La solitudineTC
"La solitudine"
Non c’era dubbio che Kadiri
Abdelmajid, maghrebino di Wajda, odiasse profondamente le domande dirette, gli
sguardi colmi di pietà, e le compassioni facili, quasi gratuite, che spesso
sono rivolte a uno straniero. Preferiva – e questo non era soltanto un semplice
ed umano desiderio, ma anche il suo stile di vita – che il dialogare con la
gente iniziasse e terminasse senza quelle inutili domande in cui si poteva
frequentemente intuire uno “scopo” preciso, e che a volte sembrava una sorta
d’interrogatorio. Perfino l’esito, in molti casi, di un’amicizia o di un
qualsiasi rapporto tra due persone dipendeva proprio da quelle maledette
domande, cosicché Kadiri pensava spesso: “Vorrei una vita senza perché o come o
quando o dove!”
Ma sapeva perfettamente che
non era possibile. Perché la gente, o almeno la maggior parte di essa, sia pure
per curiosità o per passare il tempo, non si stancava mai di domandargli: “Da
dove vieni? Che fai? Sei sposato, e con quante mogli?” O spesso: “Mangi il
maiale, bevi il vino?” e via dicendo. E lui? Cortese come sempre, non si
stancava mai di rispondere. Ma “come ti chiami?” era l’unica domanda che gli
piaceva sentire.
Molta gente purtroppo ha
paura degli sconosciuti e questo, si potrebbe anche dire, è un sentimento
istintivo. La gente vorrebbe sapere tutto su tutti. Perché il silenzio provoca
sospetto e la novità suscita inspiegabili preoccupazioni. E c’è ancora qualcuno
che prova perfino disagio di fronte a persone dalla pelle scura. Kadiri era
consapevole di tutto ciò. E più di una volta, magari scherzando, aveva
desiderato (o forse anche sognato!) di diventare bianco o biondo.
Come se non bastasse la
disgrazia d’essere straniero, Kadiri Abdelmajid era basso, quasi nano, magro e
di carnagione scura, tipicamente nordafricana. Non passava mai per la strada
inosservato, o almeno, come aveva sempre sperato, ignorato. Baristi, postini,
commessi di negozi di lusso, e talvolta anche passanti, non gli risparmiavano le
più ironiche e volgari battute. Quando camminava, scrutava con sguardi timidi e
attenti il suolo, come se cercasse in esso una sorta di conforto.
Il suo difetto – come diceva Marco, lo studente che divideva con
lui il piccolo appartamento – era che Kadiri amava vestirsi di scuro e senza
curare molto il suo aspetto esteriore, come per nascondersi dietro un velo,
un’ombra o qualcosa che potesse proteggerlo dagli sguardi curiosi. Ma Kadiri
non la pensava così e smentiva con fermezza ogni ingiusta interpretazione del
suo look rispondendo a chi gli muoveva delle critiche: “Sono abituato a
vestirmi così.”
Aveva sempre avuto paura di
essere scambiato per una persona inaffidabile o sospetta. E, suo malgrado, gli
capitava spesso quello che temeva. Al bar entrava per prendere un caffè con le
mille lire in mano, poiché il barista, in diverse occasioni, gli aveva chiesto
in tono poco cortese se avesse pagato o no. Spesso anche la cassiera, per
dubbio o per scherzo, esitava a dargli lo scontrino e quando glielo dava, dopo
essersi convinta che Kadiri aveva da pagare, lo gettava sul banco come per
dire: “Tu! Non meriti nemmeno uno scontrino.”
Gli sembrava che questo non
succedesse mai con gli altri clienti.
Kadiri per un lungo periodo
si considerò uno sfortunato che, per caso o per necessità, il destino aveva
spedito in Italia come un pacco postale. Perciò pensò che la sua permanenza in
questo Paese non era altro che una dura lotta, anche se non sapeva esattamente
con quali armi o piani combattesse e contro quali nemici. Il destino? Forse,
pensava. Di tanto in tanto, faceva qualche sforzo per convincersi (o meglio
dire per consolarsi) che non era giusto rassegnarsi ciecamente nelle mani della
disperazione o buttarsi a cuor leggero in un abisso d’angoscia. E i suoi sforzi,
grazie al cielo, tutto sommato non erano stati vani. “La speranza è l’ultima a
morire,” così gli ripeteva ogni tanto Marco.
Anche lui, immigrato per
esigenza e muratore per caso, tentava di essere allegro. Voleva conoscere e
imparare tutto: lingua, abitudini, furbizie, imbrogli e tante altre cose.
Voleva soprattutto camminare per le strade diritto, guardando il cielo anziché
la terra, fissando senza disprezzo o arroganza tutti coloro che gli passavano
vicino, magari anche salutando qualcuno con un “salve!” come si fa tra amici,
cosa che in fin dei conti non era impossibile. Non avrebbe mai immaginato,
quando era arrivato quattro anni prima, che sarebbe stato costretto a subire
così a lungo il silenzio pesante della gente, della strada, dei giardini, delle
quattro mura di casa.
Se non ci fossero state le
poche volte in cui Marco, libero dagli esami o dagli studi, conversava con lui
su certi argomenti, scelti con cura e quasi sempre gli stessi, Kadiri
Abdelmajid indubbiamente avrebbe dovuto passare tutta la sua vita in totale e
deprimente abbandono. Ma che altro poteva fare uno che usciva prestissimo per
lavorare e tornava dopo il tramonto, se non rifugiarsi in compagnia di qualche
libro o passeggiare per un’oretta nelle zone poco affollate della città? Anche al
lavoro si parlava poco o niente, perché, secondo gli addetti del mestiere, un
muratore non dovrebbe assolutamente perdere il suo tempo chiacchierando.
Un giorno, tornando dal
lavoro, Kadiri si fermò, con un’espressione infantile sul volto, davanti alla
vetrina di un fruttivendolo. Non perché avesse fame, ma semplicemente perché
era stupito dalla composizione della frutta, dai colori e dal preciso ordine
con cui erano sistemate tutte le cose. Il fruttivendolo, la moglie e la figlia,
ma anche la metà dei clienti, mandarono attraverso il vetro una selva di
sguardi interrogativi verso Kadiri che, fingendo di essere solo, non cambiò
l’espressione innocente del suo viso. Nel frattempo un’insolita discussione si
accese tra i clienti, concentrata in sostanza sul che fare degli “altri” che
non sono soltanto affamati, ma anche tanti. La moglie del negoziante per
distrazione perse il conto e dovette battere nuovamente lo scontrino,
scusandosi con un cliente. Persino la figlia, giovane e bella, si fece coraggio
e uscì dando un’occhiata a destra e a sinistra, come per assicurarsi che Kadiri
non avesse l’intenzione di mandare in frantumi la decorosa vetrina.
Accortosi di tutto quel
movimento, il maghrebino tentò di sorridere cercando di conquistare la loro
fiducia. Non c’era però nelle loro anime uno spazio libero per accogliere il
suo imbarazzato ma sincero sorriso. Anche il cielo in quell’istante (ma forse
Kadiri non se n’era accorto), parve addirittura rannuvolarsi. Un’anziana, di
quelle che per truccarsi sono disposte a stare davanti allo specchio una
giornata intera, si avviò verso l’uscita con la borsa in mano. Si fermò a due
passi da Kadiri, disse in dialetto: “Ti ga fame? Prendi ’sta banana,” e gli
porse una grossa banana.
Kadiri non fu sorpreso da
quella gentile offerta, che poteva essere un dono spontaneo, ma piuttosto
meravigliato proprio dalla scelta del frutto: perché mai una banana, e non una
mela o una pera? Probabilmente l’anziana donna, dopo aver guardato bene la
faccia nera di Kadiri, era riuscita a mettere in relazione questi tre soggetti:
banana, scimmia, Kadiri! “C’è un’altra spiegazione?” si domandò lui.
Presa la banana, entrò con
dignità nel negozio e il fruttivendolo, anziché dirgli “desidera” o come faceva
in genere con gli altri, “prego,” gli disse con tono secco, che a Kadiri parve
una sfida, “comandi!”
Kadiri Abdelmajid con voce
rilassata disse: “Vorrei un melone, magari uno piccolo.”
Con un gesto rapido ma
preciso, la moglie del fruttivendolo chiuse la cassa. La figlia si avvicinò al
telefono fingendo di cercare qualcosa. Anche i clienti, quando videro
l’orgoglio del deserto brillare nei suoi occhi, cominciarono a spostarsi un po’ di qua e un po’ di là, forse per
rispetto, o chissà, magari, per paura. Uno di loro, allungando il collo, tentò
con furbizia di verificare quanti soldi contenesse il portafoglio di Kadiri. Ma
questi, ormai abituato ad affrontare ogni esagerata od offensiva curiosità, non
si lasciò impressionare da quell’atteggiamento. Al contrario, con assoluta
tranquillità abbassò un poco il portafoglio offrendo così al cliente, ma anche
agli altri, la possibilità di vedere i suoi soldi. Il fruttivendolo lanciò ai
clienti un’occhiata d’intesa, come per chiedere loro il permesso di servire il
nuovo arrivato e mandarlo via il più presto possibile. Tutti acconsentirono con
lo sguardo.
Kadiri con il melone in una
borsa di plastica e la banana in mano, prese l’autobus numero quattro. Il
conducente gli spedì nello specchietto uno sguardo tagliente. Kadiri lesse in
quegli occhi la domanda: “Hai fatto il biglietto?”. Passò poi in rassegna tutti
i nuovi edifici in costruzione che sfilavano attraverso il finestrino e si
rallegrò moltissimo dicendo a sé stesso: “L’edilizia è fiorente e non credo che
sia in crisi, come qualcuno vuole farci credere. Edifici che fra poco
diventeranno appartamenti, uffici e quant’altro. Ma solo per chi è ricco e
possiede soldi, e tanti. I ricchi sono sempre più ricchi. Un ricco non diventa
mai povero. Invece a un povero, per diventare ricco, ci vuole un miracolo. E i miracoli,
come si sa, sono molto rari nella vita reale.”
Kadiri, che era un po’
felice, concluse che quel “benessere” edilizio era un vantaggio per lui, e
pensò: “Altri mesi di lavoro, altri quattrini e soprattutto altri rinnovi di
permesso di soggiorno.”
Raggiunta la fermata, scese
di corsa dimenticando il melone sotto il sedile dell’autobus. Per la strada
mangiò la banana ridendo di sé stesso.
“Vedi! se tu fossi italiano
non perderesti facilmente un melone,” gli disse Marco il giorno dopo
scherzando.
“Oltre al melone, in vita
mia ho perso tante cose,” rispose lui facendosi serio.
“L’italiano, caro Kadiri,
non perde mai niente. Ma è sempre ossessionato dall’idea che un giorno possa
perdere tutto.”
“Penso che tu abbia
ragione!” disse Kadiri, che condivideva in pieno quell’opinione.
“Ad ogni modo, Kadiri,
lascia perdere. Vorrei dirti invece che ti porto con me sabato sera. Ci sarà
una piccola festa tra amici.”
“Amici!” ripeté sottovoce,
come se non sapesse più il significato di questa parola.
“Per di più,” aggiunse
Marco, “ti ho portato una camicia rosa, ed è nuovissima.”
Kadiri accettò l’invito con
un sorriso mentre i suoi occhi fissavano perplessi la camicia rosa.
Gli amici di Marco – quasi
tutti della stessa età, tra i venti e i venticinque – erano allegri, vivaci,
indossavano vestiti colorati, così da sembrare canarini in festa. Occupavano
l’angolo di un giardino piccolo ma ben tenuto di una casa modesta nei pressi
della Porta “Santi Quaranta”. Erano seduti l’uno accanto all’altro, stretti nel
poco spazio, immersi nel profumo delizioso del giardino. Conversavano
animatamente e tutti insieme, come osservò Kadiri prima di salutare, senza che
ci fosse un interlocutore che ascoltasse quello che dicevano. L’importante per
loro, pensò, era di poter parlare ed esprimersi liberamente.
Kadiri, dopo aver indossato
la camicia rosa ed essersi fatto per la seconda volta la barba, era di buon
umore, desiderando che quella piccola festa tra un gruppo di amici, fosse una
bella occasione (da non perdere!) per il suo inserimento nella società, e che
la solitudine a lui imposta da qualche dio ignoto avesse avuto la sua fine
decisiva. Comunque, entrando con Marco nel giardino e quasi imitando il
comportamento dell’amico, Kadiri strinse la mano a tutti sorridendo e pronunciando
a suo modo alcune parole, anche se, per la verità, nessuno degli astanti riuscì
a coglierne il senso. Parlava mescolando italiano, francese e dialetto
maghrebino!
Gli occhi luccicanti dei
ragazzi, che avevano bevuto abbastanza, guardarono tra smorfie e sorrisi
ambigui Kadiri e la sua camicia rosa. Quel loro modo di guardare gli sembrò un
insulto, una presa in giro o qualcosa di simile, e ad un tratto si sentì
infastidito, pur continuando a sorseggiare, tra rapide occhiate e cenni di
testa, un po’ di vino bianco. Nessuno di loro, e lui non sapeva proprio il
perché, gli rivolse la parola direttamente, tranne naturalmente le solite
domande, che per Kadiri erano il peggiore modo per instaurare un rapporto
umano. E tutte erano di questo tipo: mangi il maiale, bevi il vino (anche se
lui di fatto lo stava bevendo), quante mogli hai? hai intenzione di rimanere a
lungo in Italia? fumi, e che tipo di sigaretta? credi in Dio? e poi, che lavoro
fai?
“Faccio il muratore!”
rispondeva Kadiri con orgoglio.
Si scambiarono sguardi
rapidi, qualche ragazza ebbe un sorriso di ammirazione e persino più di una si
spinse a osservare le spalle di Kadiri, e può darsi, di conseguenza anche a
indovinare le sue forze. In ogni modo, al di là di quelle solite domande non
c’era niente di interessante per Kadiri. Perciò, nel chiasso totale di voci e
risate, egli scelse, ma era proprio costretto, il silenzio.
Una ragazza, probabilmente
la padrona di casa, apparve in mezzo al giardino con un barboncino nero. Lo
gettò sull’erba e incominciò a corrergli dietro incitata dai suoi amici. Kadiri
osservò in silenzio la scena, ed era un poco geloso del cane. Sorrise, non di
ciò che stava guardando, ma della propria gelosia: “Oh, amico cane, sei più
fortunato di me!” mormorò.
Passarono i minuti. Alcuni
ragazzi si alzarono per partecipare a quell’infantile e bestiale gioco. Marco
era con loro, ma sembrava un po’ preoccupato per aver trascurato il suo amico
maghrebino. Il cane, consapevole d’essere al centro dell’attenzione di tutti,
anche di Kadiri, diede e con entusiasmo il meglio di sé!
Il muratore, lasciato quasi
da solo, non trovò niente di meglio se non il vino. Afferrò la bottiglia e la
piazzò bene tra le sue braccia. Ogni tanto si voltava indietro per seguire
quella interminabile corsa: il cane era quasi impazzito, ma lo erano anche i
ragazzi.
“Ti piacciono gli animali?”
disse un ragazzo, passando con il barboncino in mano, quasi correndo, davanti a
Kadiri. Quest’ultimo, con il bicchiere pieno alzato verso il cielo, rispose:
“Dico la verità, mi piacciono di più gli esseri umani!”. Il ragazzo, ormai
lontano e inseguito dagli altri, non ascoltò la risposta.
Kadiri buttò giù tutto il
contenuto del bicchiere e si alzò in piedi appoggiando il braccio sul tavolo
grande, che sembrava abbandonato e inutile. Non sapeva se era ubriaco, lucido,
offeso, indignato, trascurato per colpa di un cane, o chissà perché. Avrebbe
voluto dire loro ad alta voce qualche parola: parole diverse da tutto ciò che
avevano detto, non per offenderli ovviamente. Ma per raccontare qualcosa del
suo Paese, della sua gente, della sua cultura, della sua solitudine, dei suoi
desideri, dei suoi sogni, dei suoi progetti per il futuro e via dicendo. Ma
pochi secondi dopo, si sedette, nuovamente fissando il bicchiere che era vuoto,
e pensò: “Tutto ciò che hanno voluto sapere di me era: se io mangio il maiale,
bevo il vino, come si scrive il mio nome e che significato ha, eccetera
eccetera. Con tutti i miei anni non c’era altro che potesse interessarli? Forse
da un muratore non si aspettavano granché! Non so se ho fatto bene a venire
fino a qui.”
Smise per un attimo di
pensare guardando il suo orologio comprato a buon prezzo da un senegalese, ma
che funzionava benissimo. I ragazzi stavano ancora giocando con il cane e da
più di mezz’ora. Riempì il suo bicchiere sapendo che, in quell’istante, non
poteva far altro.
Finalmente una ragazza, con
il respiro affannoso, i capelli scompigliati e la camicetta un po’ aperta, si
avvicinò al tavolo dove era seduto lui mormorando: “Acqua! Acqua!” come se
ordinasse a un cameriere che la stesse aspettando sull’attenti, solo che il suo
tono era perfettamente gentile. La ragazza, se non fosse stato per la bottiglia
d’acqua che era lì, indubbiamente non si sarebbe neppure accorta della presenza
di Kadiri. Poi, come per liberarsi da un improvviso senso di colpa, ella posò
una mano aperta sulla spalla del muratore senza guardarlo negli occhi. Anche
lui, pur avendo visto la figura femminile, non fece caso a quella mano: era
immerso, come è ovvio in una situazione del genere, in un mare grigio di
pensieri. La ragazza, con le labbra bagnate in modo provocatorio, disse:
“Scusaci, ti abbiamo
lasciato solo.”
“Non fa niente,” disse lui
sforzandosi di sorridere.
“D’altronde gli animali sono
molto carini!” aggiunse lei correndo nuovamente verso i suoi amici. Ma appena
si fu allontanata, Kadiri ebbe la strana curiosità di chiedersi: “Che cosa
volevi dire con: non fa niente?”
E poi continuò a bere e a
pensare: “Quella ragazza era carina. Avrei potuto scambiare qualche parola con
lei, ma chissà perché non l’ho fatto
Non mi ha neanche guardato in faccia!
Evidentemente uno come me, che non è mai stato ammirato, o meglio dire,
osservato per più di due minuti dalle donne, non deve pretendere più di tanto.
Non attiro neppure la loro curiosità!”
Il rumore di un autobus in
transito da qualche parte raggiunse il suo orecchio. Kadiri si alzò, non senza
fatica per la verità, come se avesse ricevuto un segnale d’allarme, e con il
bicchiere in mano. Attraversò il giardino in punta di piedi, come un ladro
esperto. L’erba, che era stata innaffiata poche ore prima, era odorosa e umida
e infastidì non poco Kadiri. Alcuni ragazzi, stimolati da tutto ciò che avevano
bevuto, mangiato e detto, si erano ritirati in casa con le loro amiche. Due o tre
soltanto cercavano instancabilmente di soddisfare l’insaziabile voglia del cane
di giocare.
Kadiri, senza voltarsi
indietro e dopo aver gettato il bicchiere sotto una pianta, mise prudentemente
il piede fuori dal cancello: “Bene! Nessuno se n’è accorto, nemmeno il cane,”
disse fra sé. Venne accolto dall’aria fresca e si girò su sé stesso come per
cercare aiuto, sotto la scarsa luce della strada. Non sapeva, in realtà, in che
direzione andare. E dinanzi a quel piccolo dilemma si convinse di essere ubriaco.
Ma nella sua mente c’era abbastanza lucidità per gridare, cantare o fischiare,
come faceva da piccolo quando camminava nel buio. Mise le due mani aperte
attomo alla bocca e gridò verso il cancello da cui era appena uscito: “Ridatemi
la mia solitudine!” e verso il cielo, individuando qualche stella sorridente:
“Preferisco l’ombra alle luci artificiali.”
Nessuna risposta! Se non
quella del cane che, per tre volte, abbaiò in un evidente stato d’allegria.
Kadiri cercò di tradurre, non per angoscia o per delusione, ma per divertirsi
un poco, l’abbaiare del cane nel linguaggio umano. E venne fuori questo:
“Vaffanculo, vaffanculo, vaffanculo.”
Rise. Rise fortemente di sé
stesso e di tutto il mondo.
Alla fermata dell’autobus,
incominciò a ricostruire mentalmente quella serata. Perché era venuto e perché
era uscito, così, senza avvertire nessuno, neppure Marco? Perché, e soprattutto
per chi la festa era stata organizzata? E quali erano i nomi di quei ragazzi?
Kadiri Abdelmajid, anche se odiava le domande dirette non poteva fare a meno di
porsene qualcuna, che rimase nella sua testa sospesa accanto ad altre domande.
Non ricordava quasi più nulla tranne il nome del cane, Rudy. La star della
serata. Aveva un nome così umano e così bello che Kadiri si sentì, per qualche
secondo, perfino emozionato:
“Anch’io, tutto sommato,
avrei potuto giocare con il cane.”