L’una, nella tortilleria
di mia zia, è l’ora degli studenti. Arriviamo con le nostre uniformi in
disordine, il cencio per le tortillas sulla
spalla e lo stomaco che protesta.

È un momento divertente: tra l’attesa, la fame e i
racconti di scuola non sentiamo il tempo che passa. Camminando verso casa, mi
mangio la prima tortilla. A casa
finisco di pranzare, e do la loro parte al pappagallo e al cane.

Koki è un cane ben educato, non chiede mai più di
quanto gli spetti, o di quanto io possa dargli. So che a volte resta con la
fame, però si adatta. Quando faccio la siesta sull’amaca, si accuccia lì sotto
e accompagna il mio sonno. Più tardi, usciamo tutti e tre a fare la nostra passeggiata
per il quartiere: passiamo dai cugini, dalla Lupe – la vecchina che vende dolci
e altre ghiottonerie – e alla fine dalla zia, per aiutarla a sgranare il mais.
Lo comprano in pannocchie, dice lo zio Lenchito che costa meno.

Dicono che prima, venticinque anni fa, qui non
c’erano case, era una discarica. Finché non cominciò ad arrivare gente da tutti
gli angoli del paese e invase la discarica. Adesso siamo abbastanza «abituati»
a vivere ammassati.

Mi ricordo, quando ero piccolo, ogni giorno una
baracca «nuova». Un palo qui, uno là, pezzi di cartone, plastica, qualche
lamiera, ed ecco fatta la casa. Pochi costruivano bene, sia perché non c’erano
soldi, sia perché pensavano che sarebbe stata una cosa temporanea, che prima o
poi sarebbero tornati ai propri paesi. Non fu così: gli anni passarono, i
bambini crebbero, la guerra si fece grande e la povertà eterna.

Ancora oggi ci sono baracche di cartone, quelle
della gente più anziana. Come la Berta, una vecchina simpatica, che quando
posso vado volentieri a trovare. Era molto amica di mia madre e racconta spesso
di lei.

Alla mia famiglia non piace molto parlare dei miei
genitori, ma alla Berta sì: dice di essere andata a scuola con mia madre, e che
sono cresciute nella stessa zona, a Est… Che hanno avuto persino dei fidanzati
in comune. Quando la gente cominciò a mobilitarsi, in campagna, furono tutte e
due molto attive. Ma quando suo marito finì desaparecido,
la Berta si spaventò e preferì venire a San Salvador.

Mia madre e mio padre restarono, con le mie due sorelle,
e poco dopo gli toccò la stessa sorte. Solo che mia madre non fuggì. Anche se
vide mio padre morto e mutilato, cinque mesi dopo che lo avevano rapito. Ci
mancò poco che morisse per l’impressione, ed era incinta di me.

Quando lo seppero, mia zia e la Berta andarono a
prenderla quasi con la forza. «Fallo per le tue figlie, e per la creatura che
porti dentro», le dissero. Fu così che venni a nascere all’ospedale Rosales, e
non in campagna.

Dice mia zia che i dottori volevano che mia madre
mi regalasse a loro, perché non ce l’avrebbe fatta a crescermi. Ovviamente non
accettò. Non accettò nemmeno di starsene tranquilla e rinunciare alle sue idee.
Poco tempo dopo l’arrivo a San Salvador, rientrò nel movimento, era sempre in
giro: riunioni, manifestazioni e non so che altro. E quando stava a casa,
lavorava. Dipingeva, cuciva, decorava. Ogni tanto mandava le mie sorelle al
fiume a cercare pietre levigate, e con i suoi colori le trasformava in
tartarughe. Altre volte andava a Ilobasco a prendere l’argilla, e a casa si
inventava di tutto: uccelli, casette, personaggi… Un’infinità di cose, che le
suggeriva la fantasia. Racconta la Berta che le andava bene, vendeva tutto.
Così ci dava da mangiare.

Mia sorella, Mariacristina, mi rinfaccia che io sì
che ho bevuto latte buono, che mia madre arrivava sempre con barattoli di
quelli cari. «Ti trattava come un figlio di ricchi».

Mi ricordo poco di mia madre. A volte la notte,
nella penombra, mi sembra di vederla lì, che dipinge i suoi animaletti di
argilla o canta dolcemente le sue canzoni. Ma è solo la mia immaginazione, sono
passati più di quindici anni da quando è scomparsa.

Un venerdì passò di corsa dalla Berta, e le disse:
«Senti, Berta, io vado a fare delle cose fuori città. Guardami i bambini, gli
ho lasciato da mangiare e un po’ di soldi». E non tornò, aspettarono,
aspettarono e niente.

Conservo ancora alcune delle sue cose: qualche
statuetta e un uccellino di argilla, di quelli che fischiano quando gli soffi
nel culetto. Me lo aveva fatto il giorno del mio primo compleanno. Raccontano
le mie sorelle che io, contento, volevo continuare a fischiare fino a sera, e
se me lo toglievano piangevo. Una volta che ci fu il terremoto, quasi si ruppe.
Mi ricordo che uscii correndo fuori di casa con l’uccellino in mano.

Le case delle comunità non crollarono, né quelle
di terra, né quelle di cartone. In centro, molti palazzi furono danneggiati e
altri caddero in testa alla gente.

Fu allora che molta gente della comunità rinnovò
un po’ le case, arrivò qualche aiuto dall’estero e il regime lo rivendette a
poco. Mia zia si fece una baracca fuori, nel piccolo giardino, per la tortilleria, con alcune panchette per i
clienti. A casa nostra, Lenchito costruì una grondaia per l’acqua piovana e
cementò il pavimento.

Furono contente le mie sorelle, che a quei tempi
cominciavano a uscire con i ragazzi. Spazzavano e lavavano il nuovo pavimento
anche due volte al giorno.

Quello di Juanita si chiamava Alfredo e quello
dell’altra… Beh, Mariacristina ne ha avuti tanti. In compenso la Juanita e Alfredo
erano fatti l’uno per l’altra. Furono fidanzati per tre anni, poi si sposarono
e andarono a vivere a Merliot. Ora stanno bene, con tre bambinetti. Li
vado a trovare tutte le domeniche. Aiuto i miei nipoti a fare i compiti,
rimango lì tutto il giorno. Non resto mai a dormire da loro, la sera mi prende
la smania di andare via. Mi sento a disagio in quelle comunità nuove, con le
case tutte uguali e con le porte sempre chiuse. Quartieri senza storia. Invece
la nostra comunità, anche se difficile, una storia ce l’ha.

Vado solo a trovare Juanita e a prendere il poco
aiuto che mi dà. Con questo, e con quello che mi dà l’altra sorella, posso
studiare. Non è molto: nessuna delle due ha un’entrata fissa. Una perché è
casalinga, l’altra per i vizi, perché beve e se ne va in giro. Non mi vergogno
che lavori come puttana, qui c’è un sacco di gente che lo fa. Quello che mi
dispiace davvero è quando compare, dopo mesi, ubriaca fradicia e magari anche
malmenata. Mi abbraccia, ricorda nostra madre e si mette a piangere come una
bambina.

A volte, invece di portare qualcosa, viene a
chiedere, e quando posso le do volentieri. È molto buona con me, affettuosa, e
siccome è la più grande le voglio bene come a una madre. Mi si spezza il cuore
quando arriva piangendo e mi chiede perdono per le cose che fa. Io solo la
ascolto, le presto la mia spalla finché non si addormenta. Il giorno dopo,
quando torno da scuola, non la trovo più. E poi torna dopo settimane, o mesi.

Quando Juanita si sposò arrivò con un gruppo di mariachis molto eleganti, che chissà
quanto aveva speso, ma lei e così…

Facemmo una grande festa. Partecipò mezza
comunità: mia zia fece il pollo alla griglia, qualcuno portò il riso.
Mangiammo, bevemmo, ballammo e i più grandi piansero anche, ascoltando i mariachis che cantavano le rancheras messicane.

Venne il parroco e, quand’era già mezzo brillo, si
mise a raccontare barzellette sconce, di quelle che si inventa la gente di
Chiesa. Me ne ricordo una che mi fece morire dal ridere: una ragazza va a
confessarsi dal parroco. «Padre», gli fa, «ho commesso un grave peccato, e
vorrei essere perdonata Qualche giorno fa sono andata a letto con il parroco
dell’altra chiesa». E il prete risponde: «Figlia, sei perdonata, ma non
dimenticare che la tua parrocchia è questa».

Il parroco rideva moltissimo, quando la
raccontava, e tutta la gente dietro.

Alle nove la festa finì, e quella sera stessa il
cognato portò via Juanita e le sue poche cose. Ora non tornano quasi mai. Gli
do ragione: dopo la firma degli accordi di pace, la comunità è diventata
piuttosto violenta, come se la guerra si fosse spostata da noi. Dice la Berta
che è perché i ragazzi guardano troppa televisione gringa.

Mi fa un po’ pena vedere oggi tutti i bambini
cresciuti con me che, se non sono morti o invalidi, sono nelle bande di
violenti o in galera, oppure sono pieni di figli. Solo pochi di noi, i più
fortunati, stiamo studiando, anche se non sappiamo che faremo se arriviamo alla
fine, perché qui non è un buon affare lo studio… Intanto sognammo.

Quando eravamo piccoli, e il futuro ancora non ci
turbava, andavamo tutti in branco alla Tiendona.
Le venditrici ci preparavano buste di plastica piene di banane, manghi,
avocado e altra roba.

Ogni volta che si fermava un autobus, montavamo
correndo a contenderci i clienti. Io preferivo le ragazze, mi compravano quasi
sempre qualcosa, bastava che facessi un’espressione allegra e dolce. Andava
bene, a volte vendevo anche quaranta buste… Ma poi ho compiuto dodici anni, ho
cominciato a vergognarmi e ho deciso di cercare altri lavoretti.

Durante le vacanze vado a tagliare il caffè in
certe piantagioni sulle falde del vulcano di Santa Ana. Il lavoro è duro e
pagato male ma, se sai risparmiare, qualche soldo lo fai. Quando va bene, ci
avanza anche qualcosa per i regali di Natale, i petardi e altre cosette che non
servono a molto nella vita, ma la rendono più divertente.

D’estate mia sorella, Mariacristina, a volte
arriva che sta bene, senza una goccia d’alcol, e mi porta da qualche parte.
Soprattutto al mare.

Andiamo presto e facciamo il bagno tutta la
mattina. A mezzogiorno mangiamo pesce fritto col riso e un paio di cocco belli
freschi. Dormiamo un po’, poi riprendiamo a fare il bagno e a giocare con
l’acqua fino al tramonto. Ci piace farci rotolare dalle onde.

Una volta, sulla spiaggia, Mariacristina notò che
ero diventato più alto di lei. Mi chiese quanti anni avevo. «Quindici il mese
prossimo», risposi. Si fece un po’ seria e mi chiese ancora: «E hai già intinto
il biscottino?» Sorrisi. La maggior parte degli amici mi avevano fatto la
stessa domanda. Alcuni mi prendevano anche in giro dicendo che se arrivavo a
quindici anni senza «intingere il biscottino» passavo all’«altra sponda»… Ché
la norma è, per i maschi, farlo prima dei quindici.

«Non ho ancora avuto l’occasione… È difficile…», le dissi. Mi guardò con tenerezza.

Il giorno del mio compleanno mi portò al lavoro
con lei. Era un posto scuro, con molte luci soffuse e colorate. Ero teso, e la
mia tensione crebbe ancora quando Mariacristina se ne andò a preparare il suo
spettacolo.

Verso le dieci, le luci soffuse si spensero e se ne accese una più forte al
centro. Un gruppo di ragazze mezze nude cominciarono a ballare. Gli uomini
bevevano e gridavano porcherie verso quei corpi sudati ed esotici.
Mariacristina ballava molto bene, con una grazia che non le conoscevo. La
vedevo libera. Molte delle altre ragazze mostravano un certo timore, timidezza.
Mia sorella no, si muoveva al ritmo della musica, chiudeva gli occhi e si
lasciava trasportare. Ogni tanto un ubriaco saliva sul palcoscenico e tentava
di toccare le ballerine. Venivano tirati giù a forza dagli altri.

Quando Mariacristina si sedette di nuovo al
tavolo, la accompagnava una delle ballerine: Zoraya, una ragazza più o meno
della mia età, dallo sguardo timido, innocente e curioso.

Mi cominciarono a tremare le gambe, le muovevo da
una parte e dall’altra, mi davano fastidio. Mariacristina notò il mio
nervosismo e decise di allontanarsi. Zoraya non parlava, mi guardava con un po’
di tenerezza. Forse pensava che stava per trasformarmi in un uomo.

Alla fine prese l’iniziativa, avvicinò la sua
sedia alla mia e cominciò a toccarmi la testa e la faccia in un modo che mi
stordiva.

Un’orchestrina suonava cumbia e salsa, o merengue, non ricordo bene. La invitai a
ballare. Ballava meglio di quando era nel gruppo mezza nuda. Ora era padrona di
sé, e di me. Avvicinava maliziosamente il suo corpo al mio e mi faceva sentire
un brivido che ricordo ancora.

Mariacristina tornò con due bicchieri traboccanti
di una bevanda forte. «Cuba libre», ci
disse, e tornò a perdersi in quell’oscurità colorata. Per un attimo la seguii
con lo sguardo. Camminava con disinvoltura, schivando le mani maschili e
ubriache che si allungavano per toccarle il sedere. Guardava con fermezza i
tavoli e, se qualcuno le piaceva, si sedeva a corteggiarlo.

Mandai giù un gran sorso della bevanda, e sentii
immediatamente un calorino che risvegliò le parti del mio corpo che ancora
dormivano. Ne bevvi un altro sorso e un altro ancora, finché non vuotai il
bicchiere, e Zoraya volle prenderne un altro. Questa volta bevvi senza fretta.
Adesso non era più soltanto lei a toccarmi, accarezzavo il suo viso, e anche le
altre parti del suo bel corpo.

Quando notò che ero pronto, mi prese sottobraccio
e mi portò per dei corridoi scuri. Non so da dove, apparve una porta, si apri,
e all’improvviso ci trovammo soli, in una grande camera con un lettone e luci
romantiche. Piano piano Zoraya mi sfilò
i vestiti e fece in modo che io le togliessi i suoi.

Passammo il resto della notte nel letto. Mi
sentivo molto bene, rilassato, così piacevolmente stanco che dimenticai che lei
stava lavorando.

Il
giorno seguente fui il primo a svegliarmi, con un mal di testa fortissimo, ma
con un corpo da uomo. Tutto era silenzioso, in ordine e pulito, come se la
notte non vi fosse stata tutta quella baldoria. La mattina doveva essere già
avanzata. Guardai attraverso la finestra il giorno azzurro e il sole forte: San
Salvador era in piena attività.

Mi
sedetti in un angolo e cercai di ripensare alla notte precedente. Tutto si agitava
dentro di me, un po’ per il Cuba libre, ma
più per il piacere, l’emozione e il torpore che Zoraya mi aveva provocato.

Ero
immerso nei pensieri, quando una mano fresca mi toccò la spalla. Era
Mariacristina: mi diede il buon giorno e mi servi un po’ di caffè nero senza
zucchero. «Come piace ai machos», commentò,
sempre con il suo tono scherzoso e materno. A poco a poco cominciarono ad
alzarsi le altre ragazze. Misero al centro della grande sala dei tavolini e tra
risate, caffè e fumo di sigaretta scherzavano, strillavano e raccontavano
aneddoti sui clienti della sera prima. Qualcuno notò che Zoraya non si era
ancora alzata, guardarono mia sorella e sorridendo con malizia dissero che era
colpa mia, che chissà cosa le avevo fatto: «Che barbaro, tuo fratello!». E
ridevano. Arrossii, e non dissi una parola.

Mariacristina, per togliermi dall’imbarazzo, mi chiese di andare a chiamare
Zoraya. La trovai che dormiva con una tranquillità che faceva invidia. Era
completamente nuda. La sua pelle era liscia e tenera, color ambra. I capelli
neri, lunghi, con dei riccioli morbidi che facevano venir voglia di morirci in
mezzo.

Le
baciai la pancia. Si svegliò lentamente. Allungò la mano verso il mio viso e mi
accarezzo. Quando si alzò, mi spogliò di nuovo, questa volta per farsi
accompagnare al bagno. Lasciammo a lungo che l’acqua fresca scorresse sui
nostri corpi caldi, mentre ci insaponavamo delicatamente l’un l’altra.

Freschi,
vestiti, profumati e innamorati, ci riunimmo agli altri. Il nostro odore si
confuse con un buon odore di pollo arrosto, che le cortigiane avevano ordinato
per il pranzo.

Tornai
alla comunità la sera. Piovigginava. I deboli lampioni pubblici davano un tocco
di mistero e di tristezza alle gocce d’acqua. I cani, come sempre, abbaiavano,
si azzuffavano e a poco a poco si impadronivano del silenzio.

Koki stava accucciato in un angolo accanto alla
casa, al riparo dalla pioggia. Quando mi vide, mi saltò addosso sporcandomi
tutto. Riuscii a fatica ad aprire la porta. Koki corse dentro e continuò a
girarmi intorno come impazzito. Aveva sentito l’odore del pranzo nella mia
borsa. Senza farlo aspettare di più, gli diedi le ossa del pollo. Ingoiò tutto
in un attimo. Quando ebbe finito le ossa gli aprii la porta, lasciandolo
raggiungere gli altri padroni della notte.

Il pappagallo aveva abbastanza mangime, nella
gabbia. Attendeva impaziente il suo telo, un pezzo di stoffa guatemalteca che
mi aveva regalato mio cognato. Siccome era troppo grande come cencio per le tortillas, e troppo piccolo per il
letto, avevo deciso di usarlo per la sua gabbia. Così tutti i giorni, quando il
sole tramontava, l’uccello esigeva il suo drappo multicolore.

Stanco, mi misi subito a dormire.

La mattina dopo mi svegliai tardi, ma decisi di
andare ugualmente a scuola. Avevo già perso un giorno e non volevo mancare
ancora, tra l’altro era venerdì e sicuramente avrebbero dato dei compiti.

In classe i miei compagni ascoltavano attenti la
lezione di matematica. Tentai inutilmente di concentrarmi. Pensavo a Zoraya, a
ogni cosa di lei, e pensavo a Mariacristina, a com’era contenta quando mi
vedeva contento.

Credo che non ci sia un lavoro più adatto a lei,
perché ciò che ama di più è fare qualcosa per gli altri. Nella comunità è molto
amata, e non solo dagli uomini. Durante la guerra, più di una volta aiutò chi
faceva parte del movimento. Li nascondeva in casa o al lavoro, e gli prestava
denaro.

Nel 1989, quando ci fu la grande offensiva
guerrigliera per tutto il Paese, la nostra casa si trasformò in un piccolo
ospedale, e anche in nascondiglio di armi. Un’altra volta, durante una delle
solite epidemie di colera, Mariacristina smise di lavorare per un mese. Insieme
al parroco, si dedicò a curare anziani e bambini. I più gravi li portavano
all’ospedale o, in casa, li nutrivano, o semplicemente li vegliavano finché
guarivano o morivano.

Sono molto amici, il parroco e mia sorella. Quando
lui viene a sapere che Manacristina è a casa, arriva subito. Si stende
sull’amaca e si fa preparare il caffè.

Chiacchiera un po’, sulla gente, sul paese, sul
suo villaggio… A volte racconta aneddoti su sua madre. E poi si dedica a lunghi
giochi con il pappagallo: uno dei suoi preferiti è insegnargli parole in
italiano.

È divertente osservarli ed ascoltarli, soprattutto
il pappagallo. Muove la testa da una parte e dall’altra e ripete le parole, uno
strano spagnolo senza le esse. Il curato ride e insiste che è italiano.

È buffo come questi animali richiamino
l’attenzione di tutti, più che i cani, i gatti o i cavalli. Il pappagallo è
simpatico, indiscreto e spontaneo. Mia sorella la bacia, le morde le guance, le
orecchie o le tira i capelli. Quando lei si lamenta perché le ha fatto male,
lui se la ride.

Con i bambini, se gli vanno a genio ci parla,
fischia o imita i loro urli, le risate. Con il parroco si comporta in un altro
modo, credo che lo consideri un amico, un solitario come lui. Quando si
addormenta sull’amaca, il pappagallo si accoccola sul suo petto e dorme con
lui. Cosa che non fa con nessun altro.

Alle cinque del pomeriggio passano nel cielo i
pappagalli selvatici, con le loro grida millenarie: lui li saluta a pieni
polmoni. Diverse volte gli ho aperto la gabbia e la porta della casa, per
fargli raggiungere i suoi. Ma non ci prova nemmeno. È un pappagallo domestico,
cittadino, uno della nostra comunità.

Koki è diverso, pochi lo amano, molti lo temono.
Non lo maltrattano, non ne dà motivo. Però, se qualcuno cerca di entrare in
casa con la forza o per motivi diversi da una visita amichevole, è pronto ad
impedirlo, e siccome è piuttosto grosso fa paura.

Era arrivato alla comunità già grande, lo avevano
regalato a Mariacristina. Nei posti come quello dove lavora mia sorella è
difficile tenere un cane come Koki, che è vagabondo, un cane dallo spirito
libero. A volte sparisce per giorni, scende lungo il fiume, dietro a qualche
cagnetta in calore. Torna magro magro, con qualche ferita e la faccia felice di
chi ha goduto della propria libertà. Gli faccio il bagno, gli do da magiare e
giochiamo. Non lo ho mai picchiato, è un amico.

Sia il pappagallo che il cane piacquero a Zoraya,
e Zoraya a loro. Avevo paura che Koki la mordesse, quando arrivò così
all’improvviso.

Era martedì pomeriggio. La mia siesta fu
interrotta dal cane, che si alzò di scatto e corse alla porta. Bussavano forte
e chiamavano il mio nome. Aprii e la cortigiana era li, col suo sorriso nervoso
e la curiosità negli occhi. Il suo corpo era bello, infilato in un paio di
jeans e una camicia bianca, ricamata all’altezza del petto. Le labbra colorate
di rosa si sposavano bene con le gote vestite di sole.

Quando vide l’animale si spaventò, ma Koki percepì
la mia gioia, scodinzolò e le sorrise. Le offrì una bibita al tamarindo. Bevve
in fretta e disse che era molto buono, «un po’ dolce», ma molto buono. Le
spiegai che le cose dolci sono una delle mie debolezze, lei sorrise e disse che
allora mi sarebbe piaciuto il regalo che mi aveva portato. Tirò fuori da una
borsa dei dolcetti ripieni di miele di ananas. Avevano un aspetto così
invitante che anche il pappagallo cominciò a strillare per avere la sua parte.

Mentre l’uccello mangiava dalla mia mano, chiesi a
Zoraya come aveva fatto per arrivare alla comunità, e dove aveva trovato il
coraggio. «Mi ha portata Mariacristina», rispose. Proprio in quel momento entrò
mia sorella, tutta allegra, con un paio di birre fresche.

Da: Anime in Viaggio
autori vari

© Edizioni Eks&Tra 2002
e-mail: redazione@eksetra.net www.eksetra.net


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