Fogli sbarrati, di Yousef Wakkas © Edizioni Eks&Tra 2002

il mondo delle carceri visto da un migrante carcerato.
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Lettera ai lettori di Yousef Wakkas

C’è sempre un tempo e un luogo giusto perché qualsiasi cosa abbia principio e fine. L’inizio di un passo che delimiti quello precedente, che lo estingua, che lo cancelli per sempre. È il semplice desiderio di un carcerato? No, molto di più. In un mondo che non accoglie tutti, è ovvio che alcuni rimangono dentro, ed altri, per vari motivi, vengono esclusi, messi al bando, emarginati fino al punto di dimenticare di vivere. Se vogliamo usare un termine calcistico, possiamo affermare che questi emarginati si trovano quasi sempre in una posizione di fuori gioco, e senza accorgersene (o quasi), commettono dei falli pericolosi. Per fortuna, anche se l’arbitro li espelle dal gioco di gruppo, hanno sempre la possibilità di rimettersi in regola e ritornare in campo. In poche parole, non mancano le alternative. Bisogna aggiungere che, a differenza degli immigrati che potrebbero essere negati una volta, chi commette un reato, corre il rischio di essere negato per sempre (interdizione perpetua ai pubblici uffici, il ritiro della patente, libertà vigilata..).

Anch’io, come tanti detenuti che hanno vissuto un’esperienza analoga, o la stanno vivendo ancora, sovente mi sono trovato a fare i conti con domande del tipo: fino a che punto spinge il senso di colpa a cambiare rotta, e questo mio cammino è forse sufficiente per farmi perdonare? Personalmente, nonostante i miei impegni nell’ambito delle attività lavorative all’interno del carcere (icone, ceramica, scrittura, corso di tecnico di sviluppo di applicazioni grafiche e multimediali, e lavori amministrativi come lavapentole, cuoco, aiuto cuoco, scopino ecc.) non saprei ancora come rispondere a domande del genere, sebbene sia consapevole di aver commesso il male e di aver mancato di fare il bene in parecchie occasioni. Inoltre, avevo cercato il benessere e la ricchezza nei luoghi e negli ambienti della decadenza, convinto che certi simboli del consumismo, mi avrebbero dato piacere e un futuro stabile, ma non erano altro che causa di smarrimento e dolori.

Durante questi anni, spesso ho ceduto per sopravvivere, ho vissuto nell’attesa di un miracolo che potesse tirarmi fuori da questo groviglio tenebroso, e alla fine, ho deciso che è più vitale agire che non agire, convinto che se non si vive come si pensa, si finisce col pensare come si vive, appunto com’è successo a me. Strada facendo, si presentano tanti muri, questi, siano alti o bassi, vanno abbattuti. Ripensandoci adesso, vedo tutto come un film di bassa qualità, nel quale ho avuto una parte pessima che non intendo più recitare, perché la malvivenza mi mette tristezza, mi dice che non c’è niente di bello nella vita, e che il bello è nei luoghi angusti, nel rischio gratuito della vita, nel delirio del successo e della vittoria immaginaria. Con la scrittura, invece, ho trovato quello che mi mancava, le radici del mio malessere. Inoltre, ho trovato la vita.

Ma perché scrivere, e che cosa rappresenta la scrittura per un carcerato? Scrivere, vuol dire sognare, visitare luoghi lontani, fare compagnia a persone sconosciute, dialogare, abbattere i muri che ci dividono, superare gli ostacoli che c’impediscono di capirci l’un l’altro. Poi, nel mio caso, significa soprattutto, ritrovare e quindi ricomporre un’esistenza che, ad un certo punto, mi è sembrata annichilita.

Inoltre, la scrittura ci colpisce e ci scolpisce, ci rende quelli che siamo, quelli che saremo in futuro. Le parole, come sta succedendo da anni con la nascente letteratura dei migranti, sono trasformate in colori vivaci, suoni di rabbia e di gioia che echeggiano dalle pianure dell’Asia, alla savana dell’Africa, dai ghetti dell’Europa dell’Est, fino alle montagne maestose dell’America Latina. Cercare il futuro nella calca del passato, non è stato facile, sebbene siamo stati straordinari nel far palpitare di verità e di amarezza, d’amore e dolcezza le nostre poesie, i nostri racconti, superando con successo l’aggravante di essere migranti. In passato, come in presente, la storia umana è stata costruita pezzo per pezzo, da ondate di migrazioni. Tutti andavano dappertutto, tutti cercavano di trovare una patria nella patria, dimenticando che la vera patria è quella che abbiamo dentro di noi, quella che ci ostiniamo a negare, perché rivela la nostra vera identità di appartenenza alla razza umana, quella che ci unisce e quella che, stranamente, ci divide.

Anni fa, quando vagavo ancora da un paese all’altro all’inseguimento di un sogno utopico, mi è capitato di incontrare una persona nello scompartimento del treno che faceva la spola tra la capitale della Bulgaria e quella rumena. Già subito dopo la partenza, era scoppiata una rissa tra noi due per via del suo comportamento sfacciatamente razzista, tanto per citarne una, mi aveva dato dello “Schwartz”, poi, aveva insultato un gruppo di zingari che, per mancanza di posti, erano accalcati nel corridoio, davanti alla porta dello scompartimento. Arrivati in frontiera, i poliziotti rumeni ci avevano fatto scendere dal treno, perché il suo visto d’ingresso era scaduto, mentre io, come il solito, non ero in regola, per di più, ero ben noto a loro come contrabbandiere di articoli che mettevano a rischio la sicurezza dello Stato, come i blue jeans e i cosmetici per donne.

La temperatura era sotto zero e soffiava un vento gelido proveniente dal Siberia. La guardiola, dove ci avevano rinchiuso, era senza riscaldamento e i vetri delle finestre erano tappati con fogli di cartone e sacchetti di plastica. Dovevamo passare la notte lì dentro durante l’attesa del treno di ritorno in Bulgaria.

Né la bevanda alcolica, né il formaggio e il prosciutto, riuscirono ad attenuare la morsa del freddo. Eravamo seduti uno di fronte all’altro, scambiavamo sguardi minacciosi, pronti a scattare al minimo segno di provocazione. Dopo un po’ di tempo, i nostri corpi incominciarono a tremare violentemente. Era chiaro che da lì a poco, saremmo morti assiderati. Per impedire lo spettro della morte che incombeva su di noi, non avevamo altra scelta che riscaldarci a vicenda, ma l’orgoglio e il rancore sembravano non lasciare il minimo spazio per simili ipotesi. Lui, perché era sulla cinquantina, si rassegnò prima di me. Istintivamente, corsi ad aiutarlo, offrendogli gli ultimi sorsi del cognac che mi erano rimasti nella bottiglia. In seguito, passammo la notte riscaldandoci con il nostro calore corporeo. Verso l’alba, quando il treno giunse in stazione, il mio compagno, trovandosi di nuovo in mezzo alla gente che mangiava e sorrideva, scoppiò in un pianto torrenziale.

Durante il viaggio, parlando della vita, dei nostri problemi, delle nostre famiglie, scoprimmo di essere quasi identici, persino nel gusto verso il sesso femminile. Ad entrambi piacevano le brune e siccome al night, dove avevamo festeggiato la nostra salvezza, ce ne era una sola, litigammo nuovamente, ma questa volta come due vecchi amici.

 

Carcere di Busto Arsizio, 10.06.1998