Meglio così – Alexandra Mantovani

Il sole si stende pacato su una distesa di piccole case tutte uscite dallo stesso stampino, tutte circondate da un giardinetto, tutte dalla porta d’entrata pitturata di verde scuro e con i tetti spioventi di tegole rosse. La strada deserta si stinge all’orizzonte, anch’esso incorniciato dalle medesime cassette sparse dappertutto. Quasi un’ora di viaggio, sfrecciando oltre i limiti della città conosciuta, per arrivare davanti alle porte sbarrate della Galleria491 che oggi offre solo “corso di yoga per coppie incinte”. Il fioraio ambulante mi regala un gentile saluto e scrolla le spalle quando gli chiedo quando, e se aprirà la mostra. Dopo cinque giorni questo è il primo momento in cui mi fermo per davvero, in cui il prossimo passo pianificato è bloccato dalle due ore di attesa per il prossimo treno. Imbottigliata dal timido caldo del sole di mezzogiorno fra mille casette tutte uguali. Scelgo un mazzetto di margherite che mi porto via avvoltolato in un ritaglio di giornale dal quale mi ammiccano sbracciandosi William e Kate.

C’era ancora la neve quando abbiamo parcheggiato la macchina nel cortile interno della grande casa nella Sollingergasse. Salendo le scale mi sentivo ribattere in tasca le chiavi dell’appartamento, ma arrivataci davanti ho preferito suonare e farmi aprire da Igor. Anna non era andata a lezione quel giorno per potermi salutare e Thomas che comunque non ci andava mai a lezione si era svegliato a posta. L’intero appartamento era impregnato dell’odore di fumo stantio da giorni e di quello emanato dal liquido semitrasparente che sgocciolava in esasperante lentezza dalla macchina del caffè a percolazione che aveva preso il posto della mia mocca da quando io me ne ero andata.

Quella che era stata la mia stanza si era trasformata in una discarica per giornali sfogliati e ripiegati malamente, bottiglie di birra vuote e in mezzo a tutto ciò, il materasso sul quale da qualche mese dormiva Igor, sfrattato dalla camera in comune con Anna. Emarginati in un angolo, quasi intatti, stavano appollaiati quei pochi oggetti con i quali mi ero circondata nel tentativo di sentirmi a casa.

“Perché non hai dormito nel mio letto anziché startene lì per terra?” ma Igor scrolla solo le spalle e prende un altro sorso dalla tazza tutta sbeccata che avevamo già rotto sulla via di ritorno dall’IKEA. Si caricano in fretta i pochi scatoloni e il materasso nel bagagliaio della macchina che a chiuderlo è l’unico rumore che spezza il silenzio in cortile.

Le testoline delle margherite cadono stanche sul volto di William. Poggio il mazzetto sulla panchina accanto a me e mi asciugo nei jeans la mano sudata che ha stropicciato la carta di giornale.

“Allora… Partiamo?”

“Aspetta, le chiavi!” risalgo di corsa le quattro rampe di scale piene di spifferi mentre lui mette in moto la macchina e dalla porta ancora socchiusa sento come ancora una volta Anna si rivolge a Igor in tono implorante. Cerco di toccare il meno possibile il tappetino davanti alla porta che era stato rosso quando l’avevamo scelto – anche lui all’IKEA – e lo alzo per nasconderci sotto la chiave.

La porta si apre di scatto e Thomas mi fissa senza dire una parola. Gli porgo il mazzo di chiavi dal quale penzola dondolando un orsacchiotto di pessimo gusto con un enorme cuore sulla magliettina striminzita, ma lui invece delle chiavi mi afferra il polso e lo tiene stretto. Per qualche secondo, in cui il sangue mi batte rumoroso nelle orecchie, restiamo in un silenzio che ha un che di sfida, poi dice: “Meglio così” e io scendo le scale.

 

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