Pensai: “E allora, se lo
uccido davvero? E non è forse vero che lo dimenticherò comunque in poco tempo –
perché tutto, alla fin fine si dimentica?”

E mi affrettai a rispondere,
spaventata dai miei pensieri:

– Non dire così! Non
sopravviverei alla tua morte!

Lui, dopo un momento di
silenzio, disse piano:

– Ecco, se muoio, ti
aspetterò là. Tu vivi ancora un poco, goditi un po’ questa vita e poi vieni da
me.

(Ivan Bunin, Freddo Autunno)

Luglio 1996: nervoso
(nessuna novità, cito mia moglie), cercavo un lavoro (allora, lei ha
quarant’anni, si ripeteva, come un’eco), sopra il Friuli si accumulavano masse
di aria sahariana (assistiamo a grandi mutamenti climatici, dicevano i
meteo-esperti), scrivevo, in fretta, e gettavo via ciò che avevo scritto (i
personaggi erano a due dimensioni, come gli affreschi del mondo dei morti
egiziano), mi sentivo bene solo in riva al torrente Vedronza,1 che color verde acqua
scroscia saltellante fra rocce che, osservate da dietro le palpebre socchiuse,
danno un’impressione di paesaggio lunare (quando socchiudiamo gli occhi il
mondo intorno a noi subisce dei cambiamenti, ripeterebbe forse un mio amico,
ora nella lontana Australia, da dove in quei giorni era arrivato il rifiuto
alla nostra domanda di immigrazione: siamo molto spiacenti di doverLa
informare, ecc.).

Quando era possibile,
evitavo gli incontri (Quando ritornerete a casa, in Bosnia? Adesso c’è la
pace…). Comunque, un invito non lo avevo rifiutato.

“In tutto quel polpettone,
cari miei, in cui, appunto, si ripeteva due volte lo stesso titolo: Rapimento:
Love story alla balcanica, di vero c’erano solo i personaggi, il luogo e il
tempo, già precisato nel rapporto della polizia sull’episodio nell’ospedale di
V., la notte fra il dodici e il tredici maggio”, disse Vladimir R. in un fiato
solo, in risposta alla domanda uscita fuori non-so-neppure-io-come: Per caso,
lei sa forse qualcosa su quel rapimento nell’ospedale di V.?, e versò nel
bicchiere ancora un po’ di barolo, figlio del nobile vitigno Nebbiolo, re dei
vini, tagliò una fetta di melone, giallo come un ducato, e mise nel piatto
anche una fettina di prosciutto, non affumicato, ma comunque prosciutto.2

(I volti intorno alla tavola
spalancarono la bocca, come se sulla larga terrazza della casa della nostra
comune amica Olga che ci aveva invitati a cena, in compagnia di persone per noi
finora sco-nosciute, si fosse messo a soffiare il venticello che quel luglio si
faceva normalmente sentire solo dopo la mezzanotte. Già ci inondavano di varie
domande a cui per lo più rispondeva lui, nel suo buon italiano, ma dandomi
diversi colpetti sotto il tavolo: “Di’ anche tu qualcosa! Non riesco né a
mangiare né a bere!” e lanciando battute a Olga: “Costosa questa tua cena,
ex-compatriota!”. “Che cosa dice?”, mi chiedeva piano suo marito Italo, agente
di commercio. “Niente … A meno che tu non ti inserisca, ad esempio, con il tema
della pesca. Come fai l’esca per i cefali, in dicembre”, rispondeva Olga, pié
leggero, portando cibo e vino. La nostra Olga: grandi occhi, sorriso
malin-conico, e il terrore che qualcuno rimanga solo, terrore-padre della
semplice filosofia di Olga, che si era trasmessa anche a Italo, il cui viso non
rivelava nulla dell’agente né del commerciante. Italo: la voce bassa, la calma
del pescatore appassionato. Niente da fare, dai cefali si saltava di nuovo ai
motivi balcanici: vecchi, nuovi e nuovissimi, quelli del primo anno
post-Dayton).

– E che cosa dovrebbe essere
vero? – chiese con una vena di ironia la voce che, qualche minuto prima, aveva
appassionatamente sostenuto che senza l’America e il suo aiuto (e le sue bombe,
aveva aggiunto ironicamente Italo), i balcani avrebbero preso per il naso
l’Europa ancora per cento e un anni.

– Vi racconterò tutto quello
che so – disse Vladimir.

Vladimir R. Classe: 1953. Di
Mostar. Giornalista. Moglie: rimasta a Mostar Ovest3. Senza figli. In Italia:
dall’agosto 1992. Un anno e mezzo a Cervignano,4 nel campo profughi. Non voglio e non posso
andarmene per il mondo, gli disse la moglie una mattina, dopo averlo fatto
rilasciare dalle mani della polizia, picchiato a sangue. Motivo: rifiuto di
collaborare a un nuovo giornale, e poi non essersi arruolato nell’unità
militare di destinazione. Gli aveva procurato tutto: il lascia-passare, il
nuovo passaporto (tutto è costato molto, molto). Gli aveva comprato degli
occhiali da sole con grandi lenti (avevo gli occhi pesti), gli aveva preparato
due grandi borse (anche con dei vestiti invernali), dei panini (al prosciutto,
affumi-cato), la birra (la Karlovac, la mia preferita), lo aveva accompagnato
in auto fino a Spalato. Devo tornare prima che faccia buio, aveva detto, lo
aveva baciato di sfuggita e, sulla porta dell’ufficio portuale, si era rivolta
verso di lui, Vladimir R., con il biglietto, un pezzettino di carta roseo,
inumidito dal sudore, per il traghetto Spalato-Ancona, solo andata. E il mare
era scuro, troppo scuro, in quel viaggio per un altro paese. Era pieno di
viaggiatori-insetti. E io fra loro, e forse uguale a tutti gli altri. Ad
Ancona, nell’ufficio di polizia, aveva potuto scegliere: Ravenna o Cervignano.
Ravenna, disse con una voce estranea. Ma lo chiamarono per il pullman per
Cervignano. Finalmente compresi cosa voleva dire il tipo che, in un’altra
guerra, aveva scritto che nessuno va dove desidera… Ci eravamo conosciuti a
Sarajevo, nel novembre 1991, in un incontro di rappresentanti del movimento per
la pace in Bosnia. C’eravamo visti, ancora una volta, nel febbraio 1992 a
Sarajevo. Siamo in viaggio per l’inferno, mi disse, rassegnato. Mi ricordo: non
gli risposi niente, neppure che la primavera era giunta presto, e profumava di
nevi sciolte. Ci incontrammo a Firenze, nel maggio 1993, ospiti di
un’associazione pacifista. Mi hanno portato qui perché non rimanessi solo.
Allora venni a sapere che stava a Cervignano. Era dimagrito, con la barba
incolta, i capelli ingrigiti e unti, con un voce diversa e occhi grigiovitrei,
quello era un altro Vladimir R., trasferito da un mondo in cui credeva e per
cui aveva  lottato. Ma la fede si era
assot-tigliata fino a diventare come un capello invisi-bile, e la lotta si era
tramutata in silenzio, in un altro paese. No, l’italiano non lo parlava né lo
studiava. Dopo un po’ mi fece visita a Zugliano5. Adesso sono completamente solo. Gli erano
morti sia il padre che la madre, uno dopo l’altro, suo fratello si era
trasferito in Canada (nel Québec, e mi scrive che non sapeva che anche quel
fottuto Québec vuole separarsi, ma adesso lui non vuole più andare da nessuna
parte, se tutti prenderanno i fucili, perdio, lo farà anche lui, perché da
qualche parte bisogna pur stare, non si può ogni momento andare qua e là), sua
moglie vive con un ragazzo diciott’anni più giovane di lei (è un caso frequente
adesso, là da noi). Scusami, te ne ho raccontate tante. Come se ne sentissi la
mancanza! La colpa è nella maledizione del temperamento slavo: racconta a
qualcuno tutte le disgrazie…, mi disse accomiatandosi. Due mesi dopo tornò a
trovarmi, in compagnia di una ragazza dalla voce squillante e dalle mani calde,
lui, Vladimir R., irricono-scibile, un altro aspetto, un’altra voce: il viso
rasato, i capelli tinti, lo sguardo scintillante, con una camicia di seta verde
scuro e un braccialetto d’oro. Parlava in italiano, usando perfino il
congiuntivo! Dall’ottobre del 1993 abita alla periferia di Pordenone, con la
squillante Miriam F. Il suo sorriso mi ha restituito alla vita, il suo tocco mi
dice: sei vivo, Vladimir! Lavora nella portineria di un albergo (parla inglese
e francese), segue Miriam nell’attività
di un’associazione pacifista. E pensavo: si può fuggire ma non sfuggire,
ma disperazione e morte continuano ad esistere. Mi disse anche che doveva tutto
a un uomo incredibile: mi ha insegnato che non c’è maggior umiliazione di
finire in un campo profughi, in una ex caserma.

Olga spegne le luci e
accende tre candele contro le zanzare. Le luci di Udine diventano più forti. In
basso una voce giovane grida: “Giulia, ti amo!”. Un motore romba e poi tutto si
placa. Vladimir R. vuota il bicchiere, accende un grosso sigaro toscano che lo
restituisce ai profumi di giorni lontani, senza malvagità, senza disperazione:
solo il profumo del tabacco, solo la punta accesa del sigaro. Perché la
nostalgia è una pianta velenosa che cresce lungo strade che si allungano
all’indietro.

– In quei giorni ero a V.
per lavoro. Incontrai per caso Renato, in un bar della piazza più grande di V.
A lui devo la mia seconda nascita.

– Seconda nascita? – si udì
una vocina sottile che un momento prima ci aveva chiesto: come avete potuto
ammazzarvi fra di voi?

– In breve: nel campo
eravamo divisi fra attivi e passivi, cioè fra quelli che ogni giorno uscivano
per trovare un lavoro, in nero, di solito in campagna e nelle vigne, e…

– Chi vi aveva diviso? –
fece quella stessa vocina cinguettante.

– Nessuno… noi da soli: in
disperati e lavoratori. L’ora di lavoro era pagata miseramente, quattro
cinquemila… (è possibile?, si interpone una voce. Non lo sapevate?, risponde
amaro Italo). Renato V. è stato il primo che si è messo a cantare nel campo, il
primo che non pensava solo a sé, ma che incoraggiava anche gli altri, l’unico
che sapeva qualcosa di italiano. Suo padre era stato combattente della
divisione Garibaldi. Si era innamorato di una di Sarajevo, era rimasto là, e
anche la sua tomba è a Sarajevo, con la stella rossa a cinque punte sulla
lapide. I suoi nipoti hanno dovuto andare al campo profughi, perché nessuno dei
parenti in Friuli poteva accogliere tutti insieme loro dodici, lui, la madre,
due fratelli con le famiglie. Fra i disperati io ero il caso peggiore.
Comunque, una volta andai con lui in campagna. Tagliavamo le erbacce in una
vigna. Quel giorno sulla strada che passa accanto alla vigna si guastò l’auto
della donna con cui vivo oggi… (ah, come è romantico tutto questo!, si inserì
la voce che quella sera ci aveva chiesto perché siete rimasti tanto a lungo nel
comunismo). Renato mi chiamò, mi mollò in mano una grande chiave inglese con
cui non sapevo che cosa fare… Lei si chiama Miriam, le prime parole le abbiamo
scambiate in inglese… (Vostra moglie?, chiese la voce che con dolcezza e
tristezza aveva parlato della Bosnia come di una occasione persa di un’Europa
non solo imprenditoriale ma anche multietnica).

– Viviamo insieme – rispose
brevemente, fra due sorsi, Vladimir R. e continuò: – Renato si è trasferito a
V. quando ha ottenuto la cittadinanza italiana. Aveva trovato lavoro in
un’agenzia turistica. Ma quando ci siamo incontrati era stranamente agitato,
fumava una sigaretta dietro l’altra, parlava piano e poco, come non aveva mai
fatto. Abbiamo bevuto un paio di bicchieri di bianco in un silenzio
imbarazzante. Poi mi ha chiesto di andare con lui, in ospedale. Per strada, in
auto mi ha raccontato in breve: dieci giorni prima, al lavoro, navigando su
Internet, aveva visto un annuncio: l’ospedale di V. cercava urgentemente un
interprete per la nostra lingua. Come se qualcuno gli avesse sussurrato:  Vai! È andato, la sera. Il medico di turno
gli ha affibbiato un registratore e lo ha accompagnato nella corsia del reparto
di traumatologia, dicendo: Registri e traduca. Nella stanza c’era il marito di
lei (cinquantanni, balbuziente, con le mani sgradevolmente umide). Lei era
tanto felice di andare alla manifestazione di protesta contro il razzismo.
Perché non si deve stare zitti come in Bosnia, prima della guerra. Eravamo in
un gruppo di miei amici, anarchici. Soffiava, con il viso radioso, in un
fischietto. Da qualche parte è piombata una pietra… I referti non mostrano
fratture al cranio, ma non parla più italiano, mi disse suo marito. Quel viso,
mi ha detto Renato, neppure il turbante di bende poteva imbruttirlo. Come se un
raggio di luna fosse caduto sul cuscino, celeste tenero! Che parole! Quando
penso al suo gergo fiorito delle strade di Sarajevo!

– E poi? Che cosa è successo
dopo? – fa impaziente la voce che individua la ragione principale della
jugo-tragedia nel comunismo, la disgrazia mondiale numero uno.

– E le mani, come sono le
mani di Lela! L’incarnazione della tenerezza, mi ha detto Renato, commosso. Il
marito di Lela gli ha offerto una sedia ed è uscito dalla stanza, a fumare una
sigaretta. Lei, Lela, ha aperto gli occhi e ha mormorato: La sedia non è
libera. E davvero, raccontò Renato, sulla sedia c’erano dei giornali che ho
tolto, ma lei ha ripetuto la stessa cosa. Ho sentito dei brividi che mi hanno
percorso dai piedi alla testa: c’era qualcun altro nella stanza? Quella sera si
è dimenticato di staccare il registratore. Non vedeva l’ora che arrivasse la
sera seguente. L’ho trovata sola, sveglia, con il cuscino sol-levato, con un
sorriso ai lati della bocca. No, non mi ha chiesto chi sono e perché ero
venuto, ma mi ha ripetuto di non sedermi su quella sedia. Si è arrischiato a
chiedere un confuso perché, che si sentiva a malapena. Là c’è lui, Ivan, non lo
vedi?! Attento a non inciampare nella sua valigia. Anche un momento fa mi ha
chiamato, per andarcene, ma io sono così stanca. Non è vero che non c’è, perché
i morti hanno le mani fredde, che puzzano di terra fredda e pesante, attraverso
cui non si vede né il sole, né la luna, né le stelle. Per prima cosa, lo dico a
voi, a tutti, andremo a Chartres, a vedere le vetrate in cui abita la luce… Di
sera in sera Renato siede accanto al letto di Lela, dai suoi brevi racconti
sparsi fra il sonno e la veglia collega in un qualcosa i frammenti della sua
vita.

– E il dottore? Che cosa ha
tradotto al dottore quel suo Renato? – chiede la voce che aveva insistito che
in Bosnia non ci sono chiese innocenti.

– Quasi tutto, tranne la
presenza di Ivan nella stanza dell’ospedale – rispose Vladimir R., e continuò:
– Lela aveva lasciato Sarajevo nell’aprile del 1992, quando era ancora
possibile uscire dall’assedio. Con lei doveva andare anche Ivan, il suo
ragazzo, studente di architettura come lei. Prima a Belgrado, poi in Slovenia
attraverso l’Ungheria, poi oltre, in Canada o in Australia. Quella mattina
neppure nell’angolino più remoto del suo cervello poteva immaginare che Ivan
non sarebbe venuto. Nel corridoio del suo apparta-mento stava la valigia di
Ivan, sulla valigia i biglietti aerei per Belgrado per cui il padre di lei
aveva pagato una piccola fortuna. Quattro ore prima della partenza dell’aereo,
Ivan telefona: Io non vengo, ma tu vai… Quando tutto questo sarà finito,
ritorna. Intanto, vivi e godi la tua vita; liberamente… La stanza si trasforma
in un turbine, lei scivolò lungo il muro. Nell’in-coscienza vedeva lui in fondo
a un deserto oriz-zonte di sabbia mentre continuava a sussurrare, con voce
vibrante: Tutto questo passerà, tu ritornerai. Era molto lontano, ma lei
sentiva il suo alito sul viso, e l’odore di quel giorno, delle sigarette
“Kent”, e poi, al posto di lui, di Ivan, su quello stesso orizzonte si
stagliava la valigia di Ivan e, accanto alla valigia, una grande àncora a cui
aderivano alghe scure e una quantità di conchiglie, che con uno stridore
metallico si aprivano e si chiudevano. Più tardi, quando riconobbe il viso di
suo padre, improvvisamente invecchiato, con efelidi color bruno cenerino sulla
fronte, e quello della madre, con le fossette che un tempo facevano
allegramente capolino sulle guance, si alzò e partì, ma non ricorda come fosse
giunta all’aeroporto né se in quel momento si sparasse. Mentre l’aereo rullava
sulla pista, Lela lanciò ancora uno sguardo verso l’edificio dell’aeroporto:
attraverso le grandi vetrate della sala d’aspetto si vedevano molti visi,
confusi, e mani in movimento, mentre salutavano i viaggiatori dell’ultimo volo
sulla linea, un tempo regolare, Sarajevo-Belgrado-Sarajevo. Un viso le sembrò
il suo, anche se tutti apparivano uguali: macchie biancastre dietro il vetro.
Forse è così lo sguardo da lontano a quelli con cui nel nostro ieri vivevamo,
amavamo, morivamo…

– Come è arrivata in Italia?
– chiede la voce che dubitava che la Bosnia fosse l’unico paese di odio al
mondo.

– Il racconto non è breve,
ma io cercherò di accorciarlo: a Belgrado non c’era ad aspettarla un’amica di
sua madre, come era stato progettato. Non aveva potuto trovare un biglietto per
la corriera diurna per Budapest. Buia e ignota le era apparsa la pianura
pannonica, infinitamente lunga e angosciante l’attesa alla frontiera ungherese.
Qui non si sa mai perché si aspetta, le disse uno sconosciuto compagno di
viaggio e le offrì del cognac da una bottiglia avvolta in carta da giornale.
Prima ho rifiutato, ma alla seconda offerta ho accettato, per la gola mi è passato
un sorso ardente e amaro, ho sentito un sollievo. Così, figlia mia, siamo
uomini, disse lo sconosciuto, nel mondo si è ammucchiata tanta schifezza che
non ti lascia respirare. Suo fratello l’avrebbe aspettata alla frontiera
ungherese-slove-na, nervoso per il ritardo della corriera Budapest-Lubiana,
stranamente silenzioso. A casa sua, a llirska Bistrica,6 di notte ascoltò come
nell’altra stanza lui, suo fratello, litigava con sua moglie: lei è mia
sorella! Ma io sono tua moglie, c’è anche il campo profughi, chissà quanto
durerà quella vo-stra guerra! I telegiornali sono pieni di immagini di Sarajevo
in fiamme. Talvolta le sembra di vivere in un brutto sogno, e quando mi
sveglierò – nulla sarà come in quel sogno. Dopo molti tenta-tivi, un
radio-amatore (noi crediamo al messaggio all’uomo, al legame fra uomini, le
disse quel-l’uomo) riesce ad ottenere un collegamento con i suoi a Sarajevo.
Dall’apparecchio: La voce di papà accompagnata da un ronzio vertiginoso. Così
il vento ulula sopra i lontani mari del sud?, si chiese Lela e pensò ai viaggi
mai realizzati con Ivan. Lui?, chiese al padre. Sta bene, ha chiesto di te, è
felice che tu sia al sicuro. All’inizio di maggio Lela è a Gorizia: a casa di
suo fratello era diventato insopportabile. Ha abbastanza denaro per alcuni
giorni in albergo. Fa il giro dei bar e dei ristoranti, per trovare un lavoro,
ma non sa l’italiano e la rifiutano. Comunque, riesce a trovare qualcosa: si
prende cura di una donna anziana, che sa un poco di sloveno. Si trasferisce da
lei, in una casa in una strada del vecchio nucleo storico. Dopo un po’
l’anziana donna si ammala, finisce in ospedale. La sua famiglia le troverà un
lavoro come cameriera in un albergo di Lignano, naturalmente in nero perché
Lela ha un permesso di soggiorno turistico. Una sera incontrerà Elio, un
anarchico di V., che la prenderà con sé. Venticinque anni più anziano di lei,
separato, padre di due figli, lui le dirà: vieni con me, e lei andrà, perché
per lei fa lo stesso, la stanchezza ha avuto il sopravvento. Per un anno e
mezzo ha vissuto nel suo appartamento, aveva una stanza per sé. Non mi toccava,
né io lui. Una sera Elio era tornato da Genova, stanco e afflitto dal funerale
della madre, e lei era passata nella sua stanza.

Perché era terribile vedere
che uno è tremen-damente solo, nella stessa casa. Nel gennaio 1994, a Milano,
all’Edicola davanti al consolato bosniaco, Lela comprerà “Oslobodjenje”,7 per la prima volta
dall’inizio della guerra. Su una pagina, in un elenco di morti, leggerà il nome
di Ivan. Il mondo è un oblio e una lontananza che devo attraversare, pensò e si
ricordò di quel suo godi la tua vita. Di questo aveva taciuto con Elio, anche
quando lui pronunciava il suo impellente: Lela, raccontami di te. Quella notte
lo sognai, vivo e sorridente.

– E il rapimento? – chiede
la voce che ritiene che tutte le guerre sono programmate in certi
irraggiungibili laboratori del male.

– Succederà quella sera,
dopo la mia uscita dall’ospedale. Verso mezzanotte Lela si sveglierà, si alzerà
dal letto e dirà: Portaci a Sarajevo… Cioè, lei e Ivan. Sono usciti dalle scale
di sicurezza. Lei si girava ogni momento chiedendo se venisse anche lui e che
facesse attenzione a non scivolare. Viene, viene, la rassicurava Renato. Gli
sembrava un’ombra avvolta nella coperta. La portò nel suo appartamento: le fece
mettere i suoi vestiti, in testa le mise un grande berretto e la stessa notte
partirono per Sarajevo, in tre, come voleva lei. (I suoi documenti?, chiede
qualcuno). Il suo passaporto era nell’appartamento di Elio, e quindi Renato
prese il passaporto di una ragazza che conosceva. (A mezzanotte?, si stupisce
qualcuno). Sì, a mezzanotte. L’ospedale denunciò il fatto alla polizia solo la
mattina dopo, ma il rapitore e la rapita erano già in Bosnia. (Quindi, là c’è
veramente la pace!, si intromette la voce che citava le statistiche
sull’aumento del numero di stranieri in Friuli). I giornali prima hanno scritto
che Renato era forse un magnaccia, che l’aveva portata via a forza, ecc. Poi,
che si trattava di una storia d’amore con il tipico triangolo… Hanno continuato
a scrivere, i giornali, e poi hanno smesso.

– Ma Renato non è innamorato
di quella ragazza? – dice qualcuno.

Vladimir R. sembra passar
sotto silenzio questa domanda, e ne pone una, a tutti:

– Come immaginate la fine di
questo racconto?

Le sedie strisciarono sul
pavimento della terrazza, come a un ordine inespresso tutti ci accostammo al
tavolo. La luce delle candele oscillava davanti al fiotto delle parole
pronunciate, molto vivaci, organiche, come se non vivessimo in un’epoca di
comunicazioni indirette: Lela ritorna in sé a Sarajevo, non riconosce Renato,
poi arriva Elio e la riporta a V.; Renato la porta subito al cimitero, perché
lei si convinca che Ivan è morto, poi rimane con lei a Sarajevo per vivere
insieme, felici, perché la cosa più bella è stare nel proprio paese, per
l’amore e per la vita e per la morte; no, Ivan non è morto, ma è un invalido e
non vuole che Lela lo veda mai così: ha pregato un giornalista di metterlo
nella lista dei morti, ma Renato lo troverà e Lela rimane con Ivan; no, è molto
più probabile che Lela si sia convinta che Ivan non c’è più, e quindi va con
Renato in America o in un altro paese; forse è proprio così, ma Elio non si
rassegna, assolda un investigatore privato che troverà il loro indirizzo
all’estero e organizzerà un nuovo rapimento, così Lela è di nuovo a V., con
Elio, ecc. ecc.

– Perdio, Vladimir, ci dica
com’è la fine della storia! – interrompe qualcuno, impaziente.

No, Vladimir R. non raccontò
la fine della storia, come se davvero al mondo ci fossero storie che non hanno
la loro fine. Il fumo del suo toscano sembrava non si dissolvesse, ma quasi lo
avvolgeva, tutto intero, e mi sembrò che fosse seduto su una nuvola notturna
che si sarebbe presto messa in moto, al primo alito di vento più forte.

– Guardate! Una stella
cadente! – gridò qualcuno.

Troppo tardi guardai in alto
(registriamo il fascino delle immagini in movimento grazie all’im-mobilità del
nostro occhio, mi venne in mente la prima lezione di un corso sul cinema): vidi
solo una codina di luce color rosso spento in transito per il vasto cielo
stellato.

Zugliano, novembre-dicembre
1998

Note

1 Affluente del torrente Torre, nel Friuli nord orientale.

2 Nei paesi balcanici il prosciutto di solito si affumica.

3 La parte croata di Mostar.

4 Cittadina in Friuli, fra Udine e Grado.

5 Piccolo centro vicino a Udine.

6 Città in Slovenia.

7 Quotidiano di Sarajevo, la cui edizione settimanale per
l’estero è in vendita anche in Italia.


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