Il crepaccio – Magdalena Maria Kubas

Il crepaccio

di Magdalena Maria Kubas

Nella crepa del muretto in cemento, in quella fenditura che negli anni era diventata sempre più profonda tanto da mettere in allerta gli anziani del condominio, in quello spazio minimo e grigio, diventato nero dopo un paziente deterioramento, in quello spiraglio che rende l’idea di ciò che resta dei bisogni estetici della media periferia cittadina, su quell’offesa al buon gusto comune, ecco, quest’anno si è abbarbicato un fiore. Ma dovreste vederlo: è modesto e inodore ma nessuno lo smuove da lì. I piccoli petali rosa sono gracili, ciascuno con una chiazzetta bianca al centro, invece le radici e gli steli sottili si sono espansi tentacolarmente, in tante direzioni, prendendo possesso della crepa. Niente di trionfale, una semplice affermazione della vita.

– Stai camminando? – Sì, perché me lo chiedi? Potresti girarti.
– Non ora. – Giusto, forse non vale la pena. È lunga?
– Cammina, non dire sciocchezze. – Sono stanca, voglio fermarmi.
– Dobbiamo superare il fiume. – Allora potremo riposare? Mi sembra di svenire.
– L’aria è fresca qui, resisti. – Sento un calore che mi avvolge tutta, un calore grave che addormenta.
– Guardami e cammina. – Li vedi quei fiori spenti qui intorno? Le mie palpebre pesano così tanto…
– Non guardare, fra poco sarà tutto finito.
Era stato stabilito che l’uomo non avrebbe potuto osservare il paesaggio. In ogni caso, la sua unica preoccupazione era lei. Non capiva il suo male ma sapeva che attraversando il fiume si sarebbero salvati entrambi. Non poteva voltarsi ma l’orizzonte della valle che si vedeva distesa davanti permetteva di capire che nessuna goccia di calore abitava questo mondo. I campi erano d’un viola livido, emanavano l’aura lattea: tutto insieme ricordava lontanamente la foschia che montava al tramonto sopra i campi della sua infanzia. Man mano che si sarebbero allontanati dal centro tenebroso quell’ambiente avrebbe perso la forza cui lei era soggetta, l’uomo lo sapeva. Allo stesso tempo lei percepiva il sorgere in sé di una nostalgia per quell’attrazione.
– Dove mi porti? – Al fiume, ci sei già stata.
– Giù nella valle non c’è mai stata questa pioggia che punge. Sai, là sono rimasta sempre sola. Sopra di me la faccia dei cieli ad assorbire ogni luce e ogni colore. Come sembravano lontane le giornate di sole, allora. Ma anche quei piccoli lutti quotidiani, ciò che prima era morto in me, a poco a poco.
– Non dobbiamo parlarne, noi esistiamo ancora. – Già, hai sempre avuto paura di quel varco che pure esisteva tra noi. E ora non mi vuoi guardare.
Per trovarla l’uomo non aveva esitato ad attraversare il solco tra i due mondi, ma le parole di lei lo fecero tremare. Sospettò che il tempo che li aveva divisi l’avesse resa per sempre meno umana. Seppur momentaneo, questo pensiero lo fece dubitare di tutti i rischi corsi per raggiungere l’immagine di lei che inseguiva da quando l’aveva persa. Pur sapendo che mentre si allontanavano dal centro tenebroso il corpo della donna avrebbe perso lentamente l’evanescenza dell’oblio, ebbe una tentazione dolorosa, desiderò voltarsi. Era stato stabilito: non poteva guardarla. Da quando lei era venuta a vivere in quell’ombra, nel tempo che non scandisce, non conosce cesure, ma si espande lentamente come una ragnatela fitta e grondante di lugubre umidità, da quando era là e veniva pian piano esiliata dai sentimenti e pensieri umani i contorni della sua figura di carne si facevano sempre più sfumati ad opera di una forza lenta ma costante. La prepotenza esercitata dalla morte sulle nostre vite si compiva attraverso la memoria che estingue i particolari del corpo: le impronte digitali, quelle leggere rughe che appaiono ad ogni moto del viso, degli occhi, del collo, la pelle screpolata delle mani. Ma in quel istante anche la sua voce, le sue parole covarono qualcosa di ignoto.
Per ritrovarla si era imposto di ricordare senza perdere il minimo dettaglio. Questo riempì del tutto la sua vita e gli permise di superare il fiume, come era stato deciso senza venire a contatto con l’acqua: la frattura tra i due mondi non poteva essere violata. Trovò l’astuzia di ingannare il vegliardo traghettatore: incappucciato, con gli occhi bassi, con il denaro pronto assieme ad altri trasportati remò contro il lamento dei condannati a morte.
All’improvviso udì lei recitare:
– Vana sono divenuta, ombra che muta luogo nella fiamma della morte perpetua. Sai, la pace è non sentire il dolore delle cose toccate.
Prima che lui riuscisse ad attraversare il confine lei si era già assuefatta all’ignavia che abitava quella pianura. Nonostante questo, resistevano nella donna alcuni ricordi più intensi, perciò lo seguì.
– Il dolore non è in noi. A volte un oggetto appena sfiorato trasuda l’afflizione che lo abita, un albero può covare buio e spirare un’aria tetra e incutere timore.
Quando l’uomo aveva deciso di intraprendere il viaggio sapeva soltanto che sarebbe giunto sull’orlo del proprio mondo, in riva al fiume. Arrivato nella pianura elisia camminò senza mai riposarsi, finché non riuscì a scorgere l’amata tra gli aloni di luce opaca e argillosa che confondeva i già sfocati contorni delle figure erranti. Ora, man mano che si allontanavano dal centro della valle la donna cominciava a percepire lo stato in cui si era trovata. Lui riconobbe o forse solo presentì un turbinio sommesso intorno a loro due, come se stessero tornando a esperire il moto del tempo reale. Il terreno su cui camminavano diventò sempre più paludoso, sparirono i fiori grigio-violacei. Nella creta pallida e molliccia una scanalatura divideva il cammino dai larghi stagni dai contorni irregolari in cui l’acqua assomigliava al latte diluito e infettato dal verde pistacchio smorto della muffa. L’uomo sentiva come un sudore che gli irritava il palato mentre aspirava l’aria. Ma lentamente l’orizzonte acquistava una consistenza umana.
– Non è in noi nemmeno la gioia della vita? L’uomo desiderò parlare con lei come una volta.
– No. Seguì un silenzio, disagevole per lui.
– È inutile la lotta contro l’oblio cui siamo destinati – riprese la donna girandosi per ammirare il paesaggio, umido e impassibile -, è fatale ogni sfida lanciata agli inferi. Le uniche ombre della nostra esistenza che ho voluto sottrarre all’Ade sono le nostre giornate senza storia – ammise in un istante di sincerità.
Pericolò la rigida spaccatura tra i due mondi. L’uomo era riuscito ad ottenere la sincerità dell’ombra che era venuto a richiamare dalle tenebre. La via iniziò a salire, sarebbe stata l’ultima fatica di questo viaggio che facevano insieme, ma separati. In alto si potevano scorgere dei papaveri: attraverso il solco che divideva i due mondi ogni tanto il vento portava mucchietti di terra e qualche seme. Il papavero, un’erbaccia sanguinosa biasimata dai contadini, era l’unica forma di vita organica diffusa sul confine dell’Eliseo. La donna continuava a deplorare l’uomo, perché non la guardava. Ad un certo punto tacque. Improvvisamente, come chi deve salutare un posto in cui ha vissuto per molto tempo, disse:
– Non ti volteresti nemmeno per guardare la strada che abbiamo fatto?
Poi, come se niente fosse intonò una canzoncina infantile. Lui sorrise tre sé ed ebbe un moto di tenerezza: la sua voce era umana e giocosa, con una nota rauca nel registro alto del ritornello. Anche lui provò a emettere suono, ma non erano intonati. Si fermò. Trascorso un lungo secondo, il canto della donna gli si avvicinò. Lui si volse, la guardò, tremò. Cercò di accordare la sua voce a quella della donna. Si sorrisero, imbarazzati. In un battibaleno la figura della donna cominciò ad allontanarsi rapidamente, tra i due crebbe un abisso. Il viso della donna un po’ pallido, come nei ricordi dell’uomo, arrossì per l’istantanea vergogna di vedersi osservata dagli occhi dell’amato. Poi, ammantata da quel tempo immoto da cui lui aveva deciso di salvarla, iniziò ad assumere una luminosità livida e terrosa. L’uomo fu rigurgitato oltre il confine degli inferi senza poter fare un minimo movimento.
S’inginocchio, appoggiò la fronte sull’umido prato, riprese a percepire le voci gracidanti dell’estate di insetti e di piante, il moto con cui il vento accarezzava questo universo ardente. Si chinò ancora, prese in mano un pugnetto di terra. Nello stesso istante in cui sentì nella mano sinistra questo grumo di materia inanimata, un’esalazione di calore si levò e dileguò tra le sue dita. Gli restò sulla pelle un gelido senso di mancanza. Anche lui era già un’ombra alla ricerca di segni che la sua vita fosse reale e che durasse ancora.

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