A Fritz *.

Lui sa perché.

*Fritz è un gatto nato e cresciuto nel carcere Le Vallette di Torino.

 

 

«Sono una volpe», disse la volpe.

«Vieni a giocare con me», le propose il piccolo
principe, «sono cosi triste…».

«Non posso giocare con te», disse la volpe, «non
sono addomesticata».

«Ah, scusa», fece il piccolo principe.

Ma dopo un momento di riflessione soggiunse:

«Che cosa vuoi dire “addomesticare”»?

«Una cosa da molto dimenticata. Vuoi dire “creare dei legami”…».

«Creare
dei legami?»

«Certo», disse la volpe. «Tu, fino ad ora,
per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno
di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale
a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno
dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo».

 

Antoine de Saint-Exupéry

Il Piccolo
Principe,
XLII
edizione, «Tascabili Bompiani», Milano1997

Il sole,
tremendo, cadeva a piombo frantumandosi sulla sabbia e lo sfolgorio sul mare
era accecante. Si respirava a fatica nel calore torrido che montava dalla
spiaggia.

Una brusca essiccata stella di sangue macchiava
uno scoglio; e, a volte, una piccola onda, pigra, più lunga delle altre, veniva
a bagnare il corpo di un uomo, disteso, immobile con la faccia in giù che lo si
sarebbe detto un burattino rotto, e delle bollicine venivano a scoppiare a fior
d’acqua intorno al suo corpo. Aveva una ferita al capo.

L’uomo emerse lentamente dal lungo svenimento come
da un deserto viscoso e restò, disteso, abbacinato dal pieno splendore del sole
che cancellava rapidamente gli ultimi veli d’acqua che gli colavano sul viso,
ora girato verso il cielo. La sete lo ardeva e sentì nel petto un palpito doloroso
mentre un sentimento vago che non riusciva a decifrare gli si insinuava nella
mente: forse una cosa stupida e assurda, una suggestione senza costrutto.

Nell’aria calma è
venuto fino a lui il leggero ronzio di un motore; sollevò con fatica il capo e
vide, molto lontano, un piccolo peschereccio che avanzava impercettibilmente
sul mare luccicante. Poi, tutto ristagnò in un torpore misterioso ma il calore
era tale che era una fatica anche restare immobile sotto la pioggia accecante
che cadeva dal cielo. L’uomo si raddrizzò lentamente, le labbra arse e
tremanti, attraversate da un gemito poi, scalzo, avanzò barcollante calpestando
confuse generazioni di bottiglie di plastica frammiste a sciabolate di luce
sprizzate dalla sabbia, e, nel cammino, avvertiva una sottile inquietudine;
tutto attorno a sé traspirava un’aria inospitale e sinistra: cose gravi e
sconosciute lo attendevano. Superò senza scostare, probabilmente senza sentire,
i rovi che gli laceravano le carni, e si trasse ansimante e insanguinato fino a
un terreno brullo. Rimase immobile come se tutto si fosse chiuso intorno a sé
poi sentì delle gocce di sudore accumularsi nelle sopracciglia e colare di
colpo giù sulle palpebre ricoprendole di un velo tepido e denso. Con gli occhi
che vagavano in un indistinto vagabondaggio, scorse una campagna, ruggine e
verde, sobbalzare in un nembo di caldo sotto il sole eccessivo e ronzare del
grido inconsolabile degli insetti. I rari alberi ingrandivano il paesaggio,
toccato all’orizzonte da una striscia irregolare di basse colline poi, fugaci
movimenti, quasi di sogno, gli passarono davanti e gli sembrò di vedere,
lontano, torbidi animali neri al pascolo. S’impegnò con fatica a modellare la
materia remota e incoerente dalla quale sorsero, nitidamente, uomini curvi a
torso nudo che raccoglievano i pomodori. Stordito dalla luce cruda che dal
cielo si riversava sulla campagna, l’uomo prese un sentiero che portava a un
olivo; si sdraiò all’ombra accumulata ai piedi dell’albero, passò le mani
dietro la nuca, e, immobile, lo sguardo inerte, sentiva circolare le onde del
suo sangue. Aveva una gran sete e il vago sentimento che non riusciva a
decifrare tornava a insinuarsi nella sua mente ma, pochi minuti dopo, il sonno
l’annegò come un’acqua scura.

L’uomo giacque
supino, sognò e si lamentò; infine, si svegliò mentre una fiammata d’ultimo
sole obliquo lo disegnava e un triste canto s’avvicinava e s’allontanava, nel
va e vieni della brezza che passava sulla campagna portando con sé un profumo
di sale e mitigando il caldo soffocante che restava del giorno. La sete lo
abbatteva ma camminò, con lentezza possente, tra i campi già confusi nel
crepuscolo che gravava. Poi la stanchezza l’arrestò improvvisamente accanto a
un leccio; in alto, caotici rami s’intrecciavano piegati dai venti da sud-est,
e nella penombra sedevano quattro braccianti attorno a una tovaglia sulla quale
c’era del cibo. Quando alzarono gli occhi, l’orrore e la compassione si fusero
insieme e tutto si fermò lì tra le carni e la maglietta lacerate, il sangue
rappreso, il doppio silenzio loro e dell’uomo scalzo che fissava una bottiglia
d’acqua, e le sue labbra arse si muovevano come ansiose di formulare una
richiesta. E un bracciante, dopo aver ripreso un certo dominio sul proprio
stupore, riempì un bicchiere d’acqua e lo tese all’uomo, che lo trangugiò d’un
fiato. Allora, con aria di benevolenza gli diede l’intera bottiglia dicendo:

«Bevi, fratello,
bevi se hai sete!».

Mentre l’uomo si
dissetava, i braccianti parlarono adagio; tra una parola e l’altra faceva in
tempo a insinuarsi il silenzio, poi l’invitarono a sedersi accompagnando le
parole con un gesto della mano.

Divisero il cibo e
mangiarono.

Già il sole si
staccava rapidamente dalle remote colline e giù per i campi irrompevano le
livide folate della notte, quando un bracciante si rivolse all’uomo con voce
bassa ma chiarissima:

«Mi chiamo
N’dululu». E, dopo una lunga pausa, domandò placido: «Come ti chiami,
fratello?».

L’uomo, a un
braccio da N’dululu, era come se fosse remotissimo e sembrava non percepire i
suoni che l’altro infondeva.

«N’dululu!»,
riprese il bracciante puntandosi l’indice. Poi indicò ad uno ad uno i suoi
compagni scandendo i loro nomi: «Ahmed, Modou, Abdi». Infine, puntò il suo
indice contro l’uomo e domandò: «Tu! Come ti chiami?».

Un vago pallore
invase il volto dell’uomo, impietrito, con la testa china di lato, gli occhi
rivolti in alto, come in cerca nell’aria di una risposta. Poi, fu colto dal
terrore, si alzò, si guardò da tutti i lati come se cercasse un riferimento; si
girava su se stesso, borbottava sillabe sconnesse che gli morivano sulle
labbra, ricominciava a scrutare la campagna coi suoi occhi colmi
dell’improvvisa oppressione, infine, con le mani strette a pugno si comprimette
le tempie come se stesse strizzando la sua memoria porosa per l’oblio. Ma era
molto più arduo che tessere una corda di sabbia; sillabe, solo sillabe
sradicate e mutilate era la povera elemosina che gli lasciavano le ore e
l’intero passato: la sua memoria si era persa come l’acqua nell’acqua.

L’uomo si gettò sulla terra e restò immobile, le
narici dilatate, la bocca semiaperta, i pugni contratti, simile a una piccola
sfinge. N’dululu, Ahmed, Abdi e Modou si guardavano, senza abbassare gli occhi,
e pensavano all’unisono, ma non avevano tradotto in parole i loro pensieri e
sentivano il contagio dell’inquietudine di quell’uomo.

«Ld ildhd
illd Allah
non c’è altro dio al di fuori di Allah; La ilahù illù Allah», ripeteva N’dululu, con un’ombra di
apprensione che vibrava nella sua voce, unendo, quasi in atto di preghiera, le
punte delle sue dita magre e callose.

Passarono minuti
immobili. I quattro braccianti erano come paralizzati alla vista di quel
dolore, poi N’dululu si avvicinò all’uomo, gli poggiò una mano sulla spalla e
domandò con grande commiserazione: «Ma non ti ricordi proprio niente,
fratello?». E sentì subito, nel dire quelle parole, quanto fosse irrisorio
interrogare quell’uomo inconsolabile per il quale il passato era solo un
indefinito rumore.

Il silenzio
sterminato tornò incontrastato signore della campagna mentre l’uomo lottava,
inutilmente, contro l’oblio inesauribile e grosse lacrime di stanchezza e di
dolore gli scendevano sulle guance. Ma, per via delle ferite, non gli colavano
giù; si distendevano, si raccoglievano, e formavano una vernice d’acqua su quel
viso distrutto.

La notte si era
fatta spessa. I braccianti si alzarono senza rumore, in un’inutile perfezione
del silenzio. N’dululu piegò e lisciò la tovaglia con irreprensibile
meticolosità e la rimise in uno zaino. Poi, con un’ombra di turbamento sul
volto, fece rialzare l’uomo abbandonato alla furia della sua disperazione,
stravolto, con le pupille accese dalle lugubre fiamme dello smarrimento.
Presero, in fila, per un sentiero rettilineo di terra battuta mentre la luna,
bassa e circolare, sembrava accompagnarli; e giunti davanti a una vasca
d’acqua, si rinfrescarono, offrirono all’uomo vestiti puliti e lo calzarono;
poi raggiunsero una stazione ferroviaria e salirono su un treno diretto verso
la città.

Insieme, occuparono un compartimento e i braccianti
confabularono, con aria imprenditoriale, di grandi investimenti collettivi e di
commercio ambulante poi si addormentarono. Tutta quella notte, la lucidità
intollerabile dell’insonnia s’abbatté sull’uomo che, chiuso nel suo imponente
silenzio, a tratti si prendeva il volto fra le mani e la sostanza fuggitiva del
tempo gli attraversava quel buio che aveva nel cervello. Infine, la notte
precipitò nel giorno e attraverso i vetri dei finestrini, a destra e a
sinistra, ora si vedeva la città disintegrarsi; poi, le sagome tetre, senza
luce, delle torri popolose si alternarono con rapidità decrescente e il treno
si fermò. L’uomo, gli sguardi atoni e pesanti, attraversò la febbrile stazione
seguendo come un automa i braccianti. Sui marciapiedi, fitti grappoli di
passanti affrettati, dai volti immobili e neutri, affogavano nel frastuono e
nella caligine che avvolgeva la città.

«Fratello!», disse
N’dululu, e aveva nell’accento con cui pronunciò quella parola una malinconia
solenne e tranquilla. «Qui le nostre strade si separano. Ti affidiamo
all’Onnipotente che non abbandona mai una sua creatura. Se la tua amnesia
persiste, rivolgiti alla polizia».

Tutti gli
strinsero la mano e l’abbracciarono come se quella notte in cui non avevano
scambiato parola avesse aumentato la loro intimità. Gli infilarono una
banconota in tasca e, attraverso le scale, sprofondarono nelle viscere della
città.

Più nulla di loro giungerà fino a lui; non li
rivedrà mai più e non li incontrerà mai più dilatata desolazione, e da quel
giorno, anche le sue sillabe cessarono, come se qualcosa dentro di lui si fosse
chiuso per sempre.

Mangiò. Lacrime di solitudine gli caddero sul pane
e gocciolarono dentro il tè; poi, per sfuggire all’abbraccio di un improvviso
freddo notturno, entrò, furtivo, e si sedette nella sala d’attesa occupata da
persone molto magre, vestite dimesse, bestialmente assopite, scosse da oscuri
affanni, le bocche socchiuse e cadenti. Quasi ognuna aveva accanto un carrello
da supermercato carico di insulsa miseria. Di tanto in tanto, un rumore strano
giungeva all’uomo che non riusciva a comprendere che cosa fosse. Finalmente, si
accorse che alcuni dei vecchi si succhiavano, nel sonno, l’interno delle guance
lasciando sfuggire quegli schiocchi curiosi.

«Andiamo! Sveglia,
si chiude! Sveglia. Tutti fuori!», gridò improvvisamente un poliziotto.

Tutti obbedirono.
Si alzarono con gli stessi gesti precisi da automa e se ne andarono formando un
branco al quale, per istinto, l’uomo si aggregò. Si procurò anche lui un
cartone e si sdraiò sul marciapiede lungo un muro della stazione ferroviaria
della città.

Così, quel luogo di partenze, di incontri e di
fughe divenne la sua dimora; lasciò che i giorni lo dimenticassero, che su lui
girassero i cieli dal crepuscolo del giorno a quello della notte, sempre
sdraiato nelle tenebre. Chiuso nel suo mutismo; i panini, la poca frutta e
qualche bevanda dei volontari erano pascolo sufficiente al suo corpo consacrato
all’unico compito dell’oblio e dell’estraniamento.

Una notte
miserabile, dopo la chiusura della stazione, l’aria era umida e il cielo,
fenduto e rigato da lampi, ordiva una pioggia. Di tanto in tanto, turbini di
polvere attraversavano il marciapiede dove l’uomo sedeva a gambe incrociate sul
suo cartone poi, un improvviso guaito arrestò i suoi pensieri facendolo
trasalire; voltò il capo e a poca distanza una macchina frenò. Il conducente
scese, la brace del suo sigaro ravvivata a momenti, e controllò con
imperturbabile placidità il paraurti e la griglia, poi ripartì mentre un
barboncino femmina dal pelame nero strisciava verso il marciapiede, trascinando
le sue zampe posteriori, fra lamenti mescolati a una lugubre saliva di sangue
che gli colava dalla bocca. L’uomo, con un gesto irresistibile, prese in
braccio il barboncino investito che rantolava penosamente, tutto il corpo
agitato da un tremito; e, con un profondo impeto di pietà lo strinse
delicatamente a sé e si risedette, il cuore stretto.

La cagna attraversata da fitte acute, aveva delle
contrazioni al basso ventre che si susseguivano senza sosta e un nodo alla gola
le impediva di respirare ritmicamente. Poi, con emozione, l’uomo vide emergere
dal corpo del barboncino la testolina umida e vischiosa di un cucciolo che,
lentamente, scivolava fuori scalciando tra gagliardi vagiti, il musetto increspato
da un’espressione rabbiosa. E la cagna s’incurvò sul suo cucciolo gemendo, lo
leccò, poi la sua testa vacillò, come se l’ebbrezza delle tenebre l’avesse
afferrata e le sue zampe anteriori, posate sul ginocchio dell’uomo, si misero a
raschiare convulsamente con le unghie la stoffa dei pantaloni. Aprì lentamente
gli occhi dove appariva la cupa profondità dell’abisso e guardò l’uomo che, le
labbra tremanti e gli occhi lucidi, aveva l’aria di chiedere che cosa poteva
fare. Spossata dall’imperiosa agonia, la cagna lasciò cadere la testa; poi, con
un ultimo sussulto, la sollevò, leccò la mano dell’uomo e mori.

Il cuore oppresso, l’uomo alzò gli occhi al cielo
che, forato dai lampioni, lasciava cadere, con un rumore accanito, violenti
goccioloni di pioggia sulle macchine parcheggiate.

«Quel povero
cucciolo morirà se non ti sbrighi a allattarlo!», alitò una signora dagli occhi
socchiusi, simili a due lumi senza splendore in mezzo a un nido di rughe.

Poi si alzò e
frugò nel suo carrello da supermercato in fretta per quanto glielo permettevano
le sue vecchie mani.

«To’!», disse,
porgendogli una boccetta di colino vuota e una busta di latte, «allattalo con
questa, sbrigati!».

In una
disperazione di tenerezza, l’uomo distese accanto a sé il corpo svuotato di
vita, riempì la boccetta e l’avvicinò al musetto del cucciolo che mandò teneri
minacciosi brontoli, poi cominciò a poppare con un’avidità disarmante, mentre
l’uomo lo fissava con dolcezza, perduto in un beato delirio e avvertendo un
misterioso agitarsi di tutte le sensibilità latenti.

Dopo la poppata, il minuscolo barboncino dal
pelame grigio sbadigliò nel modo più melodioso poi s’addormentò; e l’uomo, con
grande e strano sommovimento nel cuore, se lo mise delicatamente nel tascone
del suo impermeabile liso e consunto, con un gomito spelato e l’altro bucato.
Portò in braccio la cagna, figura impassibile, e camminò a passi grevi fino a
un giardinetto pubblico, orlato di siepi di oleandro dalla parte della strada.
A quell’ora, il luogo era solitario, e di notte era triste, illuminato da un
lampione obnubilato. In un angolo formato da due decrepiti muri, in parte
foderati di edera, l’uomo scavò una fosserella nella terra intrisa di pioggia.
Seppellì il barboncino poi si distese su una panchina; oppresso da un singhiozzo,
la faccia contratta in una smorfia e il cucciolo sul petto, guardava nel volto
del cielo il degradare di colori che conduce la notte al giorno.

Già l’alba imbiancava la vetta degli alberi quando
l’uomo attraversò il giardino, cosparso, qua e là, di fiori illividiti e
ritornò alla sua dimora.

Giorno dopo giorno
il cucciolo, crescendo, vene a occupare nel cuore dell’uomo un vuoto che gli si
chiuse intorno. Era come se una mano si fosse aperta e gli avesse
improvvisamente gettato una manciata di raggi; e, a forza di vivere insieme,
tutte e due finirono per somigliarsi. Il cane aveva preso dall’uomo il
silenzio, non abbaiava mai e non aveva un nome. L’uomo, da parte sua, ha preso
dal cane un modo di camminare con piccoli passi veloci e saltellanti. Sembravano
della stessa razza. A volte, l’uomo lo stuzzicava tormentandogli la coda e il
cane gli faceva certi teneri rimproveri con gli occhi parlanti, alzandosi in
punta di zampe per raggiungere la sua altezza e cercando di vedergli nel volto
una briciola di gioia. Spesso si sedevano sul loro cartone, quieti spettatori
di un mondo intollerabilmente veloce che, per gioco, tentavano di incorniciare
guardando attraverso una griglia metallica che trovarono rovistando tra i
rifiuti di un cassonetto. Vedevano, con gli occhi dietro la griglia, baraonde
unanimi che sbucavano dal profondo del sottosuolo nella libera luce; donne
sospese su tacchi a spillo, alti e vertiginosi, i colori dei loro capelli e le
loro acconciature sempre instabili, tentavano continue metamorfosi come per
sfuggire a se stesse. Gente indaffarata, affrettata. Ciascuno ha le proprie
occupazioni, ciascuno basta appena a se stesso; e per quanto possano volersi
bene, rimangono sempre lontani. Tessono un labirinto e si costringono a errarvi
misurando con insensati passi sempre più rapidi il tempo e lo spazio. E la
griglia sembrava sottolineare, grossamente, la loro condizione di eterni
prigionieri. L’uomo fissava il barboncino negli occhi, e questo scuoteva un
poco la grigia testolina con amara mestizia, come a significare di sì, che non
c’era proprio rimedio: «Così sono fatti e mai più guariranno», pareva esclamare
dentro di sé il barboncino, senza che il silenzio esteriore fosse rotto; ed
entrambi, uomo e cane, con sollievo pensavano di esserne fuori, spettatori
incontaminati. Ma qualcosa simile all’orrore accadde una notte.

L’uomo dormiva
nella sala d’attesa, la testa un po’ piegata in avanti e la schiena curva
contro la spalliera del sedile, aveva sulle cosce il barboncino che,
raggomitolato, si crogiolava in un gradevole stato reso ancora migliore dalla
sonnolenza. Uno dei vecchi si svegliò tossendo a lungo e l’uomo riemerse adagio
dal sonno, aprì gli occhi e vide che il vecchio, con un tremito senile, sputava
in un fazzoletto a fiori e ognuno dei suoi sputi era come uno strappo. Tutti
gli altri dormivano, abbandonati su se stessi, a eccezione di uno che, puntando
il mento sul dorso delle mani appoggiate al carrello, lo guardava fisso come se
non aspettasse che il suo risveglio.

«Converso solo con
i defunti», disse, come se riprendesse un dialogo appena interrotto. Rimase per
un bel po’ a fissare l’uomo e aggiunse: «Ascolto i morti con i miei occhi;
leggo i libri!». Prese dal suo carrello una Bibbia e, da una pagina segnata,
cominciò a leggere con una cadenza saporita, come se le parole gli si
condensassero in bocca in forma di cose concrete e deliziose da gustare: «Disprezzato e rigettato dagli uomini, uomo…
dei dolori, conoscitore della sofferenza, simile a uno davanti al quale ci si
nasconde la faccia, era disprezzato, e noi non ne facemmo stima alcuna».
Ed
esplose in una risata stridula e lugubre che fece svegliare tutti, attraverso
la quale tossiva e leggeva: «Ah, ah, ah… “Eppure
egli portava le nostre malattie e si era caricato dei nostri dolori; noi però
lo ritenevamo colpito, percosso da Dio ed umiliato”…
Ah, ah, ah…»..

Un vegliardo
smilzo, le labbra risucchiate nella bocca senza denti, cominciò una rumorosa
risata ma l’interruppe di colpo, con finto o vero disagio, perché il signore
che leggeva lo saettò con un’occhiata ardente e gli disse, con un tono irritato
e vibrante: «Come osi calpestare così un immeritato dolore?». E da quel momento
si vide abbassarsi sul suo volto un cupo velo che non si alzò più; abbassò gli
occhi sulla Bibbia e riprese: «Ma egli è
stato trafitto per le nostre trasgressioni, schiacciato per le nostre iniquità
il castigo per cui abbiamo la pace è caduto su di lui, e per le sue lividure
noi siamo stati guariti».
Dopo ognuna di queste parole, la testa del
vecchio aveva uno scatto come se i torti da lui subiti gli si agitassero nel
petto, e solo con fatica riuscisse a dominare l’impeto di manifestarli
chiaramente. «Noi tutti come pecore
eravamo erranti, ognuno di noi seguiva la propria via, e l’Eterno ha fatto
ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti».
Il barboncino osservò quel
venerabile, si accorse che era magro e sparuto, e che gli occhi infossati
tradivano lunghe privazioni. Emise un gemito con cui pareva gli chiedesse di
interrompere l’oracolo, ma il vecchio fece solo una piccola pausa, inghiottendo
con sforzo la saliva come se le parole avessero un gusto amaro e riprese: «Maltrattato e umiliato, non aperse bocca.
Come un agnello condotto al macello, come pecora muta davanti ai suoi tosatori
non aperse bocca
».

E tacque, immobile
come folgorato, senza poter leggere né respirare, come se un pugno chiuso gli
serrasse la gola. Poi appoggiò sul carrello, in una sorta di stretta convulsa,
le mani smagrite e rugose, e il suo capo canuto cadde sul libro aperto; il suo
volto si inabissò nelle pagine, e se qualcuno fosse passato per la sala
d’attesa in quel momento avrebbe udito spaventosi singhiozzi.

Una signora,
vestita in modo dimesso, tanto che attraverso la stoffa si vedeva il funebre
telaio delle ossa, cominciò un segno della croce e guardò l’orologio del
tabellone che continuava a macinare la vita. Congiunse le narici e nella sala
tutti intesero uscirle dal petto uno di quei sospiri profondi che sembrano
alleviare un’oppressione, ma lacrime lente e amarissime colavano già per la pelle
raggrinzita mentre sul suo carrello pendeva floscio, con sinistro abbandono da
impiccato, un soprabito sbrindellato.

Gravava ormai
nella sala il sentimento della notte, quando le paure escono dai muri e
l’infelicità umana si fa penosa. Quasi tutti piangevano. Il cane invece seguiva
con gli occhi un pipistrello intrappolato nel vitreo labirinto; e, da una
parete all’altra, il battito silenzioso delle sue ali, simile a moto pendolare,
scandiva sempre più precipitoso il tempo che, senza curarsi delle persone,
passava su e giù per il mondo mortificando le cose belle.

L’uomo, sotto la grandine dei pianti dirotti, si
rese conto di come i successivi scatti di cifre dell’orologio numerico del
tabellone si facessero sempre più fitti. E forse, allora, poté scorgere in
qualcun altro, anch’esso trascinato e trasformato dalla città, uno specchio
mostruoso del suo destino. Guardò il barboncino negli occhi che, grandi
com’erano, sembrava di leggervi una maggior quantità di tristezza, e questo
annuì amaramente con un cenno della testolina: «Si, anche noi siamo dentro il
labirinto e non facciamo altro che aspettare, spesso nella posizione della
nostra morte, la dispersione immensa». I due si serrarono; avevano l’aspetto di
due debolezze che si appoggiavano l’una all’altra, e per un istante sentirono
che il duro carico della loro mente stava per rompere in pianto, ma…

«Andiamo! Sveglia,
si chiude! Sveglia. Tutti fuori!». Gridò meccanicamente un poliziotto, senza
accorgersi che quella notte nessuno dormiva.

Tutti obbedirono.
Si alzarono con gli stessi gesti precisi da automa e se ne andarono formando un
branco al quale, questa volta, l’uomo e il cane non si aggregarono.

Fuori, le file
degli edifici avevano assunto l’aria astratta che sogliono assumere nella vasta
notte, quando l’ombra le semplifica e le cupole, illuminate dai riflettori,
diventano tante lune pallide sull’orizzonte scuro dei tetti. L’uomo e il
barboncino erravano per le vie della città, ebbri d’insonnia, portando con loro
dappertutto quella sala d’attesa con dentro l’infelicità umana e
l’inarrestabile fuga del tempo; un carico mostruoso e un incubo che non avevano
la possibilità di interrompere.

Attraversarono un antico ponte ad archi, gettato
su un fiume dalle acque colore di deserto, e percorsero con crescente rapidità
il viale delle raccoglitrici di cotone, punteggiato sui bordi dei marciapiedi
di pantaloncini in lamè d’oro e di parrucche biondo-cenere e rosso-tiziano, che
andavano su e giù portando il proprio messaggio da un’automobile all’altra, in
una specie di catena di montaggio del sesso.

Nel più squallido e deplorevole sobborgo della
città, il cane e l’uomo avevano già un passo diverso, un salterellare meno
leggero e vivace, con un fondo di ansia e fatica, come se sentissero che la
vita stava per cambiare. Un’automobile balorda rallentò, si fermò più avanti
poi fece marcia indietro. Nel grande silenzio il rumore echeggiò forte e
cattivo e, d’istinto, tutte e due fecero per acquattarsi dietro un albero; poi
si dominarono e restarono immobili in attesa di eventi. A bordo c’erano quattro
giovani assurdi che tenevano i capi eretti con atteggiamento di alterigia
decisamente ostile, e scesero armati di spranghe. Per il terrore, il cane
s’accovacciò e l’uomo si appoggiò al muro, ansimante, come se aspettasse di essere
fucilato. Un attimo, e uno dei giovani fece scoppiare dalla sua tempia le
fiamme dell’inferno. La testa gli girò prima da una parte poi dall’altra, gli
sembrò che i muri e il marciapiede si spostassero violentemente; la tenne tra
le mani finché si fermarono di nuovo, poi alzò lo sguardo e i loro occhi
s’incontrarono. L’uomo si sentì orribilmente solo fra gente nemica e il
barboncino ringhiò, serrò tra i suoi piccoli denti l’orlo dei pantaloni
dell’aggressore e lo strattonò; ma un calcio lo fece avvitare in aria due volte
su se stesso e atterrare con un lamento sordo. Nel cuore di quella città piena
di sonno, il gemito salì lentamente, frammisto ad altre voci acute e burlesche.
L’uomo fece in tempo a correre verso il cane, cadde in ginocchio e si inarcò su
di esso mentre le spranghe gli imprimevano righe di fuoco sul dorso, senza
intervalli di remissione; perpetrate in maniera sistematica, spietata, con
l’impudenza di chi assapora la voluttà della violenza. Poi, per un attimo,
intravide una spranga eternare una traiettoria inconclusa…un colpo al capo.
Tentò di schivarlo ma comprese, rassegnato, che il momento per farlo era già
trascorso. Non il più tenue rumore gli giunse dal mondo, e stramazzò.

Riemerse dallo svenimento come se gli fossero
passati sopra al galoppo i Sette Cavalieri dell’Apocalisse; rivoli di sangue
gli scorrevano per il volto e tutto quel che provava era tumultuoso e
incoerente; il cane, schiacciato sotto il suo peso, gemeva. Afferrò il
barboncino e fuggì nella notte forata dai lampioni, curvo e cascante mentre le
ondate di vertigine ritornavano a sbalzi, e ogni volta doveva fermarsi e
appoggiarsi a un muro, per riprendere fiato che era completamente spolmonato.
Girò a sinistra, lungo il marciapiede; s’infilò nello spiraglio di un vicino recinto
e scese dei gradini di cespugli calpestando mostruose ombre di forme
idolatriche che vigilavano ciò che restava di un tempio il cui dio non riceveva
più onori dagli uomini; un desolato esilio dove il vento soffiava tra le
antefisse portando ignoti messaggi che facevano ristagnare l’incubo
dell’aggressione. Allora l’uomo sentì il freddo della paura, cercò nei muri,
tra le crepe degli anni, una nicchia e si rincantucciò tra mucchi di dense
tenebre abbracciando il cane e coprendosi con foglie sconosciute. Poi si
costrinse a dormire per distrarre i silenziosi tormenti ma, prima dell’alba,
ebbe un incubo tenace che lasciò nella sua mente una risonanza ostinata.

L’uomo si svegliò
a giorno fatto, intorpidito e dolorante per i lividi, ancora prigioniero nelle
gallerie del suo inestricabile incubo e il pensiero addensato attorno a
un’ipotesi incoercibile. Scivolò via dal tempio e vagò per le strade della
città con aria di distacco e una tristezza impersonale, quasi anonima. Di tanto
in tanto, si fermava vicino alle automobili parcheggiate lungo i marciapiedi a
guardare negli specchietti retrovisori, costatando, con una vertigine stupita e
leggera, che nessuno lo rifletteva.

Che convinzione assurda, pensava l’uomo,
rendendosi conto della sua stoltezza, eppure non riusciva a scacciarla;
guardava gli specchietti e essa immediatamente tornava a ingorgare la sua
mente, protetta dal silenzio. Al suo fianco, il barboncino teneva il muso in
avanti e il collo teso. Osservava l’uomo e il suo sguardo, il minimo gesto, esprimevano
e traducevano una sola idea: l’inquietudine.

L’uomo entrò,
seguito dal cane, nel bagno della stazione ferroviaria dove lo attendeva,
segreta, una lucida visione fondamentale; la visione con cui finalmente
conoscerà il proprio volto. Dapprima vide tutti gli specchi ma nessuno lo
rifletté; poi entrò un giovane che, prima, lo osservò quasi con timore,
sicuramente con repulsione, poi, si mise a sorridere lavandosi le mani. Fu
allora che l’uomo guardò nello specchio che rifletteva l’immagine del giovane e
intravide la sua, terribile; i capelli lunghi erano misti a ciocche grigie e
rosso sangue rappreso, la fronte rugosa, il colorito plumbeo con lividi blu o
neri, le gote flaccide, i denti scalzati e la barba pareva mangiargli il volto.
Rifiutò la tragica erosione degli anni, rifiutò il suo volto, perché la mente
non si arrende alla disperazione senza aver esaurito tutte le illusioni, e
guardò di nuovo lo specchio che, per un attimo di pietà, non lo rifletté più,
ma subito dopo si riformò, fuggevole e mobile, l’immagine sinistra della sua
faccia, sempre più terrea e scavata che ricominciò a dissolversi; e, con un
tuffo al cuore e infinita pena, pensò all’irreparabile fuga del tempo, alla
vita della città che inghiottì i suoi anni uno dopo l’altro, con velocità
vertiginosa.

Per molti giorni, nella veglia quasi perpetua, il
suo volto crepato dalla miseria e dalla fuga del tempo infestò il suo incubo; e
non poteva sapere ormai se un certo particolare fosse una trascrizione della
realtà o un mero gioco di impressioni, perché tutti gli specchi lo dichiararono
invisibile e nulla l’avrebbe interpellato nel mondo reale riscattandolo dalla
condizione di vana apparenza.

Vagabondò insieme al cane per le strade covando
l’odio contro le dimensioni della città e una tristezza non minore di
quell’odio. Poi, in una notte di quelle deserte, nel silenzio che strisciava
lungo le architetture geometriche, i grevi passi dell’uomo scricchiolarono
sulla neve che aveva coperto interamente le strade e aveva steso fragili
cornici lungo i parapetti dei balconi che ogni tanto si staccavano e
precipitavano con piccoli tonfi. Molinava un polverio di ghiaccioli e, qua e
là, lungo i bordi di una fontana si scorgevano strisce bianche verticali che
scintillavano alla luce dei lampioni. L’uomo, con gli occhi velati di pianto,
allungò il corpo e le gambe martirizzati dalla stanchezza su una panchina e si
lasciò trascinare nel sonno da un torpore improvviso, il barboncino disteso
contro il suo fianco. Ma presto, nell’ora senza nome, un’orribile sensazione di
gelo gli penetrò nelle viscere. Aperse gli occhi e vide che fiocchi bianchi
cadevano dall’alto in un corteo di silenzio e che era tutto incrostato di neve.
Richiuse lentamente gli occhi con una vaga aria di punizione, invaso da una
sonnolenza strana che lo rendeva indifferente al freddo, indifferente ai
pensieri del buio e alla tristezza di essere solo, indifferente alla città
straniera e assurda, indifferente all’indifferenza.

Il tempo soffiò
per due notti di gelo senza curarsi dell’uomo. Nessuno in tutta la città
pensava a lui, sommerso com’era in una vasca di sonno profondo e oscuro. Poi,
una mattina simile alle altre, mentre la folla errava con rapidi passi
insensati nel suo labirinto celato da un velo di caligine, subdolo e uniforme,
un vigile urbano si avvicinò alla panchina; il cane gemeva con immutata pena,
l’uomo dormiva tranquillo sotto la neve. Sulle livide labbra, raggelato un
sorriso.

Dopo due ore di formalità, verso mezzogiorno,
raccolsero il suo rudere in una cassa e lo portarono nel mezzo del frastuono
come un brandello di silenzio.

Da: Anime in Viaggio
autori vari

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