È facile
discendere agli Inferi

(Virgilio,
Eneide)

 

 

La matrigna

 

Era scesa all’ultima fermata
di una delle tante linee metropolitane di Mosca che formavano una fitta
ragnatela e si estendevano fuori città, fino alla lontana periferia. Dopo aver
salito la larga scalinata attraversò l’atrio della metropolitana fino alle
pesanti porte trasparenti con la scritta “Uscita”. Un’altra scalinata verso il
cielo grigio ed eccola, nella piazza circolare davanti alla stazione.

Si vedeva subito che pochi
anni prima lì era aperta campagna, l’aria odorava di terra fresca e bagnata e
il vento soffiava come nella steppa. Oltre la piazza si stendeva un campo con
un boschetto sopravvissuto alle nuove costruzioni che riempi-vano sempre di più
gli spazi attorno alla vecchia Mosca. A sinistra, a poca distanza dalla
stazione del metrò sorgevano nuovi palazzi di nove piani: “le navi” e fra
questi anche “le torri” che avevano più di venti piani.

Marina inspirò con piacere
l’aria fresca; lavorava nel quartiere industriale della città, fra gli
scappamenti delle macchine, e questa zona così lontana dal caos abituale le
dava sempre una sensazione di freschezza, ma anche di tristezza.

L’aria fresca e l’odore
della terra bagnata le rammentavano la sua infanzia: da ragazzina era andata
alcune volte con il babbo a cercare funghi nel bosco vicino al sobborgo e
quelle rare volte erano il suo ricordo d’infanzia più radioso.

“Avevamo trovato
cinquantasei porcini, tutti paffuti e dritti come soldatini”, ricordava, “e la
matrigna li aveva tutti bruciati nel forno della cucina a gas, cercando di
essiccarli per l’inverno, tutti li aveva bruciati, fino all’ultimo.”

A quei tempi viveva in una
casa di legno a due piani, in un quartiere periferico di Mosca. Suo padre era
un operaio e lavorava nella manifattura Filimonov, così la chiamavano per
antica abitu-dine, col nome del suo primo proprietario. Anche suo nonno aveva
lavorato nella stessa fabbrica, poi il nonno era morto e quando Marina aveva sette
anni morì anche sua madre. Passò un anno e suo padre si risposò. La matrigna si
chiamava Alessandra, aveva le ossa grosse ed era rossa in faccia. Le piaceva la
vodka e il vino rosso ed insieme a suo padre sia nei giorni di festa che alla
domenica bevevano vodka e una bottiglia di vino rosso, e poi un’altra bottiglia
di vino rosso. Di solito non le bastavano, e suo padre correva al negozio di
alimentari a prenderne una terza. Marina usciva a giocare per strada. Vedeva
suo padre ritornare dal negozio con la bottiglia. Faceva alla figliola un
sorriso e tirava fuori dalla tasca dei pantaloni una caramella. Quando
all’imbrunire Marina tornava a casa dormivano sul divano russando
rumorosamente.

– Stasera niente cena –
pensava Marina con rassegnazione e andava a chiedere del pane alla nonna Pasha
che abitava al primo piano.

Marina sapeva che Pasha non
era la sua vera nonna, ma oramai da quando era morta sua madre, lei la chiamava
così e quando a casa non c’era niente da mangiare andava da lei.

La nonna Pasha le apriva la
porta e la guardava; senza dire niente le preparava del tè caldo e dei panini
con burro e marmellata. Bevevano il tè insieme. Marina sentiva il suo stomaco
scaldarsi e si scaldava anche il suo cuore, baciava Pasha e giocava con il suo
gatto.

Un giorno verso le dieci di
sera salutò Pasha e salì al secondo piano. Entrò nella stanza e vide che
Alessandra era sveglia e seduta sul divano. Aveva la faccia rossa e gonfia di
sonno. La guardò distrattamente e le chiese:

– Vuoi del tè caldo?

– L’ho già bevuto da Pasha.

Alessandra la guardò ed
ammiccò con l’occhio destro:

– Bene, una bocca in meno.

Marina andò nella piccola
cucina, si tolse i vestiti e si sdraiò sulla brandina. La sua testolina si
trovava sotto il tavolo, doveva stare attenta a non alzarsi di scatto durante
la notte; le erano venuti già tanti bernoccoli sulla testa quando, dopo gli
incubi, si metteva di colpo a sedere sul letto. Aveva spesso degli incubi, ma
aveva imparato a non piangere e a non alzare la testa, piuttosto si
raggomitolava di più su se stessa sotto le coperte; lentamente si calmava e
finalmente si ad-dormentava di nuovo.

La mattina seguente si alzò,
come al solito, verso le sette per andare a scuola. Il padre uscì prima di lei
per recarsi alla fabbrica, la matrigna sbadigliava ancora a letto in procinto
di alzarsi.

Finalmente si alzò, mise
sulla cucina a gas il recipiente per far bollire l’acqua, tirò fuori dallo
scaffale una scatola di latta con del tè indiano. Mise un cucchiaio di tè
direttamente nella tazza di Marina e vi versò sopra l’acqua bollente. Vicino
alla tazza mise due zollette di zucchero e due pezzi di pane secco.

– Non guardarmi con quegli
occhi da pesce – gridò a Marina.

– Il burro non c’è, ho
dimenticato di comprarlo  l’altro
giorno, andrà bene anche senza burro, eh?

Marina abbassò la testa
ricacciando le lacrime che continuavano a pizzicarle gli occhi e bevve il tè
con il pane secco e lo zucchero. Il tè caldo le risollevò l’animo. Prese la
cartella ed uscì in strada.

Era contenta di andare a
scuola e non restare a casa con la matrigna anche se durante le lezioni non
riusciva a concentrarsi bene: aveva sempre fame. Aspettava la grande
ricreazione durante la quale mangiava alla mensa della scuola. “Oggi che è
lunedì, ci daranno la minestra e la carne con il purè di patate, e per dessert
mele cotte”. Le sembrava già di sentire in bocca il sapore del cibo e lo
stomaco sussultò per l’impazienza.

Aveva pochi amici, i suoi
compagni non la chiamavano mai a giocare con loro, e lei non insisteva, si
accontentava di guardarli.

“Sanno che i miei sono degli
ubriaconi, il sob-borgo è piccolo, tutti sanno tutto di tutti”, pensava con
pacata indifferenza.

Quando ebbe dodici anni suo
padre morì: finì sotto una macchina durante la corsa domenicale al negozio per
comprare la terza bottiglia.

Ai funerali del padre Marina
non pianse; da quel giorno era diventata di pietra, le lacrime non le venivano
più ed aveva sempre freddo anche nei giorni più caldi dell’estate.

Poco tempo dopo Alessandra
portò a casa un giovane di nome Nikolai e ora invece di suo padre era Nikolai
che beveva con la matrigna e dormiva con lei.

Dopo due anni Marina finì la
scuola media ed entrò nella manifattura dove prima avevano lavorato suo nonno e
suo padre.

Ad aiutarla a trovare questo
lavoro era stata Pasha il cui cognome da ragazza era Filimonov: era la figlia
del vecchio proprietario della fabbrica. Il direttore era un suo vecchio
conoscente ed avevano assunto Marina prima come apprendista e dopo sei mesi le
avevano dato la qualifica di operaia. Era una brava lavoratrice, sembrava nata
per lavorare sui telai, muovendosi velocemente fra di essi. Prima su due, poi
su quattro e dopo poco tempo aveva cominciato a lavorare su dieci telai.
Portava lo stipendio alla matrigna, Alessandra prendeva i soldi, li metteva in tasca
e ammiccava.

Il suo amante aveva quasi
vent’anni meno di lei, lavorava un giorno sì ed uno no e tutti e tre vivevano
con lo stipendio di Marina. Lei non diceva niente, aveva fatto domanda per
essere ammessa nel convitto delle operaie, ma i posti erano pochi e li davano
alle operaie che venivano da fuori città e non avevano dove dormire. Lei invece
il posto per dormire lo aveva e perciò doveva aspettare. Il suo posto per
dormire era sempre in cucina; con i primi soldi dello stipendio aveva cambiato
i mobili della cucina. Aveva buttato via la vecchia branda e aveva comprato un
divano che stava appena fra la parete dell’ingresso e il tavolo della cucina.
Se non fosse stato per la cucina a gas ed il lavandino, sarebbe sembrato un
vero locale e a Marina piaceva molto.

Era tranquilla nel suo
piccolo mondo con tutti i mobili nuovi.

Quando Nikolai tornava a
casa ubriaco e cantava a squarcia gola le vecchie canzoni lei sentiva come
Alessandra ammoniva il suo amante di non importunarla: “Se no, non ci darà i
soldi, e quelli servono, eh?”, sentiva le parole della matrigna e immaginava
come ammiccasse.

Cercava di stare in casa il
meno possibile, specialmente di notte. Una settimana al mese aveva il turno di
notte, lei ne aveva chiesto un altro. Tutti pensavano: “Vuole guadagnare di
più, è una ragazza giovane, forse pensa di sposarsi”, e lei annuiva con il suo
debole sorriso.

Di notte Marina chiudeva la
porta della cucina a chiave e si metteva il cotone nelle orecchie per non
sentire il respiro affannoso e lo scricchiolio del vecchio divano durante le
notti passionali della matrigna con Nikolai.

Dopo quelle notti Alessandra
sembrava ancora più grassa e più gonfia in faccia. Alla mattina, entrava in
cucina per preparare il tè, e ammiccava. Era gelosa del suo amante che ogni
tanto spariva per tre o quattro giorni, e quando lei gli faceva troppe domande
lui la picchiava.

A quel tempo Marina aveva
sedici anni e spesso sentiva su di sé lo sguardo acceso di Nikolai. Per non
dare nell’occhio simulava di avere la tosse battendosi il petto con il piccolo
pugno per fare vedere come le faceva male, curvava la schiena per apparire
gobba, metteva vestiti vecchi e mangiava agli per avere l’alito pesante.

Passò un anno nella continua
trepidazione che le sue inventive non bastassero a tenere lontano Nikolai. Ma
questa volta il destino le andò incontro.

Una sera vennero due
poliziotti, chiesero se Nikolai abitasse a quell’indirizzo ed invitarono
Alessandra a seguirli all’obitorio per riconoscere un cadavere trovato in una
pozza di sangue, nella cantina di un palazzo del quartiere. Alessandra fece un
sussulto, si mise il capotto sopra la vestaglia e si diresse verso la macchina
della polizia. Tornò dopo un’ora, con la faccia rossa e gonfia di lacrime, si
sfilò il capotto e si sedette sul divano. Il suo corpo grasso e flaccido
sussultava per i singhiozzi.

Da quel giorno non fu più la
stessa. Si lamentava con Marina che le mancava Nikolai, “come uomo”, aggiungeva
con un sorriso storto e il suo occhio ammiccava.

La sua salute aveva
cominciato a vacillare. In due anni aveva perso più di dieci chili e la pelle
della faccia le cadeva sul mento. Aveva circa sessant’anni e di colpo era
diventata come se ne avesse novanta.

 

Dietro gli alberi si vedeva
già un grigio edificio a quattro piani con una targa sul portone d’ingresso:
“Clinica geriatrica n° 4, città di Mosca”.

Entrando nel portone Marina
salutò la guardia e sorrise come ad una vecchia conoscenza. Salì al secondo
piano. Suonò il campanello. La giovane infermiera le aprì la porta e la
richiuse subito dopo che Marina fu passata.

– Vengo per la Minaev –
disse, chiamando la matrigna con il suo cognome. L’infermiera annuì e si
incamminò lungo il corridoio. Aprì la porta di una stanza che era chiusa a
chiave. L’odore aspro delle urine come un’onda colpì Marina. Dei sette letti
quattro erano occupati da figure che sembravano ombre grigie. Lei tirò fuori
dalla tasca delle caramelle e le offrì ad ognuna di queste ombre. Allungavano
da sotto le lenzuola grigie le mani dello stesso colore.

La matrigna Alessandra era
seduta sul suo letto posto vicino alla finestra con le inferriate. Indossava
una vestaglia; ai piedi, appoggiati sul pavimento di linoleum di color verde
sporco, aveva dei calzini di lana. Teneva le mani in grem-bo e si dondolava
lentamente avanti e indietro.

Quando Marina le si
avvicinò, lei non reagì. Marina prese il pettine dal comodino e cominciò a
pettinarla. Le fece una piccola crocchia sulla nuca e la fissò con una
molletta. Controllò che fosse pulita sotto la vestaglia.

Le mise le pantofole ai
piedi e la portò nel corridoio verso la piccola sala da pranzo. Fece sedere
Alessandra vicino al tavolo e tolse dal borsone che portava con sé un termos
con della minestra, delle patate bollite e un recipiente con l’insalata e della
verdura fresca. Per ultimo sbuc-ciò una banana e la diede ad Alessandra. Ella
l’afferrò con la mano, come fanno i bambini piccoli e la mangiò avidamente.

Fecero due passi nel
corridoio, la faccia di Alessandra era rossa e contenta. Dopo due giri nel
corridoio il suo corpo si afflosciò e Marina dovette farsi aiutare per
riportarla a letto.

Seduta sul suo letto, Marina
guardava la vecchia e una morsa di pietà le strinse il cuore. Al di là del
volto grigio della matrigna adagiato sul cuscino, vedeva se stessa bambina
sempre affamata e suo padre ubriaco che tirava fuori dalla tasca una caramella.
Il dolore per la sua infanzia infelice, per la morte prematura dei genitori, e
anche per questa sua matrigna folle e morente, era talmente acuto che le aveva
fatto dimenticare i soprusi patiti da ragazza.

Un nuovo sentimento nacque
dentro di lei, prima appena accennato, flebile come un lumino, ma che andava
irrobustendosi sempre di più.

Una compassione mai sentita
prima le riempì il cuore.

– Come può il mio piccolo
cuore sentire tanta infinita pietà? – si chiese.

Qualcosa si ruppe dentro di
lei e Marina cominciò a piangere.

Alessandra aprì gli occhi
nei quali balenò una debole luce. Fece una smorfia come una bambina offesa,
prese la mano di Marina e con evidente fatica a muovere la lingua e le labbra
bisbigliò:

– Grazie.

Poi dalla bocca partì un
gemito incontrollato, le labbra presero la forma di uno storto sorriso e il suo
occhio ammiccava, ammiccava…

 

 

 

 


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