L’altro oceanoTC
"L’altro oceano"
Da quello che so era un uomo
senza tempo. Un uomo non comune, poco perdente. Poco tutto, immerso nella
propria intelligenza, troppo intelligente, troppo tutto. E troppo l’ho amato.
Ho avuto un padre senza tempo, un troppo padre. Troppo uomo addormentato nel
dirmi che non avrei dovuto partire: “Parigi non l’ho mai conosciuta,” mi
disse. Rimasi senza partenze, nell’attesa d’un avvenire forse romantico. I miei
occhi brillavano nel tempo d’una Parigi quasi radiosa, così lontana, distante
dal consenso di mio padre. Non mi importava della Parigi dei tempi inerti o
brillanti, non amavo più Parigi, quella città, una città, il nostro comune
miraggio d’ibrida civitas così pungente, tuttora romantica come noi,
padre e figlia.
Abbiamo attraversato poi gli
anni, consumato l’arredo anni ’60, anche se allora non sapevo identificare la
sua bellezza: l’orologio in cedro chiaro, i divani arrotondati, i vetri foschi
che nascondevano ancora di più persiane surreali, il legno del pavimento
lucidato con della cera forte, dal potente odore, cuscini quasi futuristi, il
pianoforte in salotto che nascondeva le trappole per i topi. Mai avuto paura
dei topi, semmai era un divertimento e il legno brillava, l’orologio suonava le
ore giuste, il giradischi si metteva in moto, mio padre leggeva fino all’alba.
Mio padre non dormiva mai?
Leggeva.
Mio padre era un
intellettuale senza pretese, quasi un indiano. Grande saggio. Grande. Mio padre
rimane senza tempo. La figlia rimane senza risposte, senza lui, i suoi silenzi,
il suo modo di lavarsi i denti camminando per la casa. La sua chitarra
silenziosa e le sue poesie, quante, quanto belle, mio padre poeta, veggente,
ormai arreso su un letto caldo. E se piango le mie lacrime sono per il mio
padre poeta, non per l’uomo. Lui rimane un uomo, troppo sensibile e serio.
Mio padre era un uomo da non
dimenticare. Pieno di contraddizioni, lussurie, piccoli sfoghi mentre si è
soli, senza persone intorno. Amava gli alberi, la campagna: nel tempo libero si
va in campagna anche senza scattare fotografie, si va comunque in campagna, in
un deserto tropicale così vasto da inghiottire il suo silenzio, me, la campagna
stessa, l’intera Amazzonia non così vasta come il rapporto tra me e mio padre
finché c’è stato, finché non si è immerso in un silenzio più strano del solito,
non suo, non voluto, poco mondano, poco intellettuale, poco impegnato, poco
tutto come forse prima tutto era troppo. Ormai rifiuta di tenere in mano una
penna. La getta via. Ormai è su un’altra strada, in una dimensione nascosta ai
nostri sguardi curiosi, sguardi da bambini innocenti.
E mio padre diventa ancora
mio padre, una nazione, un luogo di sofferenza e mistero, un buco nero, una Y,
l’angolo che condivido con i miei nuovi amici, un qualcosa che non so, talmente
veritiero da annullare ogni poesia, campagne, erbe, arredi anni ’60, sentieri
proibiti.
Lui si metteva a recitare
Augusto dos Anjos o Carlos Drumond de Andrade o Camões e chiunque gli fosse
vicino si fermava per ascoltarlo con le lacrime agli occhi, assorto nel suono
delle sue parole che comunque non erano sue, ma dei suoi poeti preferiti o più
studiati; non ho mai capito bene quali erano poi i suoi poeti preferiti, mio
padre non dava giudizi sonori, ma soltanto con l’intensità della muta parola,
indecifrabili giudizi, sì.
Poi dovevo allontanarmi,
sarei andata via con uno straniero, forse per sempre e mio padre sarebbe
rimasto da solo con le sue poesie preferite. Non mi ha detto di non andare, ma
ha pianto alla mia partenza, sulla porta di casa, triste e indifeso, mio padre.
Arrivati all’aeroporto, ha discusso infuriato con me: voleva presentarmi ad una
sua amica che per caso, a sua insaputa, era stata una mia insegnante
all’università con la quale avevo avuto degli scontri sul piano
teorico-metodologico abbastanza consistenti. E gli avrei detto: “Ora non posso
andare a salutarla, sono in mezzo ad un problema tecnico con i miei bagagli”.
Ero piena di valigie, trascinavo dietro a me i miei pochi ma oltremodo intensi ventitrè
anni
piena di libri e dischi e qualche poesia amata da mio padre
Camões,
Carlos Drumond de Andrade, Augusto dos Anjos
e forse qualche altro poeta che
ormai non ricordo.
Stavo andando via, dovevo
trovare o forse ritrovare gli amici di sempre, quelli dall’altro lato
dell’oceano, quelli che già ti amavano senza conoscerti, soltanto per i miei
racconti sul tuo sensibile procedere o sulla tua assenza, eterna assenza,
condivisi da loro, dai miei amici che, per una strana coincidenza, da quando mi
hanno conosciuta, si bagnano nelle acque limitrofe di un nostro supposto
continente da preservare. Preservare da chi? Da te stesso? E in che modo? Forse
non è possibile, lo sai. Non è proprio possibile e nemmeno giusto, poco serio,
lo sai: poco noi o la nostra sensibilità, poco tutto, del tutto assente come
supposto procedere auten-ticamente sensibile o soltanto libertario. Co-munque,
hai continuato a non condividere la mia partenza verso un luogo così lontano da
te e dai tuoi poeti preferiti e, in quel preciso momento, ho fatto finta di non
capire questa tua mancanza o predisposto rifiuto verso ciò che non conoscevi se
non a livello letterario o puramente linguistico, ho recitato più di quanto
avrei dovuto recitare, ma sempre in modo benevolo, nel luogo di non-appartenenza,
e da ora in poi, non mi muoverò più. Rimarrò qui con loro, ma sempre sola da
te: la nostra danza alla TV, i nostri progetti di viaggi lontani o la probabile
costruzione della tua biblioteca che, in un certo senso, sarebbe stata anche
mia, proprio perché avrei divorato – con una certa dolcezza – il risultato
finale d’un tuo pensiero oltre che progettuale, cosmico: il contrario di ogni
continente possibilmente composto da fotografie di altrettanto possibili album
di famiglia, con noi in mezzo, in mezzo alle fotografie altrui
Non sappiamo
bene, non possiamo identificare ogni volto, anche se tuttora ce le ho e le
conservo con grande cura o quasi gelosia, ma non è stato ancora completato
quest’album dove, con lentezza, comincio ad inserire le foto dei miei amici in
cui, da un certo posizionamento del loro volto, vedo te ma anche le loro storie
così identiche alla mia: c’è chi tra loro mi ha raccontato che desidera
diventare giudice, anche se i suoi genitori lo hanno mandato via di casa,
perché non aveva voluto seguire la carriera del padre, non era voluto diventare
un medico in una potente città di provincia; c’è chi tra loro preferisce
spendere un’intera, anche se piccolissima, economia conseguita con lavori
temporanei, in un progetto artistico troppo rischioso ma non sempre perdente,
piuttosto che mettersi a gestire il negozio del padre ormai anziano; e c’è
anche chi preferisce, sempre tra i miei migliori amici conquistati con grande
fatica, rinunciare ad una eredità o a un lavoro al Quirinale, per dedicarsi
alla piccola, istituzionale ricerca umanistica nell’ambito puramente
universitario, magari senza mai riscontrare un risultato pratico o
indistintamente trasparente: così un possibile modello di identificazione
diventa la natura d’un esercizio del fare completamente distinta dalla
praticità o immediatezza d’una azione in longitudinale divergenza con il loro
peso moralistico, affettivo o di pura razionalità (come quella di cui mio
padre, involontariamente, mi ha spiegato il senso) e immediatamente ho avuto la
fortuna di includere i miei amici all’interno d’un nuovissimo concetto di
comportamento, e verificare l’essenzialità o l’ambiguità dei compromessi. La
parola d’ordine, d’ora in poi, non ha alcun senso: soltanto il confrontarsi è
per noi, d’ora in avanti, la parola massima, quella da seguire in ogni caso,
ovunque saremo: su ogni margine d’un nostro possibile continente.
Comunque, prima ancora che
mi decidessi a partire con quello straniero, come dicevo al principio, mio
padre aveva sempre coltivato l’abitudine di telefonarmi durante la notte per
avvertirmi che stavano dando alla TV qualche spettacolo di danza da non
dimenticare, da vedere in assoluto e, puntualmente, accendevo quel
parallelepipedo ultracolorato per vedere l’oggetto della nostra comune
passione. Dopo la parola veniva per noi, padre e figlia, la danza e ancora
progetti di viaggi lontani, nemmeno avventurosi, ma soltanto lontani
non
avevamo ancora superato gli anni ’60, l’odore della cera sul legno, l’aria
tropicale bagnata di pioggia, l’umidità impregnata sul vetro dei ritratti di
famiglia, il senso d’appartenenza ad un luogo bello e dalla bellezza difficile,
complesso e, dalla complessità, dimenticato.
Mio padre ha sempre chiesto
meno di quello che chiedevo io: non è mai stato austero o orgoglioso, ma ha
sempre avuto più paura delle lettere o degli spostamenti geografici, di quanto
ne abbia avuta io. Si è dato molto di meno e così, in un certo modo, si è
salvato. Si è salvato da una certa critica o dalla involontaria necessità di
recitare, mentre si è nel luogo di non-appartenenza, il luogo dell’oblio,
nemmeno inseriti in un gruppo specifico – non siamo zingari o ricchi studenti
che concludono la laurea o il dottorato in un luogo estraneo al liceo
precedente e non apparteniamo a nessuna setta misteriosa o semplicemente
mistica, non facciamo uso di droga e non la vendiamo, non dimentichiamo mai di
dire buon giorno e buona sera nell’ascensore e, in autobus, cediamo il posto
alle vecchiette stanche, tutte cose che avremmo comunque fatto nel nostro luogo
d’appartenenza ma che forse, per un estremo desiderio d’identificazione o di
accoglienza, ci vengono ancora più spontanee e doverose
tutto ciò non l’ho
mai detto a mio padre che ormai si trovava in un’altra dimensione, così diversa
dalla mia
non c’era alcun senso che gli parlassi di Parigi o dell’Olanda o
dell’Italia dove vivevo, ormai a sua insaputa. Non c’era più bisogno, avevamo
compreso tutto quanto, tutto quello che c’era da comprendere, la nostra vita e
i nostri comuni sogni.
Arrivata in un luogo che non
era quello di mio padre – lo era soltanto idealmente o per ragioni puramente
linguistiche, giacché lui da qualche anno si era messo a studiare l’italiano –
mi sono sentita persa, sprofondata in qualcosa di più grande di me. C’era la
nebbia e la nebbia non la conoscevo, c’era la grandine e la grandine non la
conoscevo e mi sono svegliata durante la notte pensando che il mondo stava per
finire: era la grandine sulla finestra, il suo rumore sul vetro. Il
distruggente rumore della grandine sul vetro. E ancora lo sento.
Un giorno mi ha telefonato,
ero ormai lontana da tanto, anche se ancora sento le sue parole al telefono:
“Andiamo insieme in Russia, andiamo in Russia. Forse anche in Germania. Voglio
andare lì con te, noi due.” Non era ancora caduto il muro di Berlino, ma lui
voleva andare in Russia, desiderava la Russia, come fosse uno straniero
sperduto come me: la figlia adorata, la figlia. E quando penso a ciò, quando mi
metto a fare un paragone tra noi, provocato dal suo stesso procedere, mi viene
qualche dubbio: lui era sempre il grande, il poeta.
A questo punto, divento la
figlia orfana d’un padre reale. Divento la figlia del poeta. E del poeta della
rinuncia. Divento la figlia di qualcuno per me importante e che al tempo stesso
mi porta verso viaggi senza fine, persone sconosciute, luoghi eternamente e
ancora sconosciuti. Luoghi ormai impossibili da cancellare, anche se inseriti
in quello specifico dettaglio dell’oblio comu-nitario, che ospita a volte con
fatica, ma a volte dolcemente, le nostre giornate: l’oblio mentale, che con
grande lentezza costruisce all’interno della mia casa fisica una specie di
parete mobile, che mi ripara dalle intemperie altrettanto fisiche del mio luogo
d’adozione che ormai ci divide, padre e figlia. A lui ho sempre parlato
dell’amica che qui, sempre più lontano da lui, ho conquistato con grandissima
difficoltà, ma è qui con me e mi protegge, protegge le mie, nostre differenze,
le nostre incomprensioni a volte troppo ermetiche o prosaiche, ma nostre e non
dal nostro dire
Bisognerebbe uscire dal
guscio e rischiare, rischiare sempre, ovunque. L’alba non è mai lontana, non
più di quello che possiamo sperare e io, lo sai, ti ho detto tante volte nelle
lettere (che ti scrivevo con una fretta incredibile, quasi avessi qualcuno
dietro che mi volesse tagliare la testa se non le firmavo subito) che per me
era arrivata l’ora di fermarmi, per mettere in discussione tutta una
lunghissima serie di osservazioni sul comportamento di qualcuno che non è della
nostra stessa città, osservazioni impostate da te come verità assoluta e da
seguire in ogni caso, ovunque fossimo, ovunque sono. E se ho bisogno di toccare
ancora questo argomento forse imbarazzante, come se tu ancora mi potessi
sentire su quel letto dei sogni perenni, è perché credo nel potere della parola
prima ancora che nel potere dell’azione, e ciò sta ad indicare che forse vado
controcorrente, ma se lo faccio è anche per poter avvicinarmi a te ancora una
volta, l’ultima volta, da qui, dal luogo di non-appartenenza, toccata per mano
dai miei amici: non ti abbiamo mai dimenticato. Soltanto questo ti volevo dire.
Dall’altro lato dell’oceano, non ti abbiamo mai dimenticato.
E se tu non fossi disteso su
un letto caldo, se avessimo potuto risparmiarci questa grande sofferenza, ti
avrei raccontato ancora non soltanto di questa mia amica, ma degli amici che
nel tempo sono riuscita ad avvolgere in un tessuto talmente irreale da creare
con le loro voci e gesti, particolarità e mancanze, un tuo ritratto
specu-lativo e parzialmente finto, fino a che non fossimo riusciti, io e i miei
amici dell’oblio, ad incorni-ciare un tuo ritratto universale che ci accomuna
ancora di più, mentre tu, l’uomo-mio-padre, circondato da una bellissima
cornice quasi futurista come i cuscini di casa nostra, tu ora ti metti a
dipingere tra ritratto e cornice, tra quello spazio che potrebbe essere
ricoperto da un tessuto altrettanto bello, sempre tra ritratto e cornice, nello
spazio d’un nostro vedere quasi assoluto per la troppa nostalgia d’un tuo specifico
nome di padre, il tuo essere genuinamente semplice tra me e loro, i miei nuovi
amici, quelli che hai sempre conosciuto fin troppo bene da lontano, purtroppo
da lontano. Ed ora, che ne sarà della tua grammatica? La potrò utilizzare per
conoscere una lingua che ormai fa parte di me? Per conoscere il desiderio d’una
lingua da te amata? E quando? Lo potrò mai fare?
E quella volta, quando ti
sei arrabbiato con me – e avevo solo quindici anni – all’uscita di quel ballo
di carnevale, ti ho detto che volevo andarmene, volevo lasciare la nostra
città, ti ricordi? Sei rimasto infuriato, infuriatissimo! Hai anche smesso di
parlare con me per qualche tempo, ricordi? Forse no, ma non ha importanza. Lo
posso capire
questo episodio risale a tanto tempo fa, non è vero?
Ormai ero adulta e me ne
stavo andando via con uno straniero, sei anche arrivato in ritardo per i saluti
e ti sei arrabbiato con qualcuno che non ricordo e te ne sei andato ancora
prima del tuo arrivo senza salutarmi, ti ricordi? Per quanto riguarda queste
tue mosse così strategiche, ti ritengo un vero artista e ti capisco anche! Non
sono altro che gesti compiuti da un animo sensibile, anche se la violenza c’è,
c’è sempre stata e i miei amici, lontani da te, hanno capito il senso di tale
violenza estetica, perché no? anche estetica, come estetica risulta la mia
realtà nel luogo di non-appartenenza; e forse lo sai, visto che non sono più
tornata, anzi, ti aspettavo, dovevamo andare insieme in Russia e forse in
Germania, ma poi ti sei ammalato e la tua malattia l’abbiamo trasformata in un tableau
vivant, un’opera di pura contemplazione: te stesso. La mancanza della tua
vita nella nostra vita presente – noi dall’altro lato dell’oceano, persi da te,
dai tuoi racconti e fantasie – o il tuo desiderio di alzarti in mezzo ad un
discorso più accalorato, nient’altro che un tuo gesto involontario che rivela
ciò che avviene in mezzo ad un triangolo formato da noi, l’oceano e te. E il
resto è niente. È fantasia domenicale, antica lussuria di un tempo, il diverso
del Noi geograficamente divisi in un solo Io vivente: la grazia del vivere sul
luogo della non-appartenenza. La grande sfida poco condivisa da un’intera
umanità che non ci appartiene, che non è in noi. Che non può essere me e i miei
amici, perché non ci siamo: stiamo dall’altro lato dell’oceano. Siamo più
divisi che mai, più inconsapevoli che mai e moriremo così. E così è, e
dev’essere: noi che ormai siamo diventati un tutt’uno, che siamo l’ombra di ciò
che nascerà da noi, non possiamo fare nessun’altra scelta.
L’ora è arrivata: non
diventeremo mai alberi, ma radici, e ciò è quasi una legge, un obbligo da
eseguire, un vero destino. E saremo pieni di coscienza e non di una coscienza
data, proprio come ora mi ricordo e distinguo la bellezza dell’arredo anni ’60
di casa nostra con i suoi divani arrotondati e il pavimento di legno
dell’antica Vera Cruzes, come la nostalgia e la Storia raccomandano per formare
un ricordo veritiero e forse palpabile: basta ricordare mio padre, mi basta lui
per formare un tale ricordo, ma ora la mia vita è più vasta, è anche formata da
loro, dagli amici che mi toccano il palmo della mano e guardano le complicate
linee
Ho vis-suto l’universalmente piccolo e l’universalmente grande e sono a
posto con la coscienza, anche se sono già lontana, spesso da sola, ma sempre
con loro, i miei amici.
Con me ho ancora il tuo
libro firmato da Sartre, la tua biblioteca, pensieri costruiti sui fogli,
troppo austeri, staccati, il progetto della tua nuova biblioteca mai costruita,
le tue lacrime nei confronti della musica, la danza e la pittura, mio padre
artista, poeta visionario, che dalle ultime notizie capitate tra le mie mani è
descritto così: grande avvocato, grande uomo. Andato via senza andarsene del
tutto, ancora con me e con i miei nuovi amici, l’uomo mio padre, andato via
prima d’un viaggio, andato via prima d’un momento.