L’altra parte dell’AdriaticoTC
"L’altra parte dell’Adriatico"
Un giorno, un
uomo di Sarajevo di passaggio a Rimini, rimase colpito dalla sua bellezza, e
nella tristezza giornaliera di una città che ha l’aspetto di un campo di
concentramento, ha immaginato che questa bellezza potesse dare calore al suo
ristorante chiamandolo “Rimini”.
Ha pensato
che ci potessero venire tante persone di Sarajevo per rifugiarsi e ripararsi
dai proiettili dei mitra. Per l’uomo di “Rimini” è chiaro che la guerra non
comprende il territorio globale; ma il tempo globale, non vuole, o non può
accettare che un atto di guerra uccida la realtà di tutti i sopravvissuti.
L’altra, la
vera Rimini di Fellini, gli sembra irreale, un gioco, il mare e il sole, la
vita come un eterno carnevale.
Tra noi
profughi dalla ex Jugoslavia, si parla di Dario, un ragazzo sedicenne che per
paura della guerra è fuggito da Sarajevo a Zagabria. Da lì, dicono, in
bicicletta è arrivato alla frontiera italiana e si è trovato poi a Rimini e qui
ha capito che non desidera più continuare a cercare un posto sotto il sole.
Dario ha trovato la propria fortuna: d’estate, travestito da Pippo di gomma,
posa per un fotografo sulle spiagge; d’inverno, travestito da babbo Natale, si
esibisce sulle strade, convinto che d’estate non faccia caldo, e che d’inverno
non faccia freddo. Per sua madre, psicologicamente confusa, come conseguenza
della guerra, quello che fa suo figlio è un lavoro meraviglioso. Gli ha scritto
da Sarajevo: “Caro figlio, ti consiglio, continua a stare in compagnia di gente
ricca, evita i poveri”, poi ha aggiunto, “io qui a Sarajevo sogno quello che
non ho. Sogno una cosa e mi succede tutt’altro. Al mercato puoi comprare
insalata e bombe, prezzemolo e proiettili, carote e pistole. È più facile
comprare armi che cibo, ed è più facile morire che vivere. Oh Signore, siamo
poi così colpevoli.”
***
Quando fuggi
dalla Bosnia, e dalla guerra, sei convinto che un giorno da qualche parte ti
fermerai.
Ti sistemi
temporaneamente e pensi di esserci riuscito, perché l’importante era sfuggire
alla disgrazia da cui ti separa solo il mare; tutto d’un tratto capisci che in
realtà non appartieni più a nessuno, nemmeno a te stesso, la tua vita è uscita
dal binario, sei colpevole senza avere delle colpe, ti senti come Kafka: lo
sguardo degli occhi è spento guardando il mare, immagini com’è dall’altra parte
dell’Adriatico, sulla costa che una volta ti faceva sentire te stesso e dove
ora non puoi appoggiare il piede senza un permesso speciale. Ti fai una
passeggiata, e il pensiero ti risuona nella mente: “È facile ritornare se sai
dove”. Poi lo sguardo si ferma sulla vetrina di una libreria, noti un romanzo
nuovo di Márquez, Dell’amore e di altri demoni, sembra strano che qualcuno
ancora scriva romanzi d’amore.
Continui la
passeggiata e incontri loro due. Disperati, fuggendo dalla morte, si sono
trovati a Rimini, si sono presi per mano per non perdersi. Lui è mussulmano,
lei croata: per questo il loro amore è accompagnato dalla paura che non si
sappia in Bosnia, là, dove l’amore e la felicità vengono sacrificati in nome
della patria. Si nascondevano nelle cantine per ripararsi dalle bombe, cantine
di un mondo che appartiene a una generazione perduta, un popolo perduto, una nazione
perduta. Lei ha saputo che a Sarajevo ci sono le primule: d’un tratto un
pensiero trafora ad entrambi le menti: “Là, molti ragazzi vivono il loro amore
di passaggio realizzando soltanto un certificato per la loro tomba.”
“Qui pensi a
loro, là; il giorno ti fa impazzire e la notte non ti fa dormire, perché sai
che qui sei straniero,” pensa lui a voce alta.
“Sei
condannato a girovagare come Ahasver,” aggiunge lei.