nostro
coraggio”, mi diceva spesso Rachid. Ed io, di fronte al capitano, sentivo che
né coraggio né fede mi sarebbero bastati a sopravvivere a quei tremendi
sospetti, dubbi e sottintesi che si stendevano come un lenzuolo mortuario sul
mio defunto marito. Chiesi al capitano il permesso di assistere agli
interrogatori. “Non è possibile”, fece, accigliandosi. Parlai come se da lui
dipendesse la mia vita. In un attimo, gli feci un riassunto della mia vita con
Rachid, da Casablanca fino in Italia, e conclusi in questo modo: “Adesso che
Rachid non c’è più, tornerò in Marocco, ma prima ho bisogno di sapere perché è
cambiato così tanto. Ho il diritto di sapere, porto suo figlio in grembo e
dovrò pure rispondere alle domande dei suoi famigliari!”

“ Il capitano rimase
pensieroso per qualche istante, poi si arrese acconsentendo, vinto ma non
convinto. “Eh va bene”, mi disse. “Se proprio ci tiene. Ma la avverto che non
sarà facile. Potrebbero venire a galla
delle verità brucianti, e non so se nel suo stato ci vogliano delle
emozioni forti”. “Lo so, capitano”, dissi a mia volta, “ad ogni modo,
preferisco morire sapendo che vivere ignorando.”

Ci accomiatammo, e
l’appuntamento fu preso per il giorno dopo.

– Eri proprio decisa cara! –
dice Luisa, e per me suona come un complimento.

– Non avevo altra scelta –
replico, modesta. – Il giorno dopo, tornai alla polizia, sempre scortata dai
due agenti. Il capitano era nel suo ufficio, seduto su una poltrona di pelle
nera girevole, a schienale alto. Dopo avermi salutata, mi fece accomodare in
una sala contigua, dove un artificio mi avrebbe permesso di seguire gli
interrogati senza essere vista. Alla sinistra del capitano, un agente seduto
davanti ad un computer tambu-rellava sulla tastiera. Era compito suo registrare
il verbale. Un altro agente era in piedi davanti alla porta, in posizione di
riposo. “Faccia entrare il signore Panalti!” gli ordinò il capitano.
“Signor-sì!” fu la risposta dell’agente, che aprì la porta, dicendo: “Signor Panalti,
prego si accomodi!”

“ Ero nella stanza con i due
agenti che mi avevano scortata, e uno di loro mi spiegò che il signor Panalti
era la prima persona da cui Rachid aveva lavorato al suo arrivo al nord.
Aggiunse che il capitano avrebbe ascoltato ogni teste per una decina di minuti,
quanto gli bastava per orientare le indagini. Gli chiesi quante persone avremmo
ascoltato quella mattina. “Quattro”, mi disse. “Alcuni compagni di suo marito
sono già stati interrogati in carcere. Hanno negato qualunque sua partecipazione
in loschi affari.”

“ Il Signor Panalti era un
uomo grande e robusto, con le spalle larghe e muscolose, i capelli di colore
cenere, ed una mascella leggermente sporgente. C’era antipatia nei suoi occhi,
e ful-minò il capitano dallo sguardo. “Perché mi distu-rbate nello svolgere il
mio lavoro con queste convocazioni?” attaccò di botta. “Sono nell’e-sercizio
delle mie funzioni, e, se non le dispiace, le farei alcune domande. Non la
tratterrò a lungo”, rispose con tono pacato il capitano. “Vediamo…”, disse
allora Panalti. “Ecco”, cominciò il capitano: “Dal dicembre dell’ottantotto
all’agosto dell’ottantanove lei tenne fra i suoi operai un marocchino chiamato
Rachid Abdallah. Ci dica qualcosa di lui, e dei vostri rapporti sul luogo del
lavoro.”

“ “Sarò franco con lei,
capitano. Sono sempre stato del parere che ognuno dovrebbe rimanere nel proprio
paese. I miei genitori rimasero qui dopo la guerra, quando tutti andavano in
America. Non mi piacevano gli stranieri, non ne assumevo, tuttavia con Rachid feci
un’eccezione che aprì la porta ad altri”. “Quale fu il motivo?”. “Glielo dico
subito. All’ufficio di collocamento aveva incontrato alcuni miei operai che gli
avevano dato il mio numero, dicendogli che avevo bisogno di manodopera. Mi
chiamò, e gli risposi che ero già a posto. Mi richiamò tre mesi dopo, si
espresse nel mio dialetto, e mi diede un nome italiano. Gli diedi appuntamento
per il pomeriggio della stessa giornata, e fu solo quando lo vidi che capii
l’inganno. Pensai che la sua temerarietà andava premiata, e lo assunsi. Non me
ne pentii mai. Era bravo, curioso, assetato di sapere, nonché un lavoratore
instancabile. All’inizio, pensai che fosse il suo modo di ringraziarmi per
l’opportunità che gli avevo dato. Però, col tempo, dovetti ricredermi. Era fatto
così, indipendentemente da tutto”. “Perché avete interrotto il rapporto di
lavoro?”. “Il mio settore è andato in crisi e ho dovuto chiudere. Mi sono messo
in società con mio fratello che dal canto suo aveva drasticamente ridotto il
personale”. “Con i suoi compagni di lavoro com’era Rachid?”. “Socievole,
tranquillo. Non ha mai litigato con nessuno”. “Bene. La ringrazio. Deve solo
firmare la sua deposizione ora. Grazie e arrivederci”. “Arrivederci.”

“ Immaginavo il mio Rachid
mentre si sbatteva come tre uomini per guadagnarsi da vivere, poi tornava sotto
quel tetto. Lo vedevo strofinarsi lungamente le sue mani intorpidite, e poi
prendere carta e penna per scrivermi le sue lettere evasive. Interruppi il
corso dei miei pensieri vedendo entrare nell’ufficio del capitano un uomo
piccolo, magro, calvo e molto nervoso. “Posso fumare?” fu la sua domanda, dopo
aver dato le generalità. “Mi spiace, ma in questo ufficio è vietato, come
indicato dall’apposito cartello”, fu la risposta del capitano, che proseguì: “Lei
ha delle case che affitta?”. “Sì”. “Nell’aprile dell’ottantanove, lei sporse
denuncia contro alcuni suoi inquilini stranieri, fra i quali figura un certo
Rachid Abdallah, e in seguito i carabinieri disposero lo sgombero di
quell’appartamento. Cosa ci può dire dei suoi inquilini in generale, e di
questo Rachid in particolare?”

“ L’uomo scattò come una
belva; erogò i suoi risentimenti a cascate. Parlava forte e gesticolava, e più
volte il capitano dovette fargli segno di calmarsi, per tutto il tempo che durò
il suo interrogatorio. “Se permette, capitano”, esordì, “che vadano tutti al
diavolo! Mi hanno procurato ferite e lesioni, mi hanno saccheggiato la casa! Ho
dovuto spendere venti milioni per farle ritrovare le sembianze di prima. Un
incubo ad occhi aperti!”. “Lei parla di ferite”, azzardò il capitano. “Ma sì!
Ma sì! Ero andato a riscuotere i soldi dell’affitto e quei selvaggi mi hanno
letteralmente aggredito! Ho chiamato la polizia, e i suoi colleghi non hanno
fatto niente, una vergogna!”. “Qui, sul verbale dell’epoca, leggo che lei aveva
insultato loro in modo molto offensivo…”. “Ma che sarà mai? Ho detto solo quel
che pensavo. Si metta al mio posto, se qualcuno le rovinasse la casa!”. “Sul
verbale c’è anche scritto che pagavano un affitto tre volte superiore al
dovuto… Comunque, non è questo il punto. Conosceva Rachid?”. “Sì, la casa era
cointestata a lui”. “Le risultava un tipo vio-lento?”. “Non direi. Anzi, era un
tipo tranquillo. Avevo affittato la casa a quattro persone, ma ci vivevano in
dieci, e mai le stesse persone: norda-fricani, africani, gente dell’Est
europeo. Chi ci capiva qualcosa? E quando chiedevo delle spiega-zioni a Rachid,
mi parlava di solidarietà e fratellanza. Ma la mia casa non era un centro di
accoglienza, e ho dovuto provvedere in qualche modo”. “Le risulta che
spacciavano droga?”. “Questo non glielo saprei dire, sinceramente. Avevo
affittato la casa a quattro persone con un lavoro regolare e decentemente
retribuito, e so che lavoravano. Dei loro amici ignoravo tutto. Ad ogni modo, quando
i carabinieri hanno fatto ir-ruzione per sgombrare la casa, non hanno trovato
niente di compromettente, come sarà anche scritto sul suo verbale”. “Bene la
ringrazio. È prassi firmare quanto detto prima di lasciare l’ufficio”.

“ L’uomo uscì, cedendo il
posto ad una donna di media altezza, vestita di una maglietta rosa e di un
completo marrone. Era il ritratto della casalinga perfetta. Durante tutto il
suo colloquio, controllava sempre che la sua gonna non facesse una piega, e
rimase composta ed attenta, come se fosse stata dal medico. Ascoltò con occhi
sgranati e sopracciglia alzate la domanda del capitano, ci pensò un attimo e
disse: “Gli stranieri sgomberati dal piano di sopra nell’ottantanove? Sì, me li
ricordo bene. Mi è sinceramente dispiaciuto per loro, quattro avevano un
contratto di affitto, gli altri cercavano casa con difficoltà, altri ancora
erano solo di passaggio. Non mi davano fastidio, eccetto quando facevano festa
e sentivo i loro piedi martellare il soffitto sopra la mia testa. Parlavo
spesso con due di loro, Muhammad e Rachid, due bravi ragazzi, alle prese con un
mondo che sognavano diverso. Rachid era sposa-to, mi parlava di sua moglie di
cui sentiva la mancanza, si faceva in quattro e risparmiava per farla venire;
Muhammad, che aveva nostalgia di Tunisi, faceva due turni di lavoro per
comprarsi la casa là, e tornarci al più presto. Entrambi rifiutavano sempre di
parlare delle attività degli altri loro amici. Avrei giurato che andassero in
giro col coltello, sempre pronti a scatenare qualche rissa o a derubare”.
“C’erano delle ragazze, qualche volta con loro?”. “Sì, qualche volta”.
“Com’erano?”. “Che ne so, capitano. Allegre, belle, giovani!”. “Non intendevo
in quel senso? Erano dell’Europa dell’est, africane?”. “Non ho mai visto africane,
e delle altre non ho mai chiesto la nazionalità”. “Vedendo le ragazze, lei ha
mai sospettato qualcosa di losco?”. “Lei si riferisce al traffico delle donne
per la prosti-tuzione? Direi di no, sembravano le loro fidanzatine”. “La sua
deposizione ci sarà senz’al-tro d’aiuto, signora. Deve solo firmare quanto ha
dichiarato.”

“ Mentre la donna firmava,
l’agente che era con me mi disse che l’ultimo teste era il padrone della
fonderia dove mio marito si era licenziato per il non rispetto delle normative
sulla sicurezza. Il signor Flavini aveva ulteriormente compromesso la propria
posizione rifiutandosi di versare a Rachid la dovuta liquidazione. La causa era
finita in tribunale e Rachid aveva vinto. Sulle ultime parole dell’agente, il
signor Flavini fece il suo ingresso. Era un quarantenne moro, dalla faccia
comune e familiare. Il capitano andò subito al dunque: “Signor Flavini, lei,
rappresentante della fonderia Flavini, ha perso una causa in tribunale contro
il signor Rachid Abdallah, che era un suo operaio. Il signor Rachid ha
denunciato fin dall’indomani dell’ultima seduta del tribunale di aver ricevuto
delle telefonate minacciose, affermando di aver riconosciuto la sua voce. Cosa
ci dice a questo proposito?”. “Non ci sono prove”. “Senta signor Flavini. Dove
si trovava la mattina del nove settembre dalle ore otto alle dieci?”. “Ascolti,
capitano! Sono pronto ad ammettere che ho telefonato a Rachid per trovare un
accordo, vista l’esorbitante somma che il tribunale mi ha imposto di versargli,
e ho perso il controllo per la rabbia dovuta a quest’ingiustizia, ma non sono
un assassino, e non ho mandato dei sicari ad ucciderlo. Dovete cercare altrove.
Se lei mi ritiene colpevole, mi arresti, esibendo prima però le dovute prove.
Altrimenti, temo di doverla salutare.”

“ Il capitano non fece
niente per trattenere il signor Flavini. In fondo, non aveva nessuna prova.
Aveva posto sotto sequestro la macchina di Flavini, e le perizie non avevano
fornito nessun riscontro d’urto o di qualunque altra cosa che potesse fare pensare
a un incidente. Indossai il cappotto. Il capitano mi raggiunse un attimo dopo:
“Allora, come sta?” mi disse. “Sto meglio, grazie”. “Le è servito, seguire
questi colloqui?”. “Più di quanto lei immagini, capitano”. Mi porse poi una
grande busta gialla. “Qui c’è l’estratto del conto bancario di suo marito. Ho
dovuto chiederlo per motivi di indagine. Sì, guardi pure. Questa è la somma
versata due settimane fa per la causa vinta. Tutto il resto è frutto del suo
risparmio”. “Incredibile!”. “Signora, suo marito l’amava dav-vero!”. “Adesso
capisco perché l’ho trovato così magro quando sono arrivata in Italia. Avrò
bisog-no di molto tempo per riprendermi da queste emozioni”. “Arrivederci,
madame. E buona fortuna!”. “Grazie, capitano.”

“ Questo è quanto amici miei.”

Tutti mi guardarono,
storditi, come se fossero appena usciti da un cinema.

– Stai bene Fatima? – mi
chiede Ahmed.

– Ricordare il passato non è
stato traumatico?

– No, è stato liberatorio! –
constato.

– È rassicurante sapere che
Rachid non fosse implicato in losche attività, anche se non ne dubitavamo –
dice Valerio.

– Ad un certo punto, ho
pensato che fosse ricattato. È una cosa che rende riflessivi, penso.

– Diam, cosa dici! – esclama
Leila.

– Siamo tutti stanchi, e
sarebbe ora di andare a letto. Venite, ragazzi. Vi mostro le vostre camere.

Diam, Abdul e Valerio si
alzano, salutano e la seguono.

I bambini si sono
addormentati sul divano, avvolti da una calda coperta di lana. Il fuoco del
cammino si sta spegnendo, ed Ahmed non aggiunge altra legna. Luisa ed io
sparecchiamo il tavolo. Pernot-tiamo tutti da Leila. Mi sento gioiosa, mi viene
da cantare, per la prima volta dopo anni. So che l’aurora si alzerà su una
nuova Fatima; che non si chiederà più perché sia successo a lei, una Fatima
serena il cui marito continuerà a vivere nel suo cuore, per sempre. “I morti
non sono morti.”

Aveva ragione il poeta africano.


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