Come al solito, nella mia
vita, i regali, ciò che desidero, arriva sempre quando penso di gettare la
spugna, quando mi arrendo e mi lascio attraversare dalla vita.

Per 17 anni avevo sognato
come sarebbe stato il mio ritorno in patria, i posti che avrei visitato, le
persone che avrei incontrato, come mi sarei sentita e sicuramente
quell’indescrivibile odore di casa che mi avrebbe invasa.

Invece niente fu come
previsto.

Passai i primi 15 giorni a
seguire il mio viaggio mentale accompagnata dal buon vecchio Zeggu.

Zeggu abitava a Kechenè, un
piccolo quartiere tra i più poveri di Addis Abeba, dove di notte giravano le
iene e di giorno le fattucchiere depredavano i passanti della loro energia.
Nella sua zona c’era solo una famiglia che possedeva un telefono e, per mia
fortuna, era a disposizione di tutti, Zeggu compreso. Ogni mattina mi svegliavo
di buon’ora e telefonavo in quella casa dove una donna con voce sonnecchiante
mi rispondeva:

– Comandi.

– Buongiorno, sono Gennet,
l’amica di Zeggu, me lo potete chiamare?

– Certo, aspetti un attimo.

Sentivo dei passi lenti che
si perdevano nella stanza, una finestra che si apriva poi la voce sonnecchiante
si trasformava in un urlo:

– Chiamate Zeggu.

“Aspetti un attimo” di
solito durava 20 minuti, minuti in cui attraverso la cornetta, mi giungevano
frammenti di vita, risate, rumori, radio accesa, bambini che giocavano…

Dopo quell’interminabile
attesa Zeggu rispondeva ansimante “Arrivo, arrivo…” che corrispondeva ad altri
45 minuti.

Lo vedevo inerpicarsi  sulla salita che portava al mio albergo, con
quell’andatura ciondolante, ogni tanto si fermava a salutare qualcuno, era così
lento, mi innervosiva terribilmente. Gli andavo incontro borbottando:

– Non potresti andare più
veloce, non ti costerebbe nulla.

Mi guardava con i suoi occhi
furbi, occhi che vedono lontano.

– Ti permetto di trattarmi
così, solo perché sento il tuo dolore… – e mi abbracciava.

Lo costringevo ad
accompagnarmi nel mio folle pellegrinaggio, alla ricerca della mia vecchia vita
che in qualche modo pretendevo fosse stata conservata intatta in qualche angolo
d’Etiopia, ma non la trovai. Un giorno esausta, con le bolle sotto i piedi, mi
sedetti sui gradini della piazza, mi tolsi le scarpe, le calze e gli dissi:

– Basta, basta, non ne posso
più, non voglio cercare più nulla… così soffro troppo.

Zeggu accennò un risolino di
compiacimento:

– Era ora! … Vedi – inspirò
profondamente – tu devi stare con il tuo cuore, non con la tua mente.

– Cosa vuoi dire?

– Il tuo cuore lascia che la
vita accada, la tua mente, invece, vuole dirigere gli eventi. Fino ad ora  sei stata sulla strada sbagliata. Lasciati
andare.

– Fosse facile, tu cosa mi
proponi.

– Vieni a Kechenè domani,
tutti sanno di te, sai… un solo telefono ma tante bocche, tante chiacchiere. La
gente è curiosa, tutti vorrebbero conoscerti. Vedrai, lì il tuo cuore
sicuramente troverà qualcosa.

Non ne ero molto convinta,
ma lui era stato così gentile e non volevo offenderlo, acconsentii.

Il giorno dopo venne a
prendermi vestito a festa, tutto sorridente. Girammo parecchio tempo per
recuperare un taxi. Nessuno era disposto ad arrivare a Kechenè, se non per
cifre esorbitanti.

L’unico taxi a cui riuscimmo
a strappare un prezzo ragionevole, ci scaricò dove cominciava la salita del
famoso quartiere.

Una bimba con un vestito
turchese, un turbante bianco e una piccola scatola di cartone in mano ci corse
incontro. Mi mise la scatola sotto il naso ed esibendosi in un sorriso
contagioso mi disse “Chewing-gum”. Guardai i suoi occhi belli e poi dentro la
scatola. Sparse sul fondo c’erano chewing-gum al limone e alla ciliegia. Gliene
comprai una per 10 cents. Tutta soddisfatta andò a sedersi su un sasso. Il
vestito le si sollevò mostrando le labbra carnose e sensuali del suo piccolo
sesso. La guardai imbarazzata, continuava a sorridermi. Passai oltre, in mezzo
a baracche, rigagnoli, fogne a cielo aperto. L’odore di peperoncino messo a
seccare al sole e del caffè appena tostato mi penetrò nelle narici, ricordi
antichi si presentarono alla mia mente, immagini di donne che chiacchierano
attorno al braciere  del caffè,
abbracci, rumore dell’acqua versata nella caffettiera, il pavimento di pietra
dell’anti-cucina della mia vecchia casa. Sentii subito un groppo in gola.

La strada si allargò, c’era
uno spiazzo dove dei bambini giocavano a calcio alzando nuvole di polvere.
Dietro di loro, come una nota stonata, appariva una villetta, con i muri d’un
verde tenue ed il tetto in lamiera. Due bougainvilles viola l’avviluppavano e
sotto una finestra delle bambine sedute si abbracciavano ridendo. Dall’altra
parte dello spiazzo c’era un negozietto che fungeva anche da bar e due
eucalipti con sotto qualche sedia sgangherata, per l’appunto il bar.

– Quella è la casa del
telefono – disse Zeggu indicandomi la villetta.

Salimmo i gradini e
attraversammo la veranda, Zeggu bussò alla porta. La voce sonnecchiante urlò:

– Arrivo, un attimo.

Guardai l’orologio,
passarono 10 minuti poi la porta si aprì. Finalmente potevo dare forma alla
voce che tutte quelle mattine mi aveva risposto al telefono. Si affacciò una
testolina coperta da un coloratissimo foulard, alzò il viso e con mia grande
meraviglia notai i suoi occhi svegli.

Sorrise e spalancando
completamente la porta ci invitò ad entrare.

La casa era bella, con i
pavimenti in legno e il salotto blu disposto a ferro di cavallo davanti ad un
grande camino.

Zeggu mi indicò un donnone
caracollante che ci veniva incontro.

– Quella è la padrona di
casa, la signora Ascalech.

Ci accomodammo sui divani.
Davanti a noi, su un tavolino, il famoso telefono del quartiere.

Pian piano arrivarono tutte
le figlie della signora, si sedettero vicino a me e cominciarono a chiedermi
dell’Italia, della mia vita.

Squillò il telefono. La voce
sonnecchiante andò a rispondere. Il solito rito che tutti i giorni avevo
sentito con l’orecchio incollato alla cornetta… passi lenti, finestra che si
apriva e l’urlo:

– La signora Abeba cerca la
strega.

Guardai Zeggu con aria
interrogativa. La padrona di casa si mise a ridere e dandomi una manata sul
ginocchio mi disse:

– Osserva.

Come una tromba d’aria si
catapultò in casa una donna con i vestiti svolazzanti e i capelli arruffati.
Cercai di vederle il viso. I suoi occhi sembravano fessure minacciose, mi
spaventarono e subito distolsi lo sguardo. Senza tante cerimonie alzò il
ricevitore.

– Cosa c’è questa volta –
tuonò.

A tratti si sentiva la voce
della sua interlocutrice, sembrava quella di una donnetta piagnucolante.

– Peggio per te – rispose. –
Ti devi accontentare, non sei bella, non sei ricca, non sei neanche simpatica e
per di più sei anche vecchia. Quell’uomo è tutto ciò che sono riuscita a
rimediarti, se non ti va bene cercati un’altra strega – e sbatté il ricevitore
sul telefono.

Fece un rapido giro di
perlustrazione, guardò le figlie della signora e puntò minacciosa il dito su
ognuna di loro.

– Se solo mi accorgo che
potreste diventare come quella – e indicò il telefono – vi faccio subito il
malocchio perché possiate morire in pace… ORA.

Venne verso di me:

– Ciao Gennet, ben arrivata
a casa – mi diede un buffetto sulla guancia ed uscì nel cortile.

– Fannullone! Buono a nulla…
se non ci fossi io… tu come faresti le anime a salvarle? Tu sai solo annegarle
nel Teggh.

– Con chi sta urlando? –
chiesi a Witzerò Ascalech.

– Con il prete del
quartiere, è sempre ubriaco!

Mangiammo e il telefono
continuava a squillare.

Nel pomeriggio ci spostammo
sulla veranda a bere il caffè.

Arrivarono delle donne,
alcune veramente povere, coperte con logori cenci senza colori, con bimbi dal naso
colante in braccio, pieni di pulci e pidocchi. Si sedettero con noi a bere
caffè e mangiare hambascia. Qualcuna di loro aspettava una telefonata. I bimbi
correvano, giocavano e abbracciavano chiunque gli capitasse a tiro. Chiunque
tranne me che li guardavo con aria  un
po’ schifata… erano così sporchi. Le donne si accorsero del mio disagio e con
fare discreto li allontanavano perché non mi disturbassero. Squillò il
telefono. Una donna si alzò di scatto. La voce sonnecchiante andò a rispondere
poi si affacciò alla finestra e urlò a un bambino che giocava a pallone:

– Il fidanzato di Choni
dall’America  – il bambino tirò fuori
dalla tasca 10 cents e li diede ad un altro che corse a chiamare Choni.

La donna si sedette.

Passarono alcuni minuti poi
comparve una ragazza, bella come un fiore, con gambe lunghe e muscolose, occhi
da gatto selvatico. Saltò i gradini con un balzo.

– Buona sera a tutti –
salutò alcuni bambini e corse al telefono.

Si mise a parlare
sommessamente ogni tanto scappava qualche risolino. Stava con i gomiti sul
tavolo e la testa appoggiata sulla mano libera. Si tolse le scarpe e con la
parte anteriore di un piede cominciò ad accarezzarsi un polpaccio poi scosse la
testa facendo ondeggiare le treccine e si mise a ridere.

Una vera macchina da guerra,
avrebbe annientato qualsiasi uomo. Finita la telefonata venne verso la veranda
con aria sognante, inciampò sulla porta. Witzerò Ascalech la guardò.

– Choni eri più sveglia
quando sei entrata – risero tutt’e due.

Come un percorso stabilito
dal fato, a Kechenè tutto passava per quella casa, per quel telefono. Attese,
proposte di lavoro, di matrimonio, amore, morti, l’arrivo del veterinario che
doveva visitare le mucche assalite dalle iene, le gare di biglie, le nascite
dei bimbi. Persino i piccoli incidenti, i tagli, le ammaccature.

Anche il resto della mia
vacanza finì per passare e ripassare per quella casa, per quel telefono.

In alcuni momenti la vita
del quartiere sembrava un dipinto, era quasi ferma, solo piccoli cenni, mezzi
giri di ruota, davano la dimensione dello scorrere del tempo, dell’evolversi
degli eventi.

Choni riuscì ad ottenere il
visto per andare in America, dal suo amore, la bimba dal vestito turchese finì
le chewing-gum alla ciliegia.

La strega cominciò a
impegnare parte del suo prezioso tempo seduta sulle sedie sotto gli eucalipti a
cercare di cacciare il demone dell’alcool dal corpo del povero prete, non senza
urli e imprecazioni che facevano tremare le fragili pareti della chiesa con
tutto ciò che c’era dentro, anima dei santi compresa e io trovai il modo di
stemperare la mia irrequietudine facendomi cullare da chiacchiere pomeridiane,
in compagnia di bambini e donne cenciose.

Durante uno di questi
pomeriggi un bambino inciampando mi cadde addosso e mi spalmò sui pantaloni
metà del rosso d’uovo che aveva in bocca… mi si rivoltò lo stomaco.

Witzerò Ascalech si mise a
ridere.

– Perché non ti fai mai
abbracciare da questi bambini? L’amore che loro ti danno è sincero, resta per
sempre dentro di te, lo sporco per toglierlo basta un po’ di acqua e sapone –
mi guardò per vedere se poteva continuare, sospirò. – Sai, ti ho osservata
tanto. Ti sei rilassata rispetto ai primi giorni, non lo nego, ma fai fatica a
cambiare i tuoi ritmi, il tuo cuore è ancora chiuso, hai sempre a portata di
mano i tuoi inutili schemi! Guarda – mi sollevò il polso – dopo un mese giri
ancora con l’orologio, misuri il tempo. Non sei in Italia, te ne sei accorta?
Quello che sei venuta a cercare non potrai trovarlo se non qui, tra la tua
gente, nel ritmo di casa tua. Questo hai perso in Europa, quel ritmo lento,
dilatato che apre tutte le porte. Ti farà piangere, gioire, ringraziare la tua
terra. Solo così potrai ritrovarti.

Quella sera tornando a casa
con Zeggu, mi fermai sul ponte prima del mio albergo e gettai il mio magnifico
swatch nel fiume.

Dentro di me, con quel
gesto, accettai e aprii quelle famose porte.

Piansi tutti i giorni
seguenti, davanti alla mia vecchia casa con il giardino incolto, sulla tomba di
mio padre, quando squillava il telefono, quando vedevo la strega. Piansi e
lavai il mio cuore dalla rabbia di una separazione così lunga. Finalmente
sentii la luce nel cuore e non mi pesarono più le attese al telefono, le
corriere che non partivano mai, le file a comprare lo zucchero, le trattative
con i taxi, gli abbracci dei bimbi sporchi. La mia terra era tornata ad essermi
familiare.

Finirono i giorni a mia
disposizione. Dovevo tornare nella mia altra casa, l’Italia, Bologna.

Il giorno prima di partire
salutai tutta Kechenè. Witzerò Ascalech mi abbracciò.

– Ce l’hai fatta, ti sei
davvero ritrovata… il mio telefono fa miracoli, non credi – e rise.

Mi accompagnò Zeggu
all’aeroporto, il mio fedele, vecchio amico.

Poco prima di fare il
check-in Zeggu con un cenno mi invitò a voltarmi, mi girai e mi trovai di fronte
alla strega e al prete. Si avvicinarono, lei lo spingeva.

– Dai, parla!

– Lasciami, brutta
stregaccia…

Allungò la mano e mi toccò.

– Che Dio ti benedica, che
tu possa essere felice – e mi posò la sua croce di legno sulla fronte.

Aveva gli occhi lucidi.

Si girò bruscamente.

– Adesso tocca a te – disse
rivolto alla strega.

– È un po’ di terra di
Kechenè… e altre cose che ho messo io… ti proteggeranno.

Mi consegnò un sacchetto e
se ne andarono.

Arrivai in Italia e subito
il ritmo serrato mi aggredì: telegiornale, sveglia, lavoro, cene, amici,
teatro, ma dentro di me la pace. In quel posto sacro dove conservavo il ritmo
della mia terra tutto era quieto, anche quando c’era dolore. Ora potevo stare
ovunque su questo pianeta, ero a casa dentro di me… e comunque, se mi fossi
persa, potevo sempre telefonare.


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