Cronaca di un’amiciziaTC
"Cronaca di un’amicizia"

 

Eravamo cresciuti tutti
nello stesso quartiere, loro erano le sorelle maggiori. In Africa le sorelle
maggiori, non sono sempre quelle di sangue, ma sono chiamate così per rispetto
della persona più grande di te. Ma a forza di vivere insieme finiamo per
chiamarci tutti fratelli grandi o piccoli. Aïta è una ragazza molto carina
elegante e sexy: delle belle gambe, un bel corpo, la bocca da mangiarsela.

In famiglia erano due figli,
lei e suo fratello, non so perché: di solito gli africani fanno molti figli, i
genitori avranno avuto delle complicazioni dopo i primi due. I genitori, non
posso dire che erano ricchi, ma stavano abbastanza bene finanziariamente.

Ogni sabato era come una
festa, Aïta e i suoi amici del quartiere, tutti i fratelli maggiori, si
ritrovavano vicino a casa loro. Alcuni avevano le macchine, fidanzati e
fidanzate, amici e amiche andavano in giro per la città, mangiavano nel maquis
(ristorante dove si trova roba locale e non si spende molto), dopo di che
andavano a ballare, o andavano direttamente al mare dove prendevano delle
stanze in albergo e la domenica sera ritornavano tutti con gli occhi rossi e la
sabbia nei capelli, costumi da bagno e noci di cocco nelle loro macchine. Noi
ragazzini sapevamo che sarebbero arrivati alle cinque e mezza, li aspettavamo
tutti fuori e appena vedevamo una macchina rossa, oh eccoli! Tutti gli altri si
parcheggiavano in fila indiana. Correvamo verso di loro a prendere le noci di
cocco che ci regalavano sempre: in città c’era ma fa sempre piacere averlo
fresco.

Il racconto durava circa
un’ora, ognuno raccontava la sua avventura, brutta o bella, noi li
ringraziavamo come sempre e loro ci salutavano.

“Ragazzi buonanotte, entro a
lavarmi.”

Pian piano il luogo rimaneva
triste senza di loro. Tra di noi cominciavamo a chiacchierare e commentare.
Erano tutti bravi e buoni con noi, ma ciascuno aveva il suo preferito,
sognavamo di essere come loro da grandi.

L’andatura di Aïta, lo
stile, il suo modo di parlare mi piaceva. E il mio, che ignoranza!

Era lei il mio modello, i
capelli ben stirati con i prodotti americani, qualche volta le treccine fini
fini e lunghe fino alla schiena, sempre vestita all’Europea (bermuda, gonne mini
e pantaloni aderenti).

Io la salutavo venti volte
al giorno, un giorno mi chiese:

“Quante volte mi hai
salutato oggi?”

“Tante volte,” rispondevo.

“Adesso basta salutarmi ogni
volta che passo.” Ridemmo tutti. Il giorno dopo ricominciai e lei mi disse:

“C’hai la capoccia dura!”

Mi pigliava sempre in giro,
rispondeva prima di me al mio saluto.

Passarono due o tre
settimane e non si fece più vedere. Chiesi ad alcuni dei suoi amici e mi
dissero che era partita per la Francia a continuare i suoi studi. Ero contenta
della notizia perché era una persona a cui volevo tanto bene. Pian piano i
giorni passavano e io pensavo a lei. Non c’era più nessuno che mi mandava al
mercato e soprattutto di pomeriggio che era lontano dalla nostra zona, oppure
dal sarto per ritirare un nuovo vestito o ad accompagnarla dai suoi amici
perché non le andava di camminare da sola (non per paura, ma solo per compagnia
e per chiacchierare mentre camminavamo).

La mia vita diventò triste:
qualche volta piangevo. Quando vedevo dei gruppetti, il sabato sera, e non la
vedevo tra loro, mi sembrava che fosse partita una metà di me stessa. Qualche
volta mi svegliavo e mi sentivo vuota come una scatola, senza difese, non so
perché. Mi sembrava di aver perso una sorella maggiore di sangue: perché mi
sentivo così male? Forse perché a casa mia stavo male, venivo trascurata, mi
mancava qualche cosa: però eravamo tanti a casa, ero una ragazzina molto aperta
con tutti. Ma poi scoprii che gli altri si approfittavano di me, alcuni
pensavano che ero stupida: mi dava un dispiacere enorme e passavo tutto il
tempo a piangere. Ho talmente pianto che adesso la vita mi ha resa più dura,
non so se la vita o le persone.

Non mi arrabbiavo mai, non
sapevo cos’era litigare: fare a botte a me pareva un comportamento selvaggio. E
a casa, per me era normale quello che facevo, perché lo facevo con amore, e
venivo buttata come un sacco di riso vuoto dopo l’uso. Allora l’unica cosa che
mi venne in testa, fu di aggrapparmi agli amici di fuori e così sono cresciuta
sulla strada: amavo le mie amiche e le conoscenze che mi ero fatta fuori di
casa, finalmente stavo bene, mi ero creata una famiglia fuori.

Quando Aïta mi scriveva
sembrava che la lettera mi desse energia, correvo subito dai miei amici e la
leggevamo insieme, ero contenta tutta la giornata, anzi per un paio di
settimane, poi quando andavo a letto mi piaceva leggere con calma, allora la
tiravo fuori e cominciavo a leggere pian piano, sorridendo tutta allegra e
pazza.

Dopo due anni Aïta venne in
vacanza; ve lo giuro, sembrava una festa, e lo era. I suoi amici avevano
organizzato qualcosa in suo onore e fummo invitati anche noi sorelle e fratelli
minori. Mi regalò una catena in argento dove era scritto il mio nome, delle
scarpe ballerine e un bel vestito giallo: e intanto gettava un’occhiata a me
che restai aggrappata per tutta la sera alla sua minigonna. Mi chiamava
dappertutto: quella sera sembravamo tutti pazzi da legare: una piccola festa
diventò un bum. I conoscenti venivano dappertutto, anche non invitati, così è l’Africa,
cugini suoi, sorelle e cugini di amici, la casa si riempiva e non c’era più
posto. All’inizio eravamo una trentina, alla fine quasi centocinquanta, la casa
stava per scoppiare e il caldo dove lo mettete?

Decidemmo di andare tutti
fuori, ciascuno pigliò la sua sedia e andammo proprio sulla strada, senza
chiedere il permesso al Comune abbiamo dovuto chiudere la strada: c’era da
mangiare, da bere e la musica. L’indomani alle sei della mattina liberammo la
povera strada.

Passò un mese e Aïta tornò
in Francia. Qualche mese dopo accadde una disgrazia che nessuno avrebbe mai
pensato.

Una domenica mattina stavo
lavando i miei panni e arriva un’amica piangendo e siccome anche lei era nella
mia stessa situazione in casa, e spesso piangevamo insieme di nascosto, pensai
che la sua seconda madre l’avesse picchiata come al solito. Lei singhiozzava
talmente che non riusciva a parlare. La presi per le spalle e le dissi:

“Se non la smetti non potrai
parlare e io non potrò aiutarti.”

Mi disse: “I genitori della
tua amica sono morti.”

Non la lasciai finire, la
superai di corsa e correvo verso la casa dei genitori di Aïta. Entrai senza
bussare e trovai tutti che piangevano, mi lasciai cadere per terra a piangere e
piangevo con tutte le mie forze: se le lacrime fossero state sangue sarei già
morta. Alla fine non era più per loro che piangevo, ma per la mia situazione:
mi prese una pietà tremenda e non ce la facevo più a fermare i singhiozzi.

I cugini che avevano perso i
loro zii si girarono tutti verso di me per chiedermi di smettere. Chiesi di
cosa erano morti e una voce mi disse che avevano avuto un incidente con la
macchina mentre tornavano al villaggio: erano morti il padre, la madre e il
fratello di Aïta.

Ai funerali vennero
conoscenti e parenti dappertutto. La seconda settimana arrivò Aïta, andò al
cimitero per la sepoltura dei suoi, dopo i tre giorni dei funerali ripartì per
la Francia con molto dolore.

Ricevetti una prima lettera,
da lei, che mi faceva sapere di aver cambiato casa perché la prima costava
troppo, e che tra due anni sarebbe venuta in vacanza: gli studi andavano così,
così … io la capivo, con tutto il dolore che aveva avuto.

Passò un anno e mezzo ed
eccola. Io ero sempre contenta di vederla, passammo una prima settimana triste
a piangere: trovare la casa senza i suoi la faceva sentire molto male.

La seconda settimana, tu mi
conosci, io le dissi:

“Cara, mi dispiace dirtelo
ma non puoi passare la vita a piangere, devi farti coraggio, il mondo è fatto
così, loro sono andati, ma tu sei viva, quindi devi pensare a te stessa e
adesso non lasciarti abbattere, devi lottare per uscire da quest’incubo.
Andiamo a bere qualcosa?”

Un’altra volta mi disse:
“Forse hai ragione, andiamo.”

Chiamò due suoi amici e
uscimmo insieme. Prima facemmo una buona mangiata e dopo cambiammo locale: non
sapevo che avesse tanti soldi, pagava tutto. Ci fermammo davanti a un altro
locale, Aïta alzò la testa e lesse “discoteca” e ci fece una proposta:

“E se entrassimo qui a
divertirci un po’?”

E noi: “Siiiii,” tutti
insieme, “entriamo ohhhhh,” tutti eccitati dal vino della cena. Lei pagava
tutto, due champagne oltre a tutte le consumazioni. Il mio paese è caro e chi
paga senza difficoltà vuol dire veramente che c’ha les lias* e così ogni
sera.

Sono cresciuta in una zona
come Trastevere o Testaccio: ristoranti, piano-bar, discoteche, cinema, locali
economici dove si mangia dalla mattina alla sera e ci si diverte. Il sabato e
la domenica andavamo al mare e mangiavamo pesci alla brace, polli, aragoste, attiéké**,
banane.

Era la più contenta e pazza.
Dopo due settimane tornò in Francia. Venne per le vacanze di Natale, di Pasqua
e le vacanze lunghe, tutto sommato ero molto felice di ritrovarla, perché i
primi due anni erano stati molto duri senza vederla. Qualcosa per me c’era
sempre: scarpe, mutande, occhiali e io approfittavo per chiederle:

“Ma cara, sono tre volte che
vieni giù quest’anno, e poi tutti questi regali? Pare che il biglietto sia
molto caro.”

Mi guardava, mi faceva un
sorriso:

“Non ti preoccupare, il
franco francese è più alto del CFA: con 100 franchi campo cinque giorni qua e
poi lavoro e vado a scuola il pomeriggio.”

Un anno dopo, io le scrissi
dicendole che stavo per andare in Francia. La sua risposta fu preoccupata o
impaurita, però mi disse di chiamarla quando fossi arrivata.

La prima telefonata che
feci, non c’era. Lasciai un messaggio con il mio numero sulla segreteria
telefonica, non ricetti risposta. Andai per tre settimane in un’altra città e
poi ritornai a Parigi. Pensavo sempre a lei:

“Adesso che sono vicina non
la posso vedere, è strano.”

Ogni giorno ne parlavo con
mia sorella e lei mi diceva:

“Vedi, qui non siamo in
Africa, qui è l’Europa e la vita è talmente dura che l’esterno umano può
cambiare. Avrà i suoi problemi, quando tutto sarà finito ti chiamerà.”

“Boh, dei problemi? Non
penso proprio.”

E raccontavo la bella vita
che faceva giù nel nostro paese. Mia sorella mi ripeteva: “Qui siamo in
Francia.”

Rimasi due mesi a Parigi
senza vederla, ed ero più triste di quando ero giù, perché sarei voluta stare
con lei invece che con mia sorella. Una sera, chiacchierando, chiesi di
portarmi in giro a vedere i posti più famosi di cui avevo sentito parlare in
Africa: Place de la Bastille, Champs Elysées, Tour Eiffel, la Redoute, Galeries
Lafayette, Bois de Boulogne.

L’indomani andammo un po’
dappertutto e poi la sera facemmo un giretto notturno, prima al Bois de Creteil
e poi al Bois de Boulogne. C’era il colore di quasi tutto il mondo, la macchina
camminava pian piano, vedevo tante pellicce: allora io non sapevo la differenza
tra omosessuali e travestiti, non credevo ai miei occhi, mi vergognavo un po’ e
poi, per curiosità, spalancavo gli occhi e guardavo diversi trucchi e
pettinature.

A un certo punto cominciai a
vedere persone scure di tutti i paesi, mi prese la tristezza, pensai:

“Questa è l’Europa.”

Alcuni pronunciavano
parolacce perché sapevano che non eravamo clienti, mi dava fastidio guardare
questo spettacolo, così dissi a mio cognato di andare via. Ma appena
accelerammo vidi una creatura che mi sembrava conosciuta: “Ferma, ferma!” gli
dissi.

Scendo dalla macchina e
corro a metterle le braccia intorno alla vita, le sollevo la testa: è proprio
lei, Aïta.

Non ha fatto in tempo a
scappare, io la tenevo stretta stretta contro di me. Ci vennero incontro mia
sorella e suo marito, io deliravo:

“Aïta, sono quattro mesi che
sto in Francia, ti ho chiamata, volevo vederti, non ho mai ricevuto una
risposta. Che cosa ti ho fatto? Se ho sbagliato perdonami, fa qualcosa, non
rimanere senza segno di vita. Posso venire da te questa notte o domani o
dopodomani?”

Dopo una mezz’ora così,
sapete cosa mi ha detto?

“Perché sei venuta qui?
Vattene!” a voce bassa, e scoppiò a piangere e io l’aiutavo. Non realizzai
subito che lei mi diceva di andarmene, slacciò le mie mani da lei:

“Chiamami domani mattina.”

Passai la metà della notte a
piangere sembrava che m’avessero detto del decesso di mia madre e come il sonno
è un genere di morte … Aprii gli occhi alle otto e mezzo e mi lanciai sul
telefono come un leone: una voce addormentata mi rispose:

“Hallo.”

“Sono io.”

“Ah sì. Ti vengo a prendere
stasera verso le sette e mezza, otto.”

Fui felice tutta la
giornata, ogni tanto guardavo l’orologio. Mia sorella mi disse:

“Vedi Umu, la vita può
cambiarti, soprattutto quella dell’Europa, è talmente dura che le persone
deboli di carattere possono fare cose sbagliate, e non è tutto, si può fare una
conoscenza sbagliata, entrare in affari sporchi, come la droga. Conosco uno che
era amico di tuo fratello, una persona seria, oggi è fottuta e io ho smesso di
frequentarlo, non ti dico il nome per non spaventarti. In Africa si può
mangiare dallo zio, dalla zia, dalla sorella, dai cugini da parte di madre e di
padre, puoi dormire dove ti pare, i genitori ti aiutano, ma qui non c’è
nessuno, devi badare a te stessa capisci?”

Non volevo affrontare
l’argomento con Sita per il mio orgoglio, la mia fierezza verso Aïta, con il
mio silenzio chiusi il discorso. Alle sette il citofono suonò. Presi i miei
bagagli, baciai Sita ed ero già giù ad abbracciare Aïta.

Partimmo in una bella
macchina rossa e dopo un lungo percorso parcheggiammo. Mi prese la valigia dal
cofano:

“Ma cos’hai qua dentro?”

“La mia roba.”

Fece silenzio. Il codice del
portone, l’ascensore e finalmente aprì la porta di casa:

“Adesso sì che siamo
veramente in Francia!” feci io e lei zitta.

Aveva un bell’appartamento,
una moquette rosa in cui sparivano i piedi da quanto era folta e morbida. Mi
passò subito delle babbucce per non camminare con i tacchi nella moquette. Mi
chiese se volevo bere.

Visitavo la casa senza
permesso, la superavo, mi infilavo in ogni buco, in camera sembrava esserci la
pelle di una grande bestia stesa per terra e le tende erano rosa come la
moquette e a destra del letto una bella toilette, tanti cassetti, i muri
nascosti dagli specchi. Aïta mi seguiva con il bicchiere in mano. Il bagno era
piccolo ma molto carino, lo specchio fin quasi al soffitto, un piccolo
televisore e un telefono, un armadietto senza anta in cui erano disposti
asciugamani di tutti i colori. Due fotografie come poster: una spiaggia e una
veduta marina, l’acqua era talmente pulita che si vedeva tutto. Lei era seduta
e un leggerissimo trucco metteva in evidenza la sua bellezza.

Nella seconda stanza la
moquette era blu e normale: c’era un bel divano morbido in cui mi lasciai
cadere, e una grande scarpiera piena.

“Sembra la casa di Michael
Jackson!”

Ragazzi sto esagerando, ma
in Africa per avere un secondo paio di scarpe vuol dire che il primo è fottuto,
quindi non potrai mai avere una scarpiera con le scarpe di tutti i colori.

In un armadio: tre pellicce,
vestiti, parrucche. Presi la strada della cucina, sempre piccola tipo
americana: sembrava un bar, un bancone e tre sedie alte, dall’altra parte un
tavolino con due sedie. Da dietro al bancone aprì il frigorifero e tirò fuori
un pacchetto di patatine scongelate e due bistecche e l’insalata: io l’aiutai a
pulirla. Fece una cosa veloce, birra o vino. Volli mangiare sul bancone e lì ci
installammo. Evitai di affrontare la sua realtà. Poi lavai i piatti e ci
mettemmo a guardare un film alla tele chiacchierando del passato. A me sembrava
che nessuna di noi avesse voglia di toccare l’argomento per paura di offendere.
Si alzò e andò in bagno, mezz’ora dopo mi disse:

“Andiamo a fare il bagno!”

“Mi sono lavata prima di
venire.”

“Vieni, è rilassante, ti fa
bene.”

Mi metto dentro alla vasca:
che bello, il riflesso della fotografia nell’acqua sembrava un piccolo mare. È
in bagno che cominciò a parlare.

“Spero che tu mi capisca,”
io avevo gli occhi in acqua e guardavo il riflesso, Aïta mi alzò la testa e
continuò, “ho perso i miei, ero obbligata a badare a me stessa.”

“Certo,” feci io, “ma ci
sono tanti tipi di lavoro.”

“Lo so, ma con questo si
guadagna meglio: qui non è come in Africa, qui si paga tutto.”

Io zitta, non potei dirle
quello che pensavo liberamente. Continuò, sempre senza approfondire la cosa.

“Lo so che la società
africana condanna alcune cose, soprattutto i lavori sporchi: ma tu non
giudicarmi.”

“Assolutamente no,” risposi.

Non riuscivo ad affrontare
il problema, forse per rispetto o per la sua dignità di donna, comunque rimasi
senza parole convincenti. Cambiai discorso:

“Posso restare con te?”

“No, Umu, senza cattiveria,
ma non voglio.”

La capivo. Forse per essere
più libera e fare tutto ciò che voleva, per la sua tranquillità, per il suo
orgoglio di donna seria e la fierezza che aveva guadagnato nei miei confronti:
la voleva preservare, voleva essere guardata come prima. Cambiai ancora
discorso.

“La casa è pulitissima chi
te la pulisce?”

“Una che viene due volte la
settimana, e poi non è che si sporca tanto, sono sola.”

“Te la potrei pulire io, se
rimango qui, e mettere tutto a posto.”

“Sì, lo so, mi fido di te,
ma è meglio che te ne vai nella città dove sta tua sorella, che è più
tranquilla. Parigi è piena di tante cose strane.”

Fui d’accordo e mi ricordai
degli ultimi anni, quando veniva giù, e dei soldi che spendeva senza esitare.

“Cosa pensi? In quella città
si studia bene, tu cosa vuoi fare?”

“Io, la sarta.”

“Ci sono buone scuole, ma
molto care: chi te la pagherà?”

“Lavorerò per pagarmela.”

Scuoteva la testa, forse
aveva ragione perché io, in quella scuola, poi non sono mai stata. Costava
veramente: chi mi poteva aiutare? Nessuno.

Un silenzio si abbatté su di
noi. Aïta uscì dalla vasca prese uno dei due accappatoi e mi invitò a prendere
l’altro. Stavo andando direttamente a letto e lei mi richiamò:

“Metti il latte dopo-bagno:
se non la ungi, la pelle nera con questo freddo diventa secca.”

Nel letto mi ci perdevo, a
causa della morbidezza del materasso: per me era scomodo, forse per il suo
lavoro aveva bisogno di una cosa tenera per potersi rilassare. La strinsi forte
e lei lasciava fare come una mamma. Alle otto e mezza cantò la sveglia delle
parole seguite da una musica da funerale che i francesi chiamano canzone, che
invece di svegliarti ti fa dormire: era Jacques Brel, pare fosse un poeta, era
una canzone che aveva dedicato a Edith Piaf (Ne me quittes pas); ma io
sono africana, avrei preferito una musica da ballo per farmi alzare dal letto.
Mi alzai, preparai la mia valigia.

In macchina Aïta mi chiese
se avevo visto alcuni dei suoi amici prima di partire per la Francia.

“Sei arrabbiata?” mi fece.

“No, ti capisco.”

“Grazie cara.”

Arrivammo da mia sorella, mi
accompagnò su: fu lei questa volta ad abbracciarmi fortissimo. Se ne andò per
sempre. Sita mi faceva domande, ma io le dissi molto poco.

“Sai, Umu, l’Africa ha
conservato ancora il suo pudore, che abbiamo noi neri – non parlo di quelli
degli Stati Uniti, che ormai sono civilizzati – perché sappiamo tutti che
alcune cose sono vietate, condannate dalla società africana e quindi giù ci
comportiamo bene, ma ognuno ha i suoi vizi, quando arriviamo all’estero, ci
sciogliamo come capelli legati, come visi nascosti dentro di noi.

Il lunedì mattina partii per
un’altra città dove c’era un’altra mia sorella, Mariam. Non ho più chiamato
Aïta dopo averle lasciato un ultimo messaggio in segreteria, perché sentivo che
voleva allontanarsi da me. Ho incontrato tante persone come lei, nel bar dove
lavoravo, perché in quella zona c’erano molte case chiuse, e mi sono fatta tra
loro belle amicizie: sono sensibili, affettuose e sincere, ma non ho avuto più
il coraggio di chiamarla, non so perché.

Dopo un anno avevo perso la
metà del mio pudore africano, avevo imparato che ciascuno è libero di fare ciò
che vuole, me ne fregavo di tante cose, ma ho perso la mia Aïta per sempre.
Forse perché non ho potuto dimostrarle che non era importante per me quello che
faceva e che la sua vita privata non riguardava nessuno. Non ho trovato le parole
per convincerla e sostenerla moralmente e fisicamente come ho fatto con altri:
l’ho persa anche se so che lei si è ritrovata, è tornata giù e fa
l’avvocatessa.

 

 

* “Soldi” nel linguaggio da strada.

** Un
genere di cuscus fatto con polvere di manioca.

 

 

 

 


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