Sono passati quasi vent’anni
da quando mi vergognavo del mio nome.
L’appello a scuola era un
vero tormento. Sgranavo col respiro e col petto quell’elenco di rintocchi
nitidi dal suono via via più forte fino all’apice, il mio nome, su cui la
maestra avrebbe indugiato più che sugli altri, avrebbe faticato imbarazzata e
al suo disagio si sarebbe aggiunto il mio. I bambini mi avrebbero guardata. Io
avrei sorriso, anticipando il resto della scena in cui la sagoma azzurra sulla
lavagna formula la consueta domanda.
– Come ti chiamano di
solito?
– Mina.
Mina.
Così facile, pronto all’uso,
immediato e intuitivo come premere un pulsante: e d’improvviso la tensione
cala. Meno male. Niente più imbarazzi né sforzi per alcuno, conoscente o meno,
grazie a quei pochi fonemi accessibili ad ogni italiano dai due ai cento anni;
e chiunque può finalmente riprendere in mano la sua vita giocandola nella
tranquillità del quotidiano e del noto, al riparo da estranei che possano
gestirla al posto suo.
Doveva essere in prima media
quando mia madre, in preda ad un psicotica attribuzione a me dei suoi desideri,
ebbe la sfortunata idea di informare l’assemblea di classe circa quanto – così
disse – desiderassi essere chiamata con il mio nome di battesimo. Fu il
collasso. Mentre i professori domandavano accorati il motivo di tanto dolorosa
rinuncia, i compagni litigavano con i propri organi fonatori e, da lì a poco,
la maggior parte di loro gettò la spugna. Senza affatto mentire, provai a
negare l’espressione di quel desiderio e di alcun altro simile, ma ne uscì una
spiegazione pastic-ciata e poco credibile, giacché faticavo nell’at-tribuire
ogni colpa alla mia genitrice. Ne emersi di conseguenza a fulgida icona di
martire, testimone di come a volte le migliori intenzioni (materne e non) non
solo siano insufficienti, ma possano rivelarsi deleterie.
All’epoca dei fatti le mie
priorità andavano ben oltre la salvaguardia del mio nome e, dopo tutto, che una
tale mutilazione possa considerarsi una violenza alla mia identità culturale lo
scopro solo oggi. La ragazzina di allora si preoccupava unicamente di rientrare
nei canoni della norma per quanto concerneva il nome, la casa, gli abiti e
tutto ciò a cui l’infanzia e l’adolescenza possono aggrapparsi per colpire e
umiliare.
Il fatto che i soldi
mancassero era una regola, perciò la mia, come tutte le più belle case
malgascie, aveva sempre un’aria un po’ precaria. Ammesso che la provvisorietà e
l’incompiutezza delle abitazioni si sposino perfettamente con il clima
culturale di eterna e sognante fluttuazione tipica del Madagascar, dove le
lunghe giornate sono scandite dal motto Mora mora
mora mora (“piano piano
senza fretta”) che culla e stordisce come una ninna nanna; come avrei
giustificato i cavi elettrici a vista e i buchi da trapano che mio padre
sbagliava sistematicamente nel muro del bagno agli occhi dei miei amichetti
insindacabilmente emiliani?
Sicché non li invitavo.
A nove anni circa bloccai la
mia amica del cuore sulla rampa delle scale a pochi metri dalla porta
d’ingresso. Sembrava determinata a neutralizzare ogni mia resistenza e calcava
con risoluzione ed enfasi i gradini che la separavano dalla meta, quando ebbe
un provvidenziale guizzo d’interesse per l’ascensore. Mi aggrappai, allora, a
quella distrazione con la fulminea prontezza dell’acrobata al trapezio e la
condussi altrove, palpitando come la lepre sfuggita al lupo.
In un’altra occasione la
nuova protagonista dell’incubo si intrufolò nella mia camera prima che potessi
arginare la sua curiosità. Non ebbi il tempo di pensare. Divenni lei e lei era
una telecamera che registrava la modestia del mobilio: il letto a castello a
tre piani in ferro, arancione fino al secondo e grigio l’ultimo, e l’armadio
scrostato su cui qualche buontempone aveva lasciato, senz’altro a prezzo di
qualche ceffone, il segno di Zorro.
Non era facile.
Niente era facile, se il tuo
nome era uno scioglilingua e tuo padre veniva a prenderti a scuola con la Prinz
verde quando, vedendone una, a Modena si incrociavano le dita e si gridava:
“Immune!”. Per fortuna i bambini possiedono quel principio di non
contraddizione che a noi manca completamente, se non nei sogni; così, ricordo
confusamente di aver sperato di risve-gliarmi un giorno bianca, come quei pesci
che nascono femmine e, per naturale trasformazione, divengono maschi una volta
adulti.
Era mia ferrea convinzione
che fosse la negritudine, così distante dalla consuetudine, a portare
sofferenza.
Mia madre, anticipando
preoccupata tale convin-zione, non faceva che ripetere quanto fossimo “poveri
fuori, ma ricchi dentro”, spinta dal suo orgoglio malgascio come da un grido
che sostiene lo sforzo. Quanto a me, coltivavo a più non posso l’intelletto
perché continuasse ad illudersene.
Tuttavia soffrivo.
Soffrivo delle sedie
scompagnate, dei vestiti confezionati ad hoc per Carnevale così goffi dinanzi
alle crinoline delle damigelle, soffrivo di dover mentire per nascondermi e
nascondermi per aver mentito. Ero un pellicano tanto leggiadro in cielo, quanto
maldestro a terra. Faticavo a spic-care il volo ed avevo l’impressione che più
mi prodigassi, più le mie zampe corte e il mio ventre tondo mi ancorassero al
suolo. Era la terra dell’in-vidia, della rabbia e, più grandicella, dell’intellet-tualizzazione,
delle spiegazioni sofisticate per distrarsi dal dolore.
Anche mio padre doveva avere
sofferto in modo simile al pensiero di un Paese lontano così bisognoso di cure
e così pronto a gratificare l’orgoglio mentre, ai suoi occhi, l’amor proprio e
la laurea in medicina si consumavano racco-gliendo frutta fra i filari di
qualche contadino.
Una settimana fa ho fatto un
sogno. Alcuni bambini giocavano in circolo passandosi ordina-tamente in senso
orario il berretto di lana di un compagno. Faceva freddo. I palazzi grigi e i
loro margini trasparenti contro il cielo sembravano voler proteggere il gioco
nella piazza d’asfalto. Tutto ad un tratto, quando il proprietario ricevette il
berretto, prese a correre all’impazzata allo scopo di proteggerlo. Sapeva che
prima o poi i compagni avrebbero cambiato registro e, dall’ordine iniziale, si
sarebbe avuto un caotico scambio di dispetti che gli avrebbe impedito di
riavere l’indumento. Gli amici gli stavano alle calcagna; il ragazzino correva
cercando un rifugio per il suo tesoro e, intanto, ripeteva il suo nome.